Il libro di Jean-Claude
Michéa è del 2017 e come corrisponde alle consuetudini dell’autore si compone
di un breve testo in forma di intervista e di alcuni “scoli” che ritornano sui
temi affrontati, approfondendoli in percorsi paralleli. Lo scopo del testo è
sviluppare una serrata critica della confusione tra la logica del liberalismo,
individualizzante e figlia di un universalismo astratto e razionalismo
totalitario, e quella del socialismo, resistente alla riduzione dell’uomo a
macchina di valorizzazione e desiderio subalterno e della comunità umana alla
mera somma delle sue parti. Lo scopo è, in altre parole, aiutarci a “recuperare
il tesoro della critica socialista originaria”. Ciò lavorando sia sulla
tradizione che ci viene da Marx come da quella che scaturisce dalle altre fonti
del pensiero socialista, come Proudhon, per il quale spende alcune belle
pagine.
Ancorandosi alla lettura di Lohoff e Trenkle, e la loro
“critica del valore”, Michéa sostiene che il problema di questa divergenza è
molto profondo, che, cioè, c’è una coerenza radicale tra la società dei
consumi, il modello umano che crea, e la spinta interna necessaria di ogni
economia che sia liberale di orientarsi alla mera valorizzazione illimitata del capitale. L’estensione
all’infinito del processo di valorizzazione del capitale determina
necessariamente quello che Michéa chiama “il regno dell’assolutismo
individuale” e quindi la perdita continua e progressiva di tutti valori
tradizionali. Questi per l’autore sono organizzati da una logica di reciprocità
che Mauss ha indentificato con il triplice legame del “dono”; una ‘istituzione
totale’ che sta alla radice del legame sociale: un legame in cui l’attesa
obbligante di restituire non soggiace ad una metrica astratta, quella del
‘valore’, ma fonda proprio nel legame
che crea. Lo scambio differito individua, in altre parole, un obbligo di natura
sociale e morale che include in esso, in qualche modo formandola, l’intera
“persona”. Come insegna Mauss, il valore del dono, lungi dall’essere astratto,
sta proprio nell’assenza di garanzia da parte del destinatario, cioè nel
controdono (che quando si verifica consolida il rapporto, quando è tradito lo
lacera). Per capirlo bisogna uscire dall’economico e fare mente alla dinamica
dell’amicizia, o dei rapporti sociali parentali allargati; la dinamica del dono
crea ‘fratellanza’. Anzi nella logica del dono le fratellanze sono sempre
presenti ed implicate, in ogni scambio che non è regolato immediatamente nella
logica del contratto sono sempre persone morali che si incontrano e sempre
rappresentano i legami sociali che li collegano e separano. Per questo Mauss,
in “Saggio
sul dono”, parla di “sistema di prestazioni totali”. Un “dare”, “ricevere”,
“ricambiare”.
Certo, lo stesso Mauss dice chiaramente che su questa
base non si può più organizzare una società complessa come la nostra, e che la
trasformazione origina da molto lontano, dice nel suo libro principale: “sono
stati infatti proprio i Romani e i Greci, forse imitando i semiti del Nord e
dell’Ovest, a creare la distinzione tra diritti personali e diritti reali, a
separare la vendita dal dono e dallo scambio, a isolare l’obbligazione morale e
il contratto e, soprattutto, a concepire la differenza esistente tra riti,
diritti ed interessi. Sono stati essi che, con una autentica, grande e
rispettabile rivoluzione hanno superato tutta questa morale invecchiata e
l’economia del dono troppo arrischiata, troppo dispendiosa e troppo suntuaria,
ingombra di considerazioni riguardanti le persone, incompatibile con uno
sviluppo del mercato, del commercio e della produzione e, in fondo, all’epoca,
antieconomica” (Mauss, 1923, p.99). Ma, d’altra parte, la mentalità “fredda e
calcolatrice”, che si è imposta poi con la modernità, in una lunga evoluzione,
non contiene tutto l’umano. Come dice giustamente Mauss, lo sappiamo se lo
guardiamo: il dono non ricambiato, anche per noi, ci rende inferiori, la carità
anche per noi ferisce chi l’accetta e dunque richiede delle attenzioni, delle
scuse; anche per noi il dono contiene
un veleno (come dicevano i miti germanici), gli inviti devono essere
ricambiati, le ‘cortesie’ generano legame. Anche noi dobbiamo ‘comportarci’ e
non possiamo mostrarci completamente egoisti, individualisti e indifferenti ai
legami sociali. Anche per noi gli uomini, noi
stessi, non siamo separati dalle azioni. Ed il nostro lavoro non è separato
dal legame sociale (se non in alcune inumane relazioni istituite attraverso le
piattaforme tecnologiche). Lavorare significa, infatti, sempre anche donare,
una parte della nostra vita stessa. E il dono chiede il riconoscimento che ci
attendiamo in termini di lealtà. Siamo feriti
quando questo non avviene (per questo, non da ultimo, è inumano, e reifica, lo
stile di lavoro che il capitalismo realizzato contemporaneo impone, il lavoro debole
e frammentato, precario). L’assenza di questa relazione crea quindi una ferita,
la quale distrugge l’onore delle due parti e chiede una vendetta. Anche per
Hegel, per tacere di Marx, il lavoro non ha a che fare solo con la sussistenza
e non è solo contratto, ma vi è
ancorato il valore dell’individuo e la sua dignità. Esso struttura le nostre
vite, la nostra autocoscienza e le relazioni sociali che ci definiscono, insieme
al rispetto di sé che ne promana.
Per capire meglio anche il riferimento teorico al
quale Michéa si riferisce, quando parla di necessità intrinseca di ogni
economia liberale ad una infinita valorizzazione, giova rileggere
un intervento di Robert Trenkle del 1998 sul concetto di “valore”. Il valore di
cui si parla non è la ricchezza materiale, tanto meno quella determinata dai
rapporti sociali, anche se si connette al termine di un sistema totale di
rapporti con entrambe. Questo ‘valore’ si crea invece dai rapporti sociali,
parassitandoli, attraverso la mediazione del tempo astratto di cui fa merce. La
determinazione del valore avviene perché rende funzionale il tempo e istituisce
un rapporto di soggezione nella metrica del debito (tra creditori e debitori
connessi in una rete generale di rimandi). Come mostrano anche, da diversa
tradizione, Amato e Fantacci (“Fine
della finanza”), o Mervyn King (“La
fine dell’alchimia”) e Robert Kurz (“Le
crepe del capitalismo”) determina un sistema che deve restare sempre in
movimento, illimitato. Un sistema che, con il linguaggio di Amato e Fantacci,
non può mai “fare pace” (ovvero pagare), perché il valore scaturisce dal debito, dalla obbligazione e dalla soggezione.
La pace distruggerebbe immediatamente il valore che è, insieme, sia ‘fittizio’
sia concretissimo. È fittizio dove ci pare sia solido ed è concreto dove non lo
vediamo.
Il ‘valore’ è quindi una sorta di effetto che esiste
solo fino a che circola e fa merce del tempo (nel linguaggio di Amato e
Fantacci, “è liquido”) e si dissolve repentinamente, precipitando nella
“crisi”, quando la sua intrinseca fragilità si manifesta e quindi la fiducia
evapora (allora si manifesta come ‘illiquido’ e perde la sua relazione con la
ricchezza). Tutta la nostra società liberale, e da secoli, è centrata su questa
preoccupazione: conservare liquido il
sistema. Liquido significa conservare in piedi la piramide dei debiti, la
gerarchia delle soggezioni (che coinvolge persone, società, nazioni),
l’acquartieramento nei nodi sistemici del ‘valore’; consentirne l’accumulazione
in sicurezza.
Dunque la necessità intrinseca di ogni economia
liberale di infinita valorizzazione determina necessariamente la creazione di
legami che sostituiscono, con la loro logica apparentemente razionale e fredda,
quelli diversamente radicati delle società precedenti e la perdita dei
corrispondenti valori. Ed è intrinseco a questo meccanismo, che il primo Lohoff
chiamava ‘fittizio’, mentre successivamente lo identifica come una circolazione
di ‘merci del secondo ordine’, la costruzione di legami e la loro sostituzione
a quelli precedenti. Ma non è, come può sembrare, una liberazione dai legami
precedenti (come vorrebbe il liberalismo), è invece una sostituzione, che fonda
su piramidi di altri debiti che consentono di creare ordine e gerarchia.
Bisogna precisare che lungi dall’essere “apparente”, l’accumulazione
peculiarmente resa possibile dalla finanza nel momento in cui le tradizionali
forme di estrazione di ‘valore’ dal lavoro astratto latitano, ha un suo
radicamento nel rapporto che si istituisce tra venditori ed acquirenti di
quella particolare “merce” che è il “capitale-denaro” (il capitale liquido). Un
rapporto nel quale, per la particolare economia politica che si istituisce
nella dinamica dei diversi attori specializzati nelle piazze finanziarie
interconnesse gerarchicamente, la merce-denaro si moltiplica. È questa moltiplicazione
ad essere al centro del sistema-totale nel quale viviamo.
Michéa individua una lunga storia in questa
evoluzione, trovandone radici nella presunta neutralità assiologica (ovvero
indipendenza da valori assiali, organizzativi) del capitale. Ritrovando in
questa pretesa neutralità la sua forma puramente razionale. Una neutralità, per
la quale si è fatto preferire, insieme alla ‘dolce’ logica mercantile nel
crogiuolo dal quale è emerso il capitalismo, ovvero dalle guerre di religione,
e che lo porta irresistibilmente ad emanciparsi da ogni limite naturale e
morale. Questo discorso è particolarmente esplicitato ne “Il
complesso di Orfeo”, ma è presente anche in “I
misteri della sinistra”. La sinistra è infatti strutturalmente incapace di
“guardarsi indietro” e cerca sempre il buono e giusto davanti a se, in ciò che
verrà, interpretato indefettibilmente come progresso, per il semplice fatto che
è il futuro. Si tratta di una sorta di spirito religioso (come ebbe a dire
Walter Benjamin nel 1921 nel frammento “Il
capitalismo come religione”) anche se, in parte, coinvolge anche la
socialdemocrazia. Scrive infatti Benjamin nella 13° tesi di filosofia della
storia:
“la teoria socialdemocratica, e più ancora la prassi,
era determinata da un concetto di progresso che non si atteneva alla realtà, ma
presentava un’istanza dogmatica. Il progresso, come si delineava nel pensiero
dei socialdemocratici, era, innanzitutto un progresso
dell’umanità stessa (e non solo delle sue capacità e conoscenze). Era, in
secondo luogo, un progresso interminabile
(corrispondente ad una perfettibilità infinita dell’umanità). Ed era, in terzo
luogo, essenzialmente incessante
(tale da percorrere spontaneamente una linea retta o spirale). Ciascuno di
questi predicati è controverso, e da ciascuno potrebbe prendere le mosse la
critica. Ma essa, se si vuol fare sul serio, deve risalire oltre questi
predicati e rivolgersi a qualcosa di comune a essi tutti. La concezione di un
progresso del genere umano nella storia è inseparabile da quella del processo
della storia stessa come percorrente un tempo omogeneo e vuoto. La critica
dell’idea di questo processo deve costituire la base della critica dell’idea
del progresso come tale”
Il tempo della storia, invece, non è il tempo astratto
e vuoto della valorizzazione, ovvero il tempo in ultima analisi del capitale
che, trascinando davanti a sé lo sviluppo tecnologico in direzione della
massima autovalorizzazione e continuamente dissolvendo gli ostacoli, si produce
attraverso di esso; ma è il tempo, dice nella 14° tesi, “quello pieno di ‘attualità’”. Ovvero è il tempo di ciò che si fa attuale (ad esempio la Roma antica
durante la rivoluzione francese per Robespierre). Si arriva a dire che (15°
tesi) “la coscienza di far saltare il
continuum della storia è propria delle classi rivoluzionarie nell’attimo della
loro azione”, infatti dalla “selva del passato”, nell’area in cui comanda
la ‘classe dominante’ (diremmo in cui si esercita la sua egemonia che la fa
dominante), il balzo di tigre che attualizza un ‘passato’, rendendolo
nuovamente presente, fa sì che si possa restare “signore delle proprie forze”
(In “Angelus novus”, p.83 e seg.). Emerge
la concezione di una sorta di tempo granulare e discontinuo, in cui l’atto che
costituisce potere (e quindi valore) diventa la scelta di cosa considerare
contemporaneo, cosa attuale. Un tempo, quindi, politico.
Smontata la neutralità assiologica, e la temporalità
lineare, del capitale bisogna anche capire, però, che questo è tutto meno che
reazionario. La vecchia battaglia, ed il sempiterno equivoco, che vide la
sinistra borghese allearsi con le forze socialiste dei lavoratori, all’avvio
del secolo scorso, davanti l’offensiva della reazione (durante l’Affaire
Dreyfus) è per Michéa ormai superata. Il capitalismo è ormai liberalismo
pienamente attuato, ne incarna lo spirito rivoluzionario. Il capitalismo va
sempre avanti, come l’Angelus Novus
di Benjamin. Facendolo, sistematicamente lascia indietro, come passato,
coprendolo quindi con lo stigma derivante dalla sua filosofia della storia, le
forme di vita ed i mondi vitali che gli resistono. Che sono cioè incompatibili
con la costante, illimitata, valorizzazione.
Il capitalismo dunque
non è reazionario (p.204). In un
certo senso il capitalismo, in quanto forza che sempre rinnova il mondo,
spingendolo avanti e disgregando le forme solidali, è sincrono con un certo “dna della sinistra” che è incapace di
“rimettere radicalmente in causa la
subordinazione integrale della vita umana – a partire da quella dei lavoratori – alle sole esigenze impersonali dell’accumulazione senza
fine del capitale (perché la schiavitù viene sempre definita, nell’ideologia
liberale dei ‘diritti dell’uomo’, come un rapporto di dipendenza personale, concepito sull’unico modello
delle relazioni feudali)” (p.42). Questo capitalismo, di fatto, e non solo
nella “fase finanziaria”, può riprodursi solo colonizzando senza sosta nuovi
territori o nuovi ambiti della vita. Il capitale infatti non è una cosa, “ma un
rapporto sociale tra persone mediato da cose” (Marx, “Il Capitale”).
D’altra parte i primi socialisti, nelle condizioni
specifiche di ogni luogo e tempo, erano uniti da un’altra istanza di base: “la comune volontà di promuovere
l’emancipazione sociale dei
proletari”, protestando sia contro “l’incessante meccanismo del guadagno sempre
rinnovato” (Marx, Il Capitale, libro I”), sia contro quella forma di società
atomizzata, disumanizzata che ne è il necessario esito. La critica socialista
era parimenti diretta, e contemporaneamente, contro la sete insaziabile di
profitto e la messa in concorrenza di tutti contro tutti che ne deriva, ma
anche contro la visione astratta della libertà, imperniata sul dominio del
diritto privato, che era emersa nella rivoluzione francese.
Ma su questa base, sostiene Michéa, poi divergono due
schemi di interpretazione diversi circa la direzione di una desiderata società
post-capitalista: quelli che semplificando risalgono a Marx ed a Proudhon. Il
primo ha messo a punto uno straordinario strumento analitico, che al massimo
livello di astrazione ha distillato le tendenze del capitalismo ed è ancora
utilissimo per comprenderne direzione e dinamica, ma “allo stesso tempo era letteralmente affascinato dalle molteplici
implicazioni ‘rivoluzionarie’ di quella realtà, allora del tutto nuova,
costituita dalla grande industria” (p.158), inserendosi quindi nella linea di
continuità di Henry de Saint Simon. Il ragionamento è noto: il modo di
produzione capitalista, distruggendo le forme sociali precedenti, determina,
attraverso la centralizzazione dei mezzi di produzione e la socializzazione del
lavoro, una base materiale e tecnologica in grado di porre le “premesse
materiali di una sintesi nuova e superiore”.
Su queste basi Walter Benjamin individua, “nella
teoria e ancora di più nella prassi”, una compromissione del socialismo nella
logica lineare del progresso.
La direzione è di fare del mondo “una vasta fabbrica”,
risolvendo le inefficienze ed irrazionalità derivanti dalla frammentazione del
capitale in lotta con se stesso e quindi “privato”, nel sistema ‘socialista’. Per
questo marxismo la socializzazione del lavoro, che è inaugurata proprio dal
capitalismo, è, una volta abolita la proprietà privata dei mezzi di produzione,
condotta da produttori ‘associati’ e tramite la pianificazione razionale che
non necessiti più di scambi commerciali; si tratta di quella che Michéa chiama
“la produzione planetaria di tutti i beni e i servizi necessari alla vita
umana” (p. 141). Come scrive Lenin in “Stato
e rivoluzione”, alla fine “l’intera società sarà un grande ufficio e una
grande fabbrica con uguaglianza di lavoro e uguaglianza di salario”, dunque il
socialismo si realizza tramite un’indefinita estensione dell’organizzazione
tayloriana del lavoro (immaginata come tecnica neutra, su questo punto si veda
l’ultima parte del libro di Bruno Trentin “La
città del lavoro”).
Ne segue che anche il macchinismo industriale è
immaginato come assialmente neutro e quasi sempre (fa eccezione importante la
riflessione intorno ai populisti russi) la prassi propende per un socialismo
dall’alto, ovvero gestito da una forte classe tecnica.
C’è, però, anche un’altra tradizione, che risale a
Leroux, e trova piena espressione in Proudhon: un socialismo antiautoritario,
che proceda “dal basso verso l’alto e dalla periferia verso il centro”. Una
organizzazione “federale”.
Per Michèa (come per Trentin o per Sennett in “Insieme”)
è questo il “tesoro perduto”.
Uno scolio (J) è affidato allo spinoso tema “dell’internazionalismo e la manodopera
straniera”. Una dinamica la cui principale caratteristica è di “mettere i
lavoratori sistematicamente in concorrenza tra di loro”, cosa che ha sempre “costituito
l’arma più efficace in mano ai capitalisti” (parallelamente a quello che Marx
chiamava ‘esercito industriale di riserva’, ovvero un margine permanente di
disoccupati da ricattare e quindi chiamare alla bisogna) per esercitare una costante
pressione al ribasso dei salari e quindi la tenuta dei profitti. Il tema è
sempre stato come contrastare questa strategia. È su questo tema che si forma l’Associazione Internazionale dei Lavoratori,
nel 1864. Il tema, come scrivono in un appello appena precedente alla
costituzione, è “la fraternità tra i popoli, che è assolutamente necessaria
nell’interesse degli operai. Perché ogni volta che cerchiamo di migliorare la
nostra condizione sociale mediante la riduzione della giornata lavorativa o l’aumento
dei salari, ci rivolgono regolarmente la minaccia di far venire dei francesi,
dei tedeschi, dei belgi che lavoreranno più a buon mercato” (p.122). Lo scopo
del coordinamento che viene tentato, tra organizzazioni dei lavoratori, è quindi
di determinare un “collegamento sistematico”, che prevedeva concreto sostegno reciproco. Nell’intervista
che il giornalista americano Landor fa a Karl Marx il 3 luglio 1971 su questo
tema (appena quattro anni dopo la fondazione della Internazionale), questi nega
assolutamente che si tratti di una sorta di “governo centralizzato”, presentandola
piuttosto come un “patto associativo” invece che un “potere politico”. L’associazione,
come dice, dunque “non impone la forma dei movimenti politici, si limita a
richiedere un impegno in vista dei loro scopi. Si tratta di una rete di società
affiliate che abbraccia l’intero mondo del lavoro”. Il punto è che,
naturalmente,
“In ogni parte del mondo si presenta un aspetto
speciale del problema, e gli operai che vi abitano affrontano il problema a
modo loro. Le associazioni di lavoratori non possono essere assolutamente
identiche nel dettaglio a Newcastle e Barcellona, a Londra e Berlino. In
Inghilterra, ad esempio, la via per conquistare un potere politico è aperta
alla classe operaia. L’insurrezione sarebbe una follia là dove un’agitazione
pacifica raggiungerebbe lo scopo in modo rapido e sicuro. In Francia, un
centinaio di leggi repressive e un antagonismo morale fra classi sembrano
rendere necessaria la soluzione violenta di una guerra sociale. La scelta di
una simile soluzione spetta alla classe operaia di quel paese. L’Internazionale
non pretende certo di dettare il da farsi in merito, e neppure di dare
consigli. Ma accorda in ogni momento la sua simpatia e il suo aiuto entro i
limiti fissati dal suo stesso regolamento”.
E qui si arriva alla questione del coordinamento contro l’importazione dei lavoratori, promossa
dal capitale al fine di far abbassare i salari e spezzare la forza delle
organizzazioni dei lavoratori (creando in effetti ovunque le condizioni di un
esercito di riserva anche dove localmente non ci fossero).
“Per darle un esempio, una delle forme più comuni del
movimento per l’emancipazione è costituita dallo sciopero. Prima, quando si
effettuava uno sciopero in un dato paese, esso veniva sconfitto importando
lavoratori da un altro. L’Internazionale ha quasi posto fine a tutto questo.
Non appena viene avvisata del- lo sciopero in programma, dirama l’informazione
fra i suoi aderenti, i quali fanno subito in modo di trasformare la sede
dell’agitazione in terreno proibito. I padroni vengono così lasciati a fare i
conti da soli con i loro operai. Nella maggioranza dei casi, questi ultimi non
hanno bisogno di altro aiuto. Essi utilizzano i fondi provenienti dai loro
stessi versamenti o da quelli delle società cui sono più immediatamente
affiliati, ma se l’onere cui sono sottoposti dovesse farsi troppo gravoso, o
nel caso in cui lo sciopero fosse approvato dall’Associazione, alle loro
necessità si provvederà con la cassa comune”.
Lo scopo dell’internazionale è dunque di “prendere in
mano il proprio destino [cosa che] è diventato un imperativo. Devono
riesaminare i rapporti al loro interno e fra loro e i capitalisti e i
proprietari terrieri, e ciò significa che devono trasformare la società”,
e per farlo deve mantenere rapporti di forza tra i lavoratori e il capitale
favorevoli ai primi. Interrompere l’immigrazione competitiva è il mezzo per
ottenerlo.
Come dice Michéa, “evidentemente, il costante invito
della sinistra e dell’estrema sinistra moderne a rimuovere definitivamente
tutti gli ostacoli alla ‘libera circolazione dei lavoratori’ del mondo intero
si basa su una comprensione dell’internazionalismo assai differente rispetto a
quella del movimento socialista originario” (p.125). E’ uno dei terreni sui
quali l’abbraccio con il liberalismo ha confuso notevolmente le acque.
Il liberalismo, che opera per i fini del capitale in
un senso molto profondo, come si è detto, è sistematicamente per la libertà di
movimento, il cosmopolitismo, e per rompere ogni resistenza alla
valorizzazione. La massima creazione di valore, ma nel senso prima ricordato, è
elemento cruciale del progetto. Contrariamente a quanto spesso si sostiene i
due progetti sono reciprocamente opposti.
Il socialista H.G.Wells ha lasciato una denuncia in
codice di questa logica e del suo esito necessario: il suo libro “La macchina del tempo” (1895). Nel lontano
futuro la razza umana si è evoluta dividendosi in due specie, gli “Eloi”, che
vivono sulla superficie e i “Morlocks” che abitano il sottosuolo. I primi sono
belli ma vivono vite inutili, nell’abbondanza ed in quella che sembra una società
utopica, completamente liberi dal lavoro. Vivono in palazzi e come in “News
from nowhere” di William Morris (1890) non c’è denaro e non sembrano esserci
classi. Ma la divisione c’è, ed è radicale, la classe inferiore si è del tutto
separata ed è diventata i Morlocks. Di questi gli Eloi hanno sempre paura, la
prima descrizione è vivida “Vidi una
piccola e bianca creatura in movimento, con brillanti occhi che mi fissarono
mentre retrocedeva. Mi fece sussultare. Somigliava così tanto a un ragno umano!”.
Wells mette in scena il timore ed anche l’odio della piccola borghesia
suburbana, dalla quale proviene, per il proletariato verso il quale teme sempre
di scivolare.
Naturalmente la paura degli Eloi è ben giustificata, perché
i Morlocks vivono proprio mangiandoli. In qualche modo i duri conflitti di
classe dell’epoca vittoriana, nei quali si consolida il socialismo, si
radicalizzeranno e porteranno ad una divisione violenta. Una divisione nella
quale anche gli spiriti utopici del socialismo saranno pervertiti (cfr. questa
interpretazione dell’opera).
Il libro di Michéa ha anche un esito politico:
predilige la soluzione a questi dilemmi tentata da Podemos, aggiornamento per i
nostri tempi di quell’ “andare al popolo”, che i socialisti populisti russi
tentarono e verso i quali l’ultimo Marx spese benevola attenzione.
Di fronte al fallimento dell’alleanza tra liberalismo
e socialismo, e la completa cattura (p.51) del secondo nello spirito
progressista del primo, resta di riorientarsi sulla linea di separazione tra “chi
sta in alto e chi sta in basso” (p.60) e cercare di “unire gran parte delle
classi popolari – comprese quindi quelle
che oggi votano a destra o che trovano rifugio nell’astensionismo – su un
programma di transizione al tempo stesso realistico e coerente, e che si avvii fin
da subito nella giusta direzione. Quindi
non è certo esortando queste classi popolari a schierarsi docilmente solo sotto
il vessillo della ‘sinistra radicale’ e del suo liberalismo culturale senza
limiti che diventerà possibile ‘federare il popolo’ (per riprendere l’espressione
molto podemosiana di Jean-Luc Mélenchon)” (p.235).
La direzione da recuperare, il presente da rendere “attuale”,
è un altro.
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