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lunedì 21 maggio 2018

Henri Lefebvre, “Il diritto alla città”



Henri Lefebvre, filosofo e sociologo urbano nato nel 1901 e morto nel 1991, di cui abbiamo letto “Il marxismo e la città”, del 1972, scrive nel 1968 “Il diritto alla città” in cui indica il diritto di ciascuno (diritto sociale, non civile, si potrebbe dire) a disporre di una esperienza spaziale adeguata a sostenerne la vita e non segregante. Si tratta di un libro maturo, scritto quando l’autore aveva lasciato il Pcf da alcuni anni ed era da tempo nel sesto decennio della sua lunga vita. Un libro che lascia una profonda traccia nella cultura urbanistica di sinistra, anche attraverso la ricezione di David Harvey (ad esempio in “L’esperienza urbana”, o “Il capitalismo contro il diritto alla città”).  Rileggendo il testo attraverso la tarda ricezione di un urbanista sicuramente non radicale, come Bernardo Secchi, in “La città dei ricchi e la città dei poveri” sono focalizzati due temi: il riemergere, sotto la dizione “diritto alla città”, della questione urbana tra gli anni sessanta e settanta in autori come Castells, de Certeau e ovviamente il nostro, come effetto del incipiente declino del modello fordista e il primo avvio dell’emergenza del ceto medio dedito alla ‘cura di sé’; l’attenzione al quotidiano ed ai paradossi uniformanti del welfare state (quella che Pier Luigi Crosta in quegli anni chiama riduzione amministrativa dei bisogni). Insomma, questo testo sarebbe solo uno dei primi segni di una rotazione da una “piattaforma tecnologica” che inizia a fuoriuscire dal fordismo per raggiunti limiti di estensione. Ci sono stati altri momenti nei quali il mutamento del modo di produzione, degli assetti sociali e di potere, spesso dei quadri geopolitici, e del mix tecnologico hanno condotto ad una discussione sull’assetto spaziale urbano, o sui tempi della convivenza, si può citare: la polemica sul lusso nel diciottesimo secolo (che è un dibattito sui luoghi dell’accumulazione, come li legge anche Sombart all’avvio del XX); la “questione delle abitazioni”, che coinvolge anche la sensibilità dei padri del marxismo alla metà del XIX ed è effetto del salto di scala dell’industrializzazione, in qualche modo con la preparazione al gigantismo fordista; la questione della metropoli all’avvio del XX secolo, che coinvolge Benjamin, Simmel, e mostra l’irruzione della ‘folla’ nel fordismo maturo; la questione, appunto, del ‘diritto alla città’, posto al declinare di questo.



Dunque che cosa vuol dire “diritto alla città”? Indica un mutamento del soggetto che è legittimato a porre la domanda circa il tipo di città che vogliamo, il tipo di persone che vogliamo essere, i rapporti sociali cui aspiriamo, il rapporto che intendiamo promuovere con la natura, e, naturalmente, con le tecnologie che riteniamo convenienti. Dunque il “diritto alla città” non è un diritto individuale di accesso alle risorse originariamente concentrate nella città stessa: piuttosto è il diritto a cambiare insieme alla città, in modo da renderla conforme ai desideri, insieme scoprendoli. È un diritto collettivo (sociale) e non individuale (civile), e si traduce necessariamente nell’esercizio di un potere collettivo sul processo di urbanizzazione. Per una versione di questa distinzione, si può rinviare ad Axel Honneth ed il suo “Diritto della libertà” (ma anche in “L’idea di socialismo”).
Il “diritto alla città”, insomma, ossia il controllo della stretta relazione fra urbanizzazione, produzione e uso delle eccedenze di capitale, è quindi essenziale per riportare sotto controllo sociale la dinamica del capitalismo. Perché gli attori sociali imparino, attraverso le lotte per il riconoscimento, a riferirsi gli uni agli altri non come strumenti del reciproco egoismo (sotto l’egemonia del valore di scambio), ma come soggetti di bisogni. Agendo l’uno-per-l’altro, intrecciando i piani di vita condividendo la comune preoccupazione per l’autorealizzazione. La libertà non è, in questa visione che sarà sconfitta, realizzabile dai singoli ma da una formazione collettiva adeguata.

Non è una cosa nuova: la visione originaria del socialismo consisteva proprio in questa idea secondo la quale in futuro le società potranno essere interamente ristrutturate secondo il modello di una spontanea comunità solidale per impulso dei propri stessi membri. Cioè per una capacità da essi stessi sviluppata a orientarsi spontaneamente gli uni verso gli altri, superando l’egoismo e “dedicandosi ognuno in modo disinteressato alla autorealizzazione dell’altro”. Ssi tratta di una radicalizzazione e completamento delle tre istanze della rivoluzione francese che sono alla fine unite in una. L’obiettivo è quindi costruire, attraverso riforme o un superamento rivoluzionario dell’economia del capitalismo, un sistema in cui i rapporti sociali istituiti realizzino i tre ideali di “libertà”, “eguaglianza” e “fraternità” contemporaneamente. Gli esseri umani non possono, infatti, essere liberi da soli, ma solo entro relazioni sociali che li rendano tali, cioè entro la “libertà sociale” che il socialismo intende istituire. Non si tratta solo di realizzare un sistema distributivo più giusto (ottenendo l’uguaglianza, magari al prezzo di un potenziamento dell’amministrazione), ma anche ed insieme di creare le condizioni di una nuova forma di vita comunitaria. Una forma in cui la “libertà” sia determinante sia sul piano dell’individuo, che si orienta verso la comunità per la soddisfazione delle sue finalità, sia su quello della comunità stessa, che è una creazione consensuale della “fratellanza”, ovvero della “simpatia” (termine presente nei moralisti settecenteschi, in particolare scozzesi) reciproca.
La cosa è abbastanza semplice da capire: noi stessi usiamo spesso il termine comunità, intendendo una condivisione di finalità ed un senso di comunanza e reciproca simpatia (che si manifesta automaticamente, ad esempio, quando due connazionali si incontrano in un paese estero non familiare) che porta ad un certo grado di disponibilità a farsi carico dei bisogni dell’altro, ovvero un certo grado di essere-sé nell’altro (secondo una fulminante formula di Hegel) nel quadro di unità anonime.



Per Lefebvre il processo di industrializzazione, al culmine -in occidente - del quale scrive il suo libro, è il motore delle trasformazioni del capitalismo. Nella transizione dal modo di produzione medioevale a quello capitalista, infatti la ricchezza, mobilitandosi e fissandosi nella proprietà dei mezzi di produzione distinti dalla terra, ha cessato di essere soprattutto immobiliare e la società nel suo complesso ha teso a costituirsi come rete urbana. Ovvero come rete funzionale.
In questo passaggio la città ed il territorio come “valore d’uso” ha fatto spazio alla generalizzazione della merce prodotta dall’industrializzazione che tende a distruggere, subordinandola, la città alla rendita urbana, ovvero al “valore di scambio”. Uno degli effetti, nella meccanica della produzione speculativa è la creazione di sobborghi e di grandi complessi la cui proiezione di ordine, percepibile e leggibile sul territorio, determina il sociale (p.39).

Questo vasto movimento è sincrono con l’insorgere del movimento razionalista e con l’urbanistica degli amministratori pubblici (p.42) e degli imprenditori (p.44). Viene portata in piena luce la contraddizione tra il valore d’uso (la città e la vita urbana, il tempo urbano) e il valore di scambio (gli spai acquistati e venduti, il consumo dei prodotti, dei beni, dei luoghi e dei segni).
Ma la città dipende anche, e non meno essenzialmente, dalle relazioni d’immediatezza e dai rapporti diretti tra le persone ed i gruppi che compongono la società. Gruppi che si appropriano degli spazi anche grazie al contributo di istituzioni connesse con i medesimi rapporti di classe. In questo senso forme, strutture, funzioni urbane, agiscono le une sulle altre, si modificano.
La città è dunque la proiezione in questo senso della società sul territorio ed è insieme determinata dalla rete, ovvero dalle differenze tra città e dalla pluralità dei patterns (p.75), “non è luogo passivo della produzione o della concentrazione dei capitali, ma è l’’urbano’ che interviene come tale nella produzione (nei mezzi di produzione)”.

Certo, Lefebvre che muove da un’analisi marxista, riconosce che su questo tema l’insegnamento del maestro è sia incompleto sia misconosciuto. L’industrializzazione è vista come processo che ha in sé, nel tempo anziché nello spazio, la sua ragione, ovvero la propria finalità e significato. Invece “Marx non ha mostrato (nel suo tempo non lo poteva) che l’urbanizzazione e l’urbano contengono il significato dell’industrializzazione. Egli non ha visto che la produzione industriale implicava l’urbanizzazione della società e che per dominare la potenzialità dell’industria erano necessarie conoscenze specifiche concernenti l’urbanizzazione” (p.100). Come dice, infatti, la produzione industriale, raggiunto un certo sviluppo (quello che stava consolidando al tempo di Marx e che si afferma nell’età fordista) produce l’urbanizzazione, ovvero “ne fornisce le condizioni, ne apre le possibilità”. Ma ciò significa che “la problematica si sposta e diventa quella dello sviluppo urbano”.
L’unico problema posto espressamente è quello di Engels: il problema dell’alloggio (operaio). Ma l’urbano è molto di più. Esso non è legato ad una morfologia materiale ma non è neppure capace di staccarsene. Esso “è una forma mentale e sociale, quella della simultaneità, della riunione, della convergenza, dell’incontro (o piuttosto degli incontri). È una qualità che nasce da quantità (spazi, oggetti, prodotti). È una differenza o piuttosto un insieme di differenze”. Continua: “l’urbano contiene il senso della produzione industriale, come l’appropriazione contiene il senso della dominazione tecnica sulla natura poiché questa scivola nell’assurdo senza quella”.
Semplicemente, l’urbano “è un campo di rapporti che comprende in particolare il rapporto con il tempo (o dei tempi, ritmi ciclici e durate lineari) con lo spazio (o con gli spazi, isotopie – eterotopie)”.



Abbastanza chiaramente qui dunque si tratta di mettere in questione anche i saperi, fondati su una razionalità troppo sicura di sé, dei tecnici. Quei saperi, inclusi quelli degli urbanisti, che spesso scivolano in ideologia (ovvero in mascheramento, più o meno inconsapevole, di posizioni di interesse di classe). A questa intelligenza analitica corrisponde una estrema parcellizzazione e specializzazione che mette in essere spesso una triplice segregazione:
-        spontanea, derivante “dall’articolazione dei redditi e dalle ideologie”,
-        volontaria, che stabilisce spazi separati,
-        programmata, definita in piani.
Vi sono diverse conseguenze di questa tendenza alla segregazione:
-        ecologiche, “bidonville, tuguri, decadimento del cuore della città”,
-        formali, “deterioramento dei segni e significati di città. Degradazione dell’urbano per smembramento dei suoi elementi architettonici”,
-        sociologiche (“livelli di vita e modi di vivere, gruppi etnici, cultura e subcultura”).

Occorrerebbe, quindi, una diversa prassi. Che avvii la possibilità e l’esigenza di una sintesi, “l’orientamento verso questo obiettivo: la riunione di ciò che è disperso, dissociato separato e questo nella forma della simultaneità e degli incontri” (p.116). Questo problema è politico. E si radica nei bisogni (visti in senso “antropologico”, ovvero secondo un fondo naturalista) in una dialettica interna di opposti:
-        il bisogno di sicurezza e di apertura,
-        il bisogno di certezza e di avventura,
-        d’organizzazione del lavoro e del divertimento,
-        di previsione e d’imprevisto,
-        il bisogno d’unità e di differenza,
-        quello di isolamento e di incontro,
-        di scambi e di investimenti,
-        d’indipendenza e di comunicazione,
-        d’immediatezza e di prospettiva.
Quindi i bisogni di attività creatrice, di opera, di informazione, di simbolismo, di immaginazione, di attività creatrici. Quindi gioco, arte, tempo.

Tutto questo, e molto altro (incluso i progetti utopici) è il “diritto alla città”, che “si annuncia come appello, come esigenza”. È “diritto alla vita urbana, trasformata, rinnovata”, che si faccia valore d’uso e luogo di incontro.

Si tratta, quindi, sia di orientare la crescita, sia di produrre verso bisogni sociali nuovi, sia cambiare le pratiche sociali (p.144). E si tratta di smetterla con la separatezza, con le distinzioni tra tempo libero (fruito individualisticamente, nel chiuso delle case, o in contenitori di massa) e la vita quotidiana. Si tratta di riferirsi ad una “forma superiore dei diritti”: quelli “alla libertà, all’individualizzazione, alla socializzazione, all’habitat e all’abitare” (p.153).



Ciò che Henri Lefebvre, scrivendo nel passaggio tra due “piattaforme tecnologiche del capitalismo” (tra quella fordista e quella post-fordista che sarà tratteggiata da Antony Giddens una ventina di anni dopo, al suo pieno dispiegarsi in “Identità e società moderna”), individua è quindi un nuovo set di esigenze che preme sotto la pelle della società amministrata del suo tempo. Chiamo “piattaforma tecnologica” un insieme di funzionamenti essenziali, punti di convenienza e vantaggio determinati da gruppi di tecnologie convergenti e reciprocamente rafforzanti, quindi dall’insieme di skill favoriti da queste e di know how privilegiati, ma anche da norme sociali e giuridiche che si affermano nella sfera pubblica e privata, e infine da pacchetti di incentivi pubblici e privati. Una “Piattaforma Tecnologica” è, inoltre sempre connessa con un assetto geopolitico che la rende vincente (ed in ultima analisi possibile). Quella del fordismo è fondata su un certo regime energetico e sulle tecnologie dell’organizzazione di massa del lavoro, su relazioni spaziali e una composizione organica del capitale che lo vede fissato e concentrato in alcuni luoghi dominanti e nella gerarchia dei centri dominati, sulla concentrazione e dominazione del lavoro ridotto a intercambiabile astrazione, sulla cattura dei capitali mobili in regimi di dominazione spaziale alle diverse scale, sulla tendenza alla regolazione per produrre uniformità, sulla riduzione burocratica, sulla lotta fiscale tra lo stato e la mobilità del capitale, sul compromesso inflattivo.

Di questa tensione dà una versione coraggiosa, ma in qualche modo perdente. I diritti sociali che individua saranno ridefiniti come diritti individuali e liberazione edonista negli anni successivi. La frammentazione, che lamenta, non verrà meno ma sarà ampliata. La tensione permanente di cui parla qualche anno dopo (nel 1989) David Harvey nel suo “L’esperienza urbana”, tra l’appropriazione e l’uso dello spazio per fini individuali (invece che sociali), quindi il dominio della proprietà privata e/o dello stato (p.210) sarà risolta in favore della prima.

Avremo, anche attraverso la città e le sue forme l’affermazione alla fine di una “piattaforma tecnologica” il cui ciclo di vita sta ora, forse, terminando. Si tratta:
-        dell’affermazione della Ict e delle sue infrastrutture spaziali abilitanti, fortemente reticolari e poco sensibili all’ordine di continuità, fornite da expertise e servizi avanzati e rari che si insediano tipicamente e gerarchicamente in alcune “città globali”, o in aree dense ed interconnesse;
-        strettamente connessa con questa, e fondata su superiori livelli di standardizzazione ed automazione, una dominante industria a rete lunga, decentrata e caratterizzata da forme di dominazione del lavoro aspramente gerarchiche e dalla potenza costrittiva enorme anche se apparentemente anonima (mentre nell’ottocento, il modello implicito, era tenuta visivamente in piedi dallo stato di classe);
-        ancora, funzioni bancarie e non (ombra) caratterizzate da una contemporanea concentrazione e liberazione dei capitali che sfuggono all’investimento fisso, per definirsi come raiders (qui il libro della Sassen del 2014 è utile);
-        ovviamente un nuovo e radicalmente opposto regime normativo, caratterizzato dalla pronunciata deregolazione, resa necessaria dalle reti che si allungano ed i capitali che le accompagnano;
-        la fuga fiscale, che vede la “crisi fiscale dello stato” (O’Connor), risolversi ad esclusivo danno dello stesso;
-        lo “scambio deflattivo” a sostituire quello “inflattivo”, basato sull’economia del debito in luogo di quella dell’investimento.


Il libro di Lefebvre, dai suoi cinquanta anni di distanza, è quindi la traccia di una speranza tradita: di una promessa da riprendere.

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