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venerdì 18 maggio 2018

Henri Lefebvre “Il marxismo e la città”


Henri Lefebvre è stato un filosofo e sociologo urbano nato nel 1901 e morto nel 1991 che arriva al grande pubblico di lingua italiana quasi esclusivamente attraverso lo spazio che gli attribuisce un autore molto noto come David Harvey. Lefebvre pone attenzione alla critica filosofica attraverso la dimensione della vita quotidiana e spaziale. I suoi concetti guida più famosi sono il “diritto alla città”, la “vita quotidiana” e la “produzione di spazio”, che applica alla disanima critica della città fordista come dispositivo di produzione. Il “diritto alla città” è connesso alla espansione urbana che è contemporaneamente, con la formazione di quartieri-dormitorio e di altri dispositivi spaziali segreganti, dispersione, espulsione, allontanamento economico, sociale, culturale delle classi subalterne. Dunque l’urbanizzazione della società, come dice negli anni sessanta in pieno fenomeno di trasferimento dalle campagne, si accompagna ad un deterioramento della vita urbana e quindi alla negazione del “diritto” di ciascuno ad una esperienza spaziale adeguata e non segregante. I suoi testi principali sono “Il diritto alla città”, del 1968, “La production de l’espace”, la raccolta “Spazio e politica”, del 2000, “Critica della vita quotidiana”.



Rileggere oggi qualche testo di Lefebvre, quando dalla città fordista siamo usciti definitivamente (anche se non ovunque e non sempre) e forse ci stiamo anche avviando l’uscita da quella post-fordista, ha il valore di sbirciare un laboratorio. Il concetto di “diritto alla città”, che non ha valenza giuridica ma intende indicare un percorso di lotta, un tema di conflitto sociale e un appello, serve ad indicare la possibilità di una teoria politica dell’emancipazione che sia insieme anche concreta, che si articoli nel contesto spaziale, e la cui forza si scontri e disturbi le logiche economico-politiche della accumulazione che si manifestano nella città. La città è lo scenario nel quale si manifestano i conflitti spaziali e lo scontro, sempre rinnovato, tra il “popolo minuto” e il “popolo grasso” (riferendosi a Machiavelli). I sotto-temi diventano: chi decide sulla progettazione dello spazio? Chi dove gli uomini devono abitare e lavorare? La città è merce, o è opera di coloro che la abitano? È manifestazione del valore d’uso o di scambio? È posta in gioco delle dinamiche di potere o può essere spazio di espressione e identificazione di sé delle comunità umane?

Il libro di Lefebvre è del 1972 ed è costruito come una ricognizione cronologica del tema urbano nelle principali opere di Marx, partendo da una lettura del libro del 1845 di Friedrich Engels su “La Situazione della classe operaia in Inghilterra” nella quale, venticinquenne e non ancora sodale di Karl Marx, questi analizza la trasformazione dell’Inghilterra in potenza industriale ed il consolidarsi di una nuova società nella quale predomina l’economico. Il fenomeno è indissolubile dalla concentrazione della popolazione che accompagna quella del capitale e che determina vantaggi crescenti ed autorafforzanti. Come scrive: “quanto più grande è la città, tanto più grandi sono i vantaggi a stabilirvisi”, ma se anche la centralizzazione ha centuplicato le forze c’è però una contropartita, i londinesi “hanno dovuto sacrificare la parte migliore della loro umanità per compiere tutti quei miracoli di civiltà di cui la città è piena” (cit., p.21). La città esalta infatti alcune qualità inibendone altre. Produce, in qualche modo, un’alienazione concreta; induce l’atomizzazione e insieme civiltà e ricchezza. C’è qui una profonda contraddizione: “la forza abbatte il debole, la ricchezza genera la povertà, ma tutto ciò è anche la civiltà, con i suoi miracoli”. Riconoscendola, “Engels non penserà mai che bisogna buttare il bambino insieme con l’acqua sporca del bagno” (p.22).

Chi viene colpito da questa trasformazione che crea la ricchezza insieme all’alienazione non è solo la classe operaia, ma la società intera, inclusi coloro che sembrano dominarla. Una specie di effetto di ritorno: se gli uomini sono considerati come oggetti utilizzabili, tuttavia sotto traccia cresce anche la guerra sociale, la lotta di tutti contro tutti. Immagine di questo disordine è l’urbanismo: “la disordinata mescolanza delle case, che si fa beffe di ogni urbanistica razionale, l’ammassamento per cui sono letteralmente addossate le une alle altre”. In questo ammassamento vive l’esercito di riserva, generato dalla concorrenza tra i lavoratori e dalla struttura economica e sociale del capitalismo stesso. Qui c’è dunque, insediata, una “popolazione superflua” che è strutturalmente necessaria (per contenere i salari e garantire la profittabilità del capitale) e si dedica, come scrive Lefebvre “ad ogni specie di attività, di piccoli mestieri, di commerci ambulanti, ma anche alla mendicità ed al furto”. C’è, insomma, una relazione tra la città come macchina produttiva, resa funzionale al capitale, e la presenza in essa di una popolazione inutile ed in parte deviante.

La città è il luogo della divisione del lavoro, nella sua specifica articolazione spaziale è il contesto sociale nel quale trova senso tutta l’analisi di Marx, anche se non ne parla spesso. Tuttavia Marx scrive, in quello che Lefebvre considera un frammento oscuro, ma decisivo: “la distinzione di capitale e terra, di profitto e rendita fondiaria, come di entrambi e salario, di industria e agricoltura, di proprietà privata immobile e mobile, è ancora una distinzione storica” (in, “Manoscritti del 1844”, p. 243, cit in. Lefebvre, p.38). In una straordinaria pagina Lefebvre sviluppa quindi l’analisi della vita cittadina ed industriale (industriale perché cittadina, e viceversa) come luogo in cui quegli elementi che apparivano come esterni gli uni agli altri, suolo, natura, proprietà, capitale, sono portati ad unità in un sistema globale.
Qui giunge a definire la città il “soggetto storico” che non è più lo Stato hegeliano, senza essere, per Lefebvre, in senso proprio né le classi, né il proletariato. La città concentra i suoi abitanti, prima dispersi, ed insieme ad essi determina i mezzi di produzione, i capitali, ma anche bisogni e piaceri. È l’esistenza della città che rende “immediatamente necessaria l’amministrazione, la polizia, le imposte, in una parola l’organizzazione comunale e la politica in genere” (in “Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica”, p. 40). La separazione tra città e campagna indica una separazione che deve essere superata, insieme al suo antagonismo, creando “una delle condizioni della comunità” (cit. p.53), nel comunismo. Un superamento (che lascia una diversa pista, rispetto al comunismo come unica grande fabbrica) che può essere però riconquistato solo dopo “una quantità di presupposti materiali” e che, dunque, “non può essere realizzato dalla semplice volontà”. Si tratta del “senso di una tendenza storica”.

Ma intanto la città reale, luogo della produzione (sia di merci sia di valori) e del consumo di questi è il luogo della divisione. Arena del lavoro e del conflitto.
Dunque che cosa è la città, per Marx? Come la terra su cui si sostiene essa è un ambiente, ma è anche un intermediario ed una mediazione, è anche un mezzo, il più vasto ed importante. La città è il veicolo dei cambiamenti di produzione che si verificano e ai quali fornisce sede e condizione, luogo ed ambiente (p.85). Essa, “permettendo la riunione dei lavoratori e dei lavori, delle conoscenze e delle tecniche, degli stessi mezzi di produzione, interviene attivamente nella crescita e nello sviluppo, e può anche ostacolarli” (p.90).

La città, proprio in quanto tale, nella sua materialità, è quindi parte delle condizioni storiche implicate dal capitalismo, dal suo modo di produzione, ed è sia il risultato della permanenza come traccia e della distruzione ad un tempo delle forme sociali anteriori, sia dell’accumulazione del capitale che vi avviene. La città è una cosa sociale in se stessa. Il luogo in cui acquistano senso i rapporti sociali (divenendo anche sensibili) e diventano concepibili a partire dalla loro realizzazione concreta. Questo, dice Lefebvre, è “il quadro, quello dei rapporti sociali oggettivati, in cui ha luogo la circolazione delle merci, la creazione del commercio e del mercato, il punto di partenza del capitale nel XVI secolo” (p.120). Qui si esercita la magia del denaro, il potere delle cose e, dunque, anche la magia della rendita di cui avevamo già parlato.

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