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domenica 27 maggio 2018

Henri Lefebvre, “Spazio e politica”



La raccolta “Spazio e politica”, il cui sottotitolo è “Il diritto alla città II” di Henri Lefebvre, è stato edito nel 1974 in francese e due anni dopo in italiano e racchiude interventi del biennio 71-72. È dunque in continuità con il suo “Il diritto alla città” del 1968. Ne prosegue lo sviluppo dei temi chiarendo che il “diritto alla città” è cosa del tutto diversa dall’operazione di riduzione dei bisogni a risposte amministrative attraverso la macchina dello stato, processo in corso durante tutto il trentennio di espansione della ‘piattaforma tecnologica’ fordista; ovvero secondo i termini proposti è cosa del tutto diversa dal posizionare e localizzare funzioni che rispondono a bisogni riconosciuti e standardizzati in una tecnica (amministrativa) ed in uno spazio astratto preesistente. Come scrive: “non si tratta di localizzare nello spazio preesistente un bisogno o una funzione, ma al contrario di spazializzare un’attività sociale, legata ad una pratica sociale nel suo complesso, producendo uno spazio appropriato” (p.25).



Come scriverà Pier Luigi Crosta alcuni anni dopo “quella dell’istituzionalizzazione può essere considerata come una strategia contraddittoria” (in “La Pianificazione d’area”, 1988), ovvero “rischia di autodistruggersi ogni strategia che abbia come effetto – voluto o non – la ‘chiusura’ del reticolo interattivo, in quanto sia finalizzata a rendere più selettivo e funzionale l’accesso all’interazione, con la motivazione di conferire al progetto caratteri di economicità e, per questa via, di rendere più efficiente il comportamento degli operatori coinvolti in un sistema di relazioni ripetitivo e stabile”. Lo stesso “abitare”, come esito eventuale, appare al termine, come nome di una pratica mossa ed alimentata dal ‘diritto alla città’ e non come funzione assegnabile, isolabile e localizzabile (come questione dell’habitat, secondo il linguaggio di quegli anni).
La stessa urbanistica, di cui in certo senso parla, non è né una scienza né una pratica, ma la ricorrenza tematica di eventi che si producono nel tempo storico (non in quello logico) e, tramite l’azione ispirata al ‘diritto alla città’ indicano “la costituzione o la ricostruzione di un’unità spazio-temporale, di una riconduzione a unità invece di una frammentazione”. L’occasione per l’aumento della ricchezza sociale (che non è valore appropriato) e ad un tempo l’orientamento della crescita.

Lefebvre vede lo spazio vissuto in stretto rapporto con la pratica sociale e con la creazione di spazialità e temporalità capaci di sfuggire alla logica enumerante dello scientismo ed alla sua riduzione a valore. Ogni spazio sociale è il prodotto della società ed è sia l’ambiente come il mezzo dell’organizzazione della sua vita. Quindi anche dei suoi consumi, che siano burocratizzati ed eterodiretti o non. Questo genere di spazio è insieme astratto e concreto.
Esso, in quanto determinato dall’urbanizzazione, crea anche le condizioni dell’industrializzazione (per l’autore la direzione causale tra industrializzazione e urbanizzazione va più dalla seconda alla prima, nel senso che la creazione della centralità e della densità urbana crea le condizioni di possibilità dell’evoluzione e della localizzazione industriale). Ma, nel transitare dal fordismo verso una nuova piattaforma tecnologica che in quegli anni si intravede (1971), si afferma anche un “nuovo concetto dell’urbano”: come esigenza di incontro, riunione, informazione. Ci sarà un lungo lavoro, nei decenni successivi, su una linea che va dalle riduzioni formaliste di un Secchi all’accentuazione di processualità in fondo liberale di un Crosta, nella cultura urbanistica per riassorbire questa rottura.
Per comprendere, cioè, come ci si rapporta a quella che Lefebvre chiama “una nuova fase della ‘razionalità urbana’” (p.70).

E per riassorbire anche il venir meno dell’antitesi tra città e campagna. Espressione dello sprawl della città, della nuova organizzazione a rete del mondo produttivo, della decentralizzazione e della ubiquità della comunicazione.
Si sprecheranno modelli cibernetici negli anni ottanta.

Lefebvre intravede tempestivamente questo nuovo set di esigenze, e questi nuovi attori sociali, che premono sotto la pelle della città fordista e mal sopportano la riduzione amministrativa di bisogni standardizzati e ridotti, e, trovandosi al passaggio di due diverse “piattaforme tecnologiche del capitalismo”, cerca di ravvivare lo spirito del primo socialismo, senza cadere in ricette precostituite, ovvero utopiche. Nel saggio “Engels e l’utopia”, del 1972, sottolinea le relazioni di questo con Owen e Fourier, in particolare nel cruciale, per il suo tempo, rapporto tra città e campagna, e nel proporre (come faranno molti) una sorta di ripartizione omogenea della popolazione, quando la divisione del lavoro sarà superata nella società socialista, precisa il senso del termine utopia. Scrive Engels in “La questione delle abitazioni” (p.129): “utopia non è l’essere convinti che la liberazione degli uomini dalle catene ribadite dalla loro storia passata sarà compiuta soltanto quando sarà abolita l’antitesi tra città e campagna: l’utopia sorge quando ci si propone di prescrivere la forma in cui dovrebbe essere risolta questa o quella contraddizione dell’odierna società”.
La prospettiva proposta passa quindi per il superamento del produttivismo (anche dell’antitesi città/campagna, ovvero della funzionalizzazione e reificazione di spazi e tempi), ma anche per l’orientamento della crescita. Questa agenda, negli stessi anni viene proposta come unica via di uscita dalla crisi di instabilità che si affaccia anche da Hyman Minsky (in “Keynes e l’instabilità del capitalismo”, 1975, p 218) superando il “socialismo per ricchi” che un’applicazione molto parziale delle ricette keynesiane aveva definito. Si trattava per l’economista americano, di un sistema “intrinsecamente instabile” che accelera, favorendo gli investimenti privati (anche di città) senza alcuna considerazione per “la loro utilità in termini sociali”, con il risultato di favorire la proliferazione di bisogni non essenziali di carattere “distintivo”. È ciò che da una parte criticherà Pasolini esattamente nello stesso anno nei suoi “Scritti corsari” e loderà Giddens in “Identità e società moderna”.

Secondo l’analisi proposta il capitalismo ha ormai preso possesso dello spazio (p.98), e definisce una sua economia politica che richiede scelta ed è connessa con il consumo ostentato delle nuove classi medie in ascesa (p.106). Anche la competizione, come mostra in quegli anni Francois Perroux (maestro di Samir Amin, e ripreso nel suo libro del 1973 “Lo sviluppo ineguale”, che rappresenta in certo senso la versione terzomondista di questo discorso), si nutre di una composizione organica del capitale altamente ineguale e che si radica in differenze regionali.
Tutto questo produce spazio.

In “La borghesia e lo spazio”, del 1972, Lefebvre denuncia quindi la segregazione degli abitanti delle periferie ed il loro spazio dominato dalla tecnica e dal potere politico. Rivendica la lotta per la qualità dello spazio. Ma mentre nella scuola italiana di un Secchi, questa si riduce alla fine ad un consapevole accompagnamento della cetomedizzazione, ovvero in una gestione di fase dal respiro corto (e oggi trascorso, anche se alcune versioni della ‘densificazione’ potrebbero provare ad allungare il ciclo di sostegno alla rendita), nel filosofo francese la qualità è sociale; cioè è elaborata, resa complessa e realizzata dagli attori sociali che in essa si formano. È “in una parola appropriata” per questi ultimi (p.122). Si tratta, con il linguaggio di un Crosta, di ridefinire il “blocco edilizio” intorno ad una nuova qualità costruita entro i processi politici.
Si tratta anche di ridurre la strumentalità, sapendo che è in corso una estensione di scala e “il plusvalore riguarda [ormai] l’intero spazio planetario” (p.128).

Naturalmente, riprendendo temi che poi saranno praticati da molti (si può ricordare la Sassen di “Territorio, autorità, diritti” del 2008), Lefebvre afferma e riconosce anche che “le classi dominanti si servono oggi dello spazio come di uno strumento. Uno strumento per diversi scopi: disperdere la classe operaia dividendola in luoghi assegnati, organizzare una varietà di flussi, subordinandoli a regole istituzionali. Subordinando dunque lo spazio al potere, controllare lo spazio e regolare tecnocraticamente la società, conservando i rapporti di produzione capitalistici” (p.129).

Anche se consapevole dell’estrema difficoltà della sfida lo scopo della riflessione è dunque semplice: strappare alle classi dominanti lo strumento dello spazio, favorendone una appropriazione collettiva. Ma non nel senso di definire una qualche utopia dello spazio, bensì liberandone l’uso.
L’azione circa lo spazio, ed il tempo storico, non è infatti definibile funzionalmente come risoluzione di problemi, ma deve comparire come interazione che, nel sollevare questioni, può dar luogo ad azione congiunta costruendo questi problemi. Cioè definendo, nel processo, cosa fa problema.
Anche qui è all’opera un rovesciamento: come non è l’industria a fare l’urbano, ma questo quello, così le attività di costruzione dell’urbano sono (eventuali) agenti del cambiamento sociale.

Lo spazio è dunque la politica.

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