Henri Lefebvre è stato un filosofo e sociologo urbano
nato nel 1901 e morto nel 1991 che arriva al grande pubblico di lingua italiana
quasi esclusivamente attraverso lo spazio che gli attribuisce un autore molto
noto come David Harvey. Lefebvre pone attenzione alla critica filosofica
attraverso la dimensione della vita quotidiana e spaziale. I suoi concetti
guida più famosi sono il “diritto alla
città”, la “vita quotidiana” e la
“produzione di spazio”, che applica
alla disanima critica della città fordista come dispositivo di produzione. Il “diritto alla città” è connesso alla espansione
urbana che è contemporaneamente, con la formazione di quartieri-dormitorio e di
altri dispositivi spaziali segreganti, dispersione, espulsione, allontanamento
economico, sociale, culturale delle classi subalterne. Dunque l’urbanizzazione
della società, come dice negli anni sessanta in pieno fenomeno di trasferimento
dalle campagne, si accompagna ad un deterioramento della vita urbana e quindi alla
negazione del “diritto” di ciascuno ad una esperienza spaziale adeguata e non
segregante. I suoi testi principali sono “Il
diritto alla città”, del 1968, “La
production de l’espace”, la raccolta “Spazio
e politica”, del 2000, “Critica della
vita quotidiana”.
Rileggere oggi qualche testo di Lefebvre, quando dalla
città fordista siamo usciti definitivamente (anche se non ovunque e non sempre)
e forse ci stiamo anche avviando l’uscita da quella post-fordista, ha il valore
di sbirciare un laboratorio. Il concetto di “diritto alla città”, che non ha valenza giuridica ma intende
indicare un percorso di lotta, un tema di conflitto sociale e un appello, serve
ad indicare la possibilità di una teoria politica dell’emancipazione che sia
insieme anche concreta, che si articoli nel contesto spaziale, e la cui forza
si scontri e disturbi le logiche economico-politiche della accumulazione che si
manifestano nella città. La città è lo scenario nel quale si manifestano i
conflitti spaziali e lo scontro, sempre rinnovato, tra il “popolo minuto” e il “popolo
grasso” (riferendosi a Machiavelli). I sotto-temi diventano: chi decide sulla
progettazione dello spazio? Chi dove gli uomini devono abitare e lavorare? La città
è merce, o è opera di coloro che la abitano? È manifestazione del valore d’uso
o di scambio? È posta in gioco delle dinamiche di potere o può essere spazio di
espressione e identificazione di sé delle comunità umane?
Il libro di
Lefebvre è del 1972 ed è costruito come una ricognizione cronologica del tema
urbano nelle principali opere di Marx, partendo da una lettura del libro del
1845 di Friedrich Engels su “La Situazione della classe operaia in Inghilterra” nella quale, venticinquenne e non ancora
sodale di Karl Marx, questi analizza la trasformazione dell’Inghilterra in
potenza industriale ed il consolidarsi di una nuova società nella quale
predomina l’economico. Il fenomeno è indissolubile dalla concentrazione della
popolazione che accompagna quella del capitale e che determina vantaggi crescenti
ed autorafforzanti. Come scrive: “quanto più grande è la città, tanto più
grandi sono i vantaggi a stabilirvisi”, ma se anche la centralizzazione ha
centuplicato le forze c’è però una contropartita, i londinesi “hanno dovuto
sacrificare la parte migliore della loro umanità per compiere tutti quei
miracoli di civiltà di cui la città è piena” (cit., p.21). La città esalta infatti
alcune qualità inibendone altre. Produce, in qualche modo, un’alienazione
concreta; induce l’atomizzazione e insieme civiltà e ricchezza. C’è qui una profonda
contraddizione: “la forza abbatte il debole, la ricchezza genera la povertà, ma
tutto ciò è anche la civiltà, con i suoi miracoli”. Riconoscendola, “Engels non
penserà mai che bisogna buttare il bambino insieme con l’acqua sporca del bagno”
(p.22).
Chi viene colpito da questa trasformazione che crea la
ricchezza insieme all’alienazione non è solo la classe operaia, ma la società
intera, inclusi coloro che sembrano dominarla. Una specie di effetto di
ritorno: se gli uomini sono considerati come oggetti utilizzabili, tuttavia sotto
traccia cresce anche la guerra sociale, la lotta di tutti contro tutti. Immagine
di questo disordine è l’urbanismo: “la disordinata mescolanza delle case, che
si fa beffe di ogni urbanistica razionale, l’ammassamento per cui sono
letteralmente addossate le une alle altre”. In questo ammassamento vive l’esercito
di riserva, generato dalla concorrenza tra i lavoratori e dalla struttura
economica e sociale del capitalismo stesso. Qui c’è dunque, insediata, una “popolazione
superflua” che è strutturalmente
necessaria (per contenere i salari e garantire la profittabilità del
capitale) e si dedica, come scrive Lefebvre “ad ogni specie di attività, di
piccoli mestieri, di commerci ambulanti, ma anche alla mendicità ed al furto”.
C’è, insomma, una relazione tra la città come macchina produttiva, resa
funzionale al capitale, e la presenza in essa di una popolazione inutile ed in
parte deviante.
La città è il luogo della divisione del lavoro, nella
sua specifica articolazione spaziale è il contesto sociale nel quale trova
senso tutta l’analisi di Marx, anche se non ne parla spesso. Tuttavia Marx scrive,
in quello che Lefebvre considera un frammento oscuro, ma decisivo: “la
distinzione di capitale e terra, di profitto e rendita fondiaria, come di
entrambi e salario, di industria e agricoltura, di proprietà privata immobile e
mobile, è ancora una distinzione storica” (in, “Manoscritti del 1844”, p. 243, cit in. Lefebvre, p.38). In una straordinaria
pagina Lefebvre sviluppa quindi l’analisi della vita cittadina ed industriale
(industriale perché cittadina, e
viceversa) come luogo in cui quegli elementi che apparivano come esterni gli
uni agli altri, suolo, natura, proprietà, capitale, sono portati ad unità in un
sistema globale.
Qui giunge a definire la città il “soggetto storico”
che non è più lo Stato hegeliano, senza essere, per Lefebvre, in senso proprio né
le classi, né il proletariato. La città concentra i suoi abitanti, prima
dispersi, ed insieme ad essi determina i mezzi di produzione, i capitali, ma anche
bisogni e piaceri. È l’esistenza della città che rende “immediatamente
necessaria l’amministrazione, la polizia, le imposte, in una parola l’organizzazione
comunale e la politica in genere” (in “Lineamenti
fondamentali della critica dell’economia politica”, p. 40). La separazione
tra città e campagna indica una separazione che deve essere superata, insieme
al suo antagonismo, creando “una delle condizioni della comunità” (cit. p.53),
nel comunismo. Un superamento (che lascia una diversa pista, rispetto al
comunismo come unica grande fabbrica) che può essere però riconquistato solo dopo
“una quantità di presupposti materiali” e che, dunque, “non può essere
realizzato dalla semplice volontà”. Si tratta del “senso di una tendenza
storica”.
Ma intanto la città reale, luogo della produzione (sia
di merci sia di valori) e del consumo di questi è il luogo della divisione. Arena
del lavoro e del conflitto.
Dunque che cosa è
la città, per Marx? Come la terra
su cui si sostiene essa è un ambiente,
ma è anche un intermediario ed una mediazione, è anche un mezzo, il più vasto ed importante. La
città è il veicolo dei cambiamenti di produzione che si verificano e ai quali
fornisce sede e condizione, luogo ed ambiente (p.85). Essa, “permettendo la
riunione dei lavoratori e dei lavori, delle conoscenze e delle tecniche, degli
stessi mezzi di produzione, interviene attivamente nella crescita e nello
sviluppo, e può anche ostacolarli” (p.90).
La città, proprio in quanto tale, nella sua
materialità, è quindi parte delle condizioni storiche implicate dal
capitalismo, dal suo modo di produzione, ed è sia il risultato della permanenza
come traccia e della distruzione ad un tempo delle forme sociali anteriori, sia
dell’accumulazione del capitale che vi avviene. La città è una cosa sociale in se stessa. Il luogo in
cui acquistano senso i rapporti sociali (divenendo anche sensibili) e diventano
concepibili a partire dalla loro realizzazione concreta. Questo, dice Lefebvre,
è “il quadro, quello dei rapporti sociali oggettivati, in cui ha luogo la
circolazione delle merci, la creazione del commercio e del mercato, il punto di
partenza del capitale nel XVI secolo” (p.120). Qui si esercita la magia del
denaro, il potere delle cose e, dunque, anche la magia della rendita di cui
avevamo già
parlato.
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