In questi giorni il Movimento 5 Stelle e la Lega,
autentici vincitori della ultima tornata elettorale, stanno cercando con grande
difficoltà di comporre una base programmatica ed una compagine di Governo per
tradurre il consenso ricevuto in azione politica. E’ un loro diritto ed anche,
in un certo senso, un dovere.
La riflessione che intendo fare non parla di questo,
il programma non lo ho ancora letto perché aspetto di avere un testo
consolidato, se mai arriverà. Neppure è diretto in modo specifico al modo in
cui le due forze politiche stanno portando avanti il dibattito. Si tratta di
una osservazione molto più specifica e mirata: l’abuso di linguaggio che si compie quando, per ragioni di
comunicazione, si utilizzano termini fuori del loro campo di appropriatezza.
Quello che si sta scrivendo al tavolo che viene
frequentemente ripreso tra i due Partiti (quindi tra le due “parti”) è infatti un
accordo di coalizione di natura squisitamente politica, mentre l’utilizzo del
termine “contratto” lo richiama implicitamente
al campo di significati di un rapporto tra privati. Il modello tedesco, cui
qualche volta si richiama il dibattito, parla in proposito di Große Koalition,
mentre il relativo accordo è stato chiamato dalla stampa tedesca Koalitionsvertrag
(accordo di coalizione). Anche in questo caso, peraltro, il termine Vertrag
significa sia ‘accordo’ o ‘trattato’, sia ‘contratto’ a seconda della sfera di
senso, in politica significa ‘trattato’ o ‘patto’ mentre in economia significa
‘contratto’.
La questione può sembrare nominalistica, ma chiamare
un Accordo di Coalizione politico,
“contratto”, non è innocente anche se sta entrando nell’uso comune. Anzi, non è
innocente proprio perché sta entrando
nell’uso comune. Un ‘contratto’ è un antico istituto di diritto privato che si crea
tra due parti per regolare (costituire, modificare o estinguere) un rapporto
e/o uno scambio, fornendogli tutela giuridica e relativi obblighi (art. 1321
c.c.).
Il termine viene dal latino ‘contrahere’, al
participio passato ‘contractus’, che significa ‘trarre insieme’, ‘riunire’, ed
indicava un rapporto giuridico scaturente da un atto lecito. Viene successivamente
istituito nel codice napoleonico come convenzione tra una o più persone, ma questo
lo restringe alla regolazione della proprietà.
Dunque il ‘contratto’ è una forma, più o meno
formalizzata, di regolazione consensuale tra privati di beni o attività di cui
dispongono in quanto proprietà o titolarità.
Ma qui si parla di altro.
Si parla di un accordo di alleanza tra forze politiche, che dispongono di un potere (e quindi possono accordarsi su di esso) su mandato ricevuto in libere elezioni. Non dispongono della materia su cui c’è accordo nel senso proprio di una proprietà di cui possono fare commercio. Si tratta, insomma, di un accordo per il quale è appropriato riferirsi alla sfera del diritto pubblico e non a quella del diritto privato, anche se la distinzione sfuma in alcuni casi. Si tratta di un “Patto”, quindi, anche un compromesso, ma comunque non uno scambio di proprietà.
Noi, infatti, non siamo di proprietà dei contraenti, e
di noi si sta parlando.
Ci troviamo, in questo abuso di linguaggio, su uno dei
portati, ancora una volta, di una lunga evoluzione dalla regolazione pubblica,
e dalla definizione delle relative materie, alla egemonia del mercato come
forma principe di regolazione, e dunque delle sue forme giuridiche come forme
primarie. Non si tratta solo di “comunicazione” (anche se lo è, in parte), non
si tratta di una pragmatica scelta di parole che suonano meglio alle orecchie
abituate ad una sistematica svalutazione della politica e dei politici, che
l’egemonia neoliberista ha promosso da decenni. Si tratta proprio di questo, dell’indebolimento della
funzione pubblica, in favore della regolazione privata.
Come mi ha scritto, facendo obiezione al mio discorso,
un’amica competente: “anche io avrei detto accordo ma ‘accordo’ è un termine
utilizzato correntemente in politica e dai politici, quindi lo hanno
volutamente e scientemente scartato. Intesa o negozio giuridico che sarebbero
appropriati non sono immediatamente comprensibili ai più. Poi a molti elettori
dei partiti coinvolti il ‘contratto con gli italiani’ non dispiaceva affatto.
E' un modo immediato e comprensibile per dire che si prendono un impegno. E'
comunicazione”.
Sfortunatamente questa obiezione non chiude la
questione, ma la apre. La
comunicazione veicola significati e prepara usi. Questo è solo l’ennesimo
esempio di invasione del linguaggio del diritto privato, nella fattispecie -ma
non solo- ispirato all'economico, nel
campo del diritto pubblico. Si tratta di un percorso avviato da decenni, proprio
insieme alla generale ritirata della funzione pubblica ed all'estensione
simmetrica della sfera di regolazione del mercato come paradigma. Di questa
evoluzione è componente inseparabile e strutturale.
Tuttavia oltre ad essere un esempio di una dinamica
ben più ampia, il “Contratto per il governo” è anche un ulteriore gradino. Il
caso ricordato del “Contratto con gli italiani” di Berlusconi era infatti
diverso: in quel caso si trattò di una operazione simbolica di
disintermediazione nella quale un individuo, spogliandosi del ruolo
coalizionale politico, si faceva personalmente garante - sul proprio onore, per
così dire - di un rapporto che istituiva con i cittadini presi individualmente. Anche in quel caso l'operazione era
tecnicamente eversiva della logica della rappresentanza, ma qui, invece, ci
sono proprio due forze politiche che discutono collettivamente
(rappresentandosi anche in tal modo) e determinano l'accordo o l'intesa usando un
termine che indica l'impegno, ma come se
fosse uno scambio tra qualcosa di cui essi
stessi dispongono.
Questo ‘accordo’ è invece istituito nell’ambito di una
funzione pubblica primaria, come la direzione politica del governo, e non si
sta in un governo come privato. Non appena i privati seduti a quel tavolo del
programma accettano di ricoprire una carica pubblica (e gli stessi leader di
Partito sono figure pubbliche in
quanto quando un partito raccoglie le firme per partecipare alle elezioni e
viene iscritto dal tribunale in una competizione elettorale assume, per ciò
stesso, una funzione costituzionale) smettono, nell'esercizio della specifica
funzione, di essere liberi come privati. Il patto politico a base dell'azione
di governo non vincola, in altre parole, i signori Luigi Di Maio, nato il 6
luglio 1986 ad Avellino, e il signor Matteo Salvini, nato il 9 marzo 1973 a
Milano, ma i partiti politici “Movimento
5 Stelle” e “Lega”, come si
desume anche dal fatto che sopra la scritta ci sono i loghi dei movimenti.
Del resto se fosse un vero contratto, allora la
violazione di qualche clausola sarebbe impugnabile in tribunale, per cosa?
Risarcimento di danni? A favore di chi?
Se fosse propriamente un contratto, e quindi regolasse
solo le relazioni tra uno o più singoli (includendo nelle persone anche quelle
giuridiche, ovvero aziende, associazioni, etc.) restando entro la loro sfera di
disponibilità, il documento in effetti non avrebbe nulla di pubblico. Ma
il punto è proprio che la materia di cui si tratta (programma politico di
governo, vincolante l'azione pubblica del Consiglio dei Ministri) non è davvero
nella disponibilità delle ‘persone’ che lo stanno firmando, nello stesso modo
in cui lo è la proprietà che è regolata da contratti. Si tratta invece di un impegno
politico, un patto o un accordo, che è demandato alla sfera pubblica perché sia
riconosciuto, che vincola quindi ‘debolmente’ in quanto la sanzione è
esclusivamente politica (perdita di reputazione).
La complessiva dismissione del linguaggio politico
assume qui un ulteriore grado.
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