La raccolta “Spazio
e politica”, il cui sottotitolo è “Il
diritto alla città II” di Henri Lefebvre, è stato edito nel 1974 in
francese e due anni dopo in italiano e racchiude interventi del biennio 71-72. È
dunque in continuità con il suo “Il
diritto alla città” del 1968. Ne prosegue lo sviluppo dei temi chiarendo
che il “diritto alla città” è cosa del tutto diversa dall’operazione di
riduzione dei bisogni a risposte amministrative attraverso la macchina dello
stato, processo in corso durante tutto il trentennio di espansione della ‘piattaforma
tecnologica’ fordista; ovvero secondo i termini proposti è cosa del tutto
diversa dal posizionare e localizzare funzioni che rispondono a bisogni riconosciuti
e standardizzati in una tecnica (amministrativa) ed in uno spazio astratto
preesistente. Come scrive: “non si tratta di localizzare nello spazio
preesistente un bisogno o una funzione, ma al contrario di spazializzare un’attività
sociale, legata ad una pratica sociale nel suo complesso, producendo uno spazio
appropriato” (p.25).
Come scriverà Pier Luigi Crosta alcuni anni dopo “quella
dell’istituzionalizzazione può essere considerata come una strategia
contraddittoria” (in “La Pianificazione d’area”,
1988), ovvero “rischia di autodistruggersi ogni strategia che abbia come
effetto – voluto o non – la ‘chiusura’ del reticolo interattivo, in quanto sia
finalizzata a rendere più selettivo e funzionale l’accesso all’interazione, con
la motivazione di conferire al progetto caratteri di economicità e, per questa
via, di rendere più efficiente il comportamento degli operatori coinvolti in un
sistema di relazioni ripetitivo e stabile”. Lo stesso “abitare”, come esito eventuale,
appare al termine, come nome di una pratica mossa ed alimentata dal ‘diritto alla città’ e non come funzione
assegnabile, isolabile e localizzabile (come questione dell’habitat, secondo il linguaggio di quegli anni).
La stessa urbanistica, di cui in certo senso parla,
non è né una scienza né una pratica, ma la ricorrenza tematica di eventi che si
producono nel tempo storico (non in quello logico) e, tramite l’azione ispirata
al ‘diritto alla città’ indicano “la costituzione o la ricostruzione di un’unità
spazio-temporale, di una riconduzione a unità invece di una frammentazione”. L’occasione
per l’aumento della ricchezza sociale (che non è valore appropriato) e ad un
tempo l’orientamento della crescita.
Lefebvre vede lo spazio
vissuto in stretto rapporto con la pratica
sociale e con la creazione di
spazialità e temporalità capaci di sfuggire alla logica enumerante dello
scientismo ed alla sua riduzione a valore. Ogni spazio sociale è il prodotto
della società ed è sia l’ambiente come il mezzo dell’organizzazione della sua
vita. Quindi anche dei suoi consumi, che siano burocratizzati ed eterodiretti o
non. Questo genere di spazio è insieme astratto e concreto.
Esso, in quanto determinato dall’urbanizzazione, crea
anche le condizioni dell’industrializzazione (per l’autore la direzione causale
tra industrializzazione e urbanizzazione va più dalla seconda alla prima, nel
senso che la creazione della centralità e della densità urbana crea le
condizioni di possibilità dell’evoluzione e della localizzazione industriale). Ma,
nel transitare dal fordismo verso una nuova piattaforma tecnologica che in quegli
anni si intravede (1971), si afferma anche un “nuovo concetto dell’urbano”:
come esigenza di incontro, riunione, informazione. Ci sarà un lungo lavoro, nei
decenni successivi, su una linea che va dalle riduzioni formaliste di un Secchi
all’accentuazione di processualità in fondo liberale di un Crosta, nella
cultura urbanistica per riassorbire questa rottura.
Per comprendere, cioè, come ci si rapporta a quella
che Lefebvre chiama “una nuova fase della ‘razionalità urbana’” (p.70).
E per riassorbire anche il venir meno dell’antitesi
tra città e campagna. Espressione dello sprawl della città, della nuova
organizzazione a rete del mondo produttivo, della decentralizzazione e della
ubiquità della comunicazione.
Si sprecheranno modelli cibernetici negli anni
ottanta.
Lefebvre intravede tempestivamente questo nuovo set di
esigenze, e questi nuovi attori sociali, che premono sotto la pelle della città
fordista e mal sopportano la riduzione amministrativa di bisogni standardizzati
e ridotti, e, trovandosi al passaggio di due diverse “piattaforme tecnologiche
del capitalismo”, cerca di ravvivare lo spirito del primo socialismo, senza
cadere in ricette precostituite, ovvero utopiche. Nel saggio “Engels e l’utopia”, del 1972, sottolinea
le relazioni di questo con Owen e Fourier, in particolare nel cruciale, per il
suo tempo, rapporto tra città e campagna, e nel proporre (come faranno molti)
una sorta di ripartizione omogenea della popolazione, quando la divisione del
lavoro sarà superata nella società socialista, precisa il senso del termine
utopia. Scrive Engels in “La questione
delle abitazioni” (p.129): “utopia non è l’essere convinti che la
liberazione degli uomini dalle catene ribadite dalla loro storia passata sarà
compiuta soltanto quando sarà abolita l’antitesi tra città e campagna: l’utopia
sorge quando ci si propone di prescrivere la forma in cui dovrebbe essere
risolta questa o quella contraddizione dell’odierna società”.
La prospettiva proposta passa quindi per il
superamento del produttivismo (anche dell’antitesi città/campagna, ovvero della
funzionalizzazione e reificazione di spazi e tempi), ma anche per l’orientamento
della crescita. Questa agenda, negli stessi anni viene proposta come unica via
di uscita dalla crisi di instabilità che si affaccia anche da Hyman Minsky (in “Keynes
e l’instabilità del capitalismo”, 1975, p 218) superando il “socialismo per
ricchi” che un’applicazione molto parziale delle ricette keynesiane aveva
definito. Si trattava per l’economista americano, di un sistema “intrinsecamente
instabile” che accelera, favorendo gli investimenti privati (anche di città)
senza alcuna considerazione per “la loro utilità in termini sociali”, con il
risultato di favorire la proliferazione di bisogni non essenziali di carattere “distintivo”.
È ciò che da una parte criticherà Pasolini esattamente nello stesso anno nei
suoi “Scritti
corsari” e loderà Giddens in “Identità
e società moderna”.
Secondo l’analisi proposta il capitalismo ha ormai
preso possesso dello spazio (p.98), e definisce una sua economia politica che
richiede scelta ed è connessa con il consumo ostentato delle nuove classi medie
in ascesa (p.106). Anche la competizione, come mostra in quegli anni Francois
Perroux (maestro di Samir Amin, e ripreso nel suo libro del 1973 “Lo
sviluppo ineguale”, che rappresenta in certo senso la versione
terzomondista di questo discorso), si nutre di una composizione organica del
capitale altamente ineguale e che si radica in differenze regionali.
Tutto questo produce
spazio.
In “La borghesia
e lo spazio”, del 1972, Lefebvre denuncia quindi la segregazione degli
abitanti delle periferie ed il loro spazio dominato dalla tecnica e dal potere
politico. Rivendica la lotta per la qualità
dello spazio. Ma mentre nella scuola italiana di un Secchi, questa si
riduce alla fine ad un consapevole accompagnamento della cetomedizzazione,
ovvero in una gestione di fase dal respiro corto (e oggi trascorso, anche se
alcune versioni della ‘densificazione’ potrebbero provare ad allungare il ciclo
di sostegno alla rendita), nel filosofo francese la qualità è sociale; cioè è elaborata, resa complessa
e realizzata dagli attori sociali che in
essa si formano. È “in una parola appropriata” per questi ultimi (p.122). Si tratta, con il linguaggio di un
Crosta, di ridefinire il “blocco edilizio” intorno ad una nuova qualità costruita
entro i processi politici.
Si tratta anche di ridurre
la strumentalità, sapendo che è in corso una estensione di scala e “il plusvalore
riguarda [ormai] l’intero spazio planetario” (p.128).
Naturalmente, riprendendo temi che poi saranno
praticati da molti (si può ricordare la Sassen di “Territorio,
autorità, diritti” del 2008), Lefebvre afferma e riconosce anche che “le
classi dominanti si servono oggi dello spazio come di uno strumento. Uno strumento
per diversi scopi: disperdere la classe operaia dividendola in luoghi
assegnati, organizzare una varietà di flussi, subordinandoli a regole
istituzionali. Subordinando dunque lo spazio al potere, controllare lo spazio e
regolare tecnocraticamente la società, conservando i rapporti di produzione
capitalistici” (p.129).
Anche se consapevole dell’estrema difficoltà della
sfida lo scopo della riflessione è dunque semplice: strappare alle classi dominanti lo strumento dello spazio, favorendone
una appropriazione collettiva. Ma non nel senso di definire una qualche utopia
dello spazio, bensì liberandone l’uso.
L’azione circa lo spazio, ed il tempo storico, non è infatti
definibile funzionalmente come risoluzione di problemi, ma deve comparire come
interazione che, nel sollevare questioni, può
dar luogo ad azione congiunta costruendo questi problemi. Cioè definendo,
nel processo, cosa fa problema.
Anche qui è all’opera un rovesciamento: come non è l’industria
a fare l’urbano, ma questo quello, così le
attività di costruzione dell’urbano sono (eventuali) agenti del cambiamento sociale.
Lo spazio è dunque la politica.
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