Il Presidente della Repubblica Italiana, Sergio Mattarella, ha oggi
chiuso una lunga crisi istituzionale con una decisione drastica che fa fare
alla crisi politica italiana un salto di qualità di enormi proporzioni.
È davvero difficile immaginare come la crisi istituzionale evolverà:
probabilmente avremo un presidente del consiglio incaricato del tutto privo di
legittimazione elettorale, direttamente designato dal Presidente della
Repubblica con la quasi certezza che non potrà avere i necessari voti di
fiducia; quindi questi, dopo rituali consultazioni e il probabile appoggio del
PD e FI (magari di LeU), formerà la sua lista dei ministri e probabilmente
giurerà. A questo punto un governo senza appoggio politico adeguato in
Parlamento (un “governo di minoranza”, si dice, ma senza l’astensione delle
altre forze) andrà a chiedere la fiducia e non la otterrà. Il Presidente
potrebbe o dovrebbe nominare un altro presidente per verificare se c’è un’altra
maggioranza, ma lui sa già che c’è.
Dunque lo farà entrare in esercizio e si riserverà di sciogliere le camere, io
credo.
Di qui il terreno si farà ancora più scivoloso, perché un governo
senza alcuna legittimazione elettorale, di minoranza, ma contro una maggioranza
politica alla quale è stato impedito di esprimere un suo governo, si troverà a
prendere decisioni di grandissimo momento in Europa e in Italia. Proverà,
magari, ad arrivare alla legge finanziaria di fine anno, quindi non sciogliendo
un Parlamento ostile che gli boccerà aspramente tutte le leggi che passano. Questo
governo si esprimerà solo attraverso decretazioni di urgenza.
Ma la crisi politica è più
grave della crisi istituzionale.
Già da tempo, in tutto l’occidente, è in corso un riorientamento
degli assi politici dal tradizione asse sinistra/destra, che appare ai più
sempre più obsoleto, ad un asse élite/popolo la cui definizione è oggetto dei
più aspri scontri. Questo riorientamento ha visto nelle elezioni di marzo italiane
un enorme acceleratore e contemporaneamente una plastica rappresentazione. Per la
prima volta da decenni la maggioranza dei votanti (sia pure di misura) ha
garantito consenso a Partiti contrari all’establishment percepito (ovvero ai duellanti
della seconda Repubblica: PD e FI).
Spinge questa crisi un insieme di fattori economici, tecnologici e
sociali che rendono instabili e altamente confusi tutti i fattori di stabilità
politica che faticosamente erano stati costruiti nel corso dei due secoli che
seguono alla fine dell’ancien régime: le relazioni sociali, il discorso
pubblico, i valori centrali, i partiti, le forme della politica, le forme
dell’azione pubblica, le istituzioni. Come avevamo già
scritto, probabilmente alla radice di questa trasformazione non è solo
l’economia, con la prevalenza del sogno neoliberale (incubo per la maggioranza
delle persone non dotate di robuste dotazioni di capitali), ma anche una
profonda disintermediazione nella stessa costruzione del discorso, pubblico e
privato, e quindi della capacità e possibilità di accesso alla formazione della
verità.
Ma certamente in questa crisi viene rimesso in questione, e sempre
più profondamente, anche se incoerentemente l’assetto soffocante per troppi che
aveva trovato forma dalle ‘riforme’ avviate negli anni ottanta e poi rinforzate
con una piega imperiale (e neocoloniale) negli anni novanta. Questa è la
dimensione di crisi della politica, ovvero di una democrazia politica incapace
da tempo di svolgere la propria funzione di ottenere giustizia per i più deboli
(i forti se la ottengono da sé). Precisamente per coloro che sono deboli a
causa della posizione strutturale in cui si ritrovano nel sistema globale dei
rapporti produttivi e quindi nell’accesso alle risorse che questi consentono
(risorse economiche, sociali, culturali e quindi anche politiche).
Nel corso degli anni ottanta, e poi novanta, c’è stata una
inavvertita rotazione dell’asse istituzionale: da orientato ad un compromesso,
premessa di pace sociale e lealtà, si è trovato ad essere indirizzato a
proteggere i profitti e le rendite. Tutto il sistema istituzionale contro il
quale si è espresso il voto di marzo, anche quando non se ne accorge, vede il
mondo dal punto di vista di chi ottiene i profitti e di chi detiene i risparmi
(ovvero i capitali) e ne vuole trarre rendite. Ovvero di chi dispone del denaro
nella forma del capitale (poco o tanto) e ‘compra’ lavoro. Il lavoro, peraltro,
è inquadrato essenzialmente come una merce come ogni altra, della quale fare
economia, da ridurre al suo minor prezzo. Dimenticando, tra le altre cose, che
è il lavoro che consente di comprare le altre merci, di dare il loro valore. Lo
sguardo miope del capitale scava sotto le proprie fondamenta.
Nel 2003 tutto questo viene messo sotto accusa da un fortunato
libro del politologo Colin Crouch: “Postdemocrazia”.
La crescente influenza di sempre più piccole lobbies economiche e di élite
politiche sempre più autoreferenti ed il riferimento costante alla capacità di
azione libera degli agenti, ma anche il sistematico depotenziamento del sistema
di regole volto ad impedire che il mero potere economico si traduca in politico
produce una forma politica nella quale si comincia ad andare oltre l’idea del
governo del popolo. Ovvero oltre la sovranità popolare.
Ascoltiamo ora il discorso di Mattarella.
Ne riprendo alcuni stralci:
“Come del resto è mio dovere”
… “avevo fatto presente che per alcuni
ministeri avrei esercitato un’attenzione particolarmente ampia sulle scelte da
compiere”. Infatti, “il Presidente
della Repubblica svolge un ruolo di garanzia”.
Fin qui si può dire poco, ma subito continua:
“la designazione del Ministro
dell’Economia costituisce sempre un messaggio immediato, di fiducia o di
allarme per gli operatori economici e finanziari. Ho chiesto per quel ministero
un autorevole esponente politico di maggioranza, coerente con l’accordo di
programma, un esponente che, al di là della stima e della considerazione della
persona non sia visto come portatore di una linea più volte manifestata che
possa portare probabilmente, o addirittura inevitabilmente, la fuoriuscita dell’Italia
dall’Euro. Cosa ben diversa da un atteggiamento vigoroso nell’ambio della UE
dal punto di vista italiano”.
Il Presidente della Repubblica, nella non rituale ma essenziale presentazione
alla sfera pubblica delle ragioni per le quali ha inteso respingere la lista
dei Ministri che ai sensi della costituzione il Presidente del Consiglio incaricato,
nell’esercizio delle sue prerogative, gli aveva sottoposto per la ratifica,
porta un solo argomento: può allarmare
gli operatori economici e finanziari.
Di per sé potrebbe anche non essere trovato gravissimo se il
Presidente della Repubblica, che, come dice la Costituzione “nomina i ministri”
su “proposta” del Presidente del Consiglio, come in altri casi è successo, avesse
solo consigliato di cambiare un nome. Ma di fronte all’irrigidimento del
Presidente incaricato, pienamente appoggiato dalle forze politiche che hanno la
maggioranza in Parlamento, avendo vinto le elezioni su chiaro mandato, e
considerando le conseguenze su cui ci siamo soffermati in avvio, è grave e
pericoloso decida di procedere alla rottura. Bocciano quindi un “Governo del
cambiamento” che aveva il certificato consenso della maggioranza del paese.
Scrive Habermas nel 1990 in “La
rivoluzione recuperante” (in ‘La rivoluzione in corso’, p.197): il problema
lasciato dal crollo del sistema del socialismo reale, e delle sue speranze di
governo amministrativo, può essere affrontato attraverso un “contenimento
protettivo” ed una “guida indiretta” della crescita capitalistica. Un problema
che può trovare soluzione “solo in un nuovo rapporto tra sfere pubbliche
autonome da un lato e campi di azione mediati dal denaro e dal potere
amministrativo dall’altro”. Il potere sovrano, “connotato in senso comunicativo”,
si deve a questo punto (almeno) far sentire attraverso la capacità di influire
senza intenti egemonici sulle premesse dei processi di valutazione e di
decisione dell’amministrazione. Insomma, il potere comunicativo “gestisce il
pool di motivazioni con cui il potere amministrativo può operare in modo
strumentale ma che non può ignorare nella misura in cui si richiama allo stato
di diritto”.
L’unica ragione di non allarmare gli operatori economici, quando a
fronte di questa considerazione, pur dotata di una sua qualche forza, c’è l’enormità
di mandare inespressa la volontà sovrana appena manifestata dagli elettori, non
credo proprio passi il test di Habermas.
Continua il Presidente:
“l’incertezza sulla nostra
posizione sull’euro ha posto in allarme gli investitori e i risparmiatosi,
italiani e stranieri, che hanno investito nei nostri titoli di stato, italiani
e stranieri. L’impennata dello spred, giorno dopo giorno, aumenta il nostro
debito pubblico e riduce le possibilità di spesa dello Stato per nuovi
interventi sociali. Le perdite in borsa, giorno dopo giorno, bruciano risorse e
risparmi delle nostre aziende e di chi ha investito, e configurano rischi
concreti per i risparmi le nostre famiglie e per i cittadini italiani, con
pericoli per gli interessi per i mutui e per le aziende. In tanti ricordiamo
come prima dell’unione europea gli interessi bancari sfioravano il 20%”.
In questa compatta spiegazione, che funge da esplicazione dell’allarme
degli operatori, si trovano diverse affermazioni di fatto e l’esplicazione di
diversi meccanismi tecnici causali di cui si chiede implicitamente la
correttezza:
1.
l’allarme è ricondotto, tra i
molti possibili fattori (non ultimo la vittoria di forze inattese e mai
provate), alla sola posizione sull’euro;
2.
l’impennata dello spread
(peraltro già molte volte verificatasi e sempre ricondotta) è accusata di “aumentare
il debito pubblico” e di “ridurre la capacità di spesa dello Stato”, questa
relazione causale sarebbe possibile se lo spread restasse alto a lungo,
trascinandosi sui tassi e quindi impattando nel tempo sul servizio del debito
che va alimentato da risorse fiscali. Ma sarebbe possibile che nel caso temuto
di uscita dall’Euro questi effetti possano essere neutralizzati, ma non senza
costi, da una nuova Banca d’Italia sotto controllo del Tesoro (ovvero revocando
la più strutturale delle riforme degli anni ottanta, che ha generato il
debito);
3.
allargando il discorso si
passa alle oscillazioni delle quotazioni della borsa, qualificate come “perdite”
(quando sono solo valori nominali che si determinano in perdite per qualcuno e guadagno
per qualcun altro solo se sono vendute) e che addirittura, con linguaggio
giornalistico fuorviante in bocca ad un Presidente che sta svolgendo l’alto
ufficio di fornire motivazioni alla sfera pubblica politica su una decisione
così grave, vengono descritte attraverso la metafora del “bruciare”;
4.
Allargando ancora queste
perdite potenziali si potrebbero riverberare, in un successivo anello, addirittura
in “rischi concreti” per i risparmi delle famiglie e in innalzamenti dei tassi
di mutui ed aziende (evidentemente in caso di crisi generalizzata);
5.
Da ultimo viene ricordato che
gli interessi bancari senza euro erano al 20% (ma questo accadeva quando l’inflazione
era alta quasi altrettanto e dunque gli interessi reali erano bassi come ora, o
comunque vicini).
Insomma, il Presidente ha esercitato un crescendo retorico il cui
vero obiettivo era illustrare i rischi che immagina per l’uscita dall’Euro.
Ma il ministro in pectore non
minacciava affatto l’uscita, intendeva solo assumere una posizione forte di
tipo negoziale (impossibile se ci si preclude in via definitiva il piano “B”).
La chiusa è interessante:
“È mio dovere nello svolgere
il compito di nomina dei ministri che mi affida la costituzione essere attento
alla tutela dei risparmi degli italiani. In questo modo si riafferma
concretamente la sovranità italiana, mentre vanno respinte al mittente
inaccettabili e grotteschi giudizi sull’Italia.” … “Quella dell’adesione all’euro
è una scelta di importanza fondamentale per le prospettive del nostro paese e
dei nostri giovani, se si vuole discutere va fatto apertamente e con il
necessario approfondimento, anche perché non è stato al centro della recente
campagna elettorale”.
È dovere del Presidente essere attento alla tutela dei capitali (ovvero
dei “risparmi”), in questo poggia la sovranità italiana.
Facciamo un passo indietro: scrive Guido Carli nel 1993 che quello
che chiama “il significato sociale e
politico del debito pubblico”, a causa della sua ‘capillare diffusione nel
pubblico’ (ovvero, vale la pena ricordarlo subito, nella media e alta
borghesia), ipocritamente attribuito anche agli strati sociali meno abbienti
(come se avere, eventualmente, uno o due bot sia la stessa cosa di averne
migliaia), è che questo viene trasformato
nella democrazia stessa. Dice, infatti, Carli: “la sintesi politica di tutto ciò è evidente: il permanere del debito
pubblico nei portafogli delle famiglie italiane, per una libera scelta, senza
costrizioni, rappresenta la garanzia per la continuazione della democrazia”
(in ‘Cinquant'anni di vita italiana’,
p.387). Ne segue, incredibilmente, che per Carli “chi mira ad intaccare quella
fiducia, quella libera scelta, mira in ultima analisi ad interrompere la
continuità democratica”. Infatti il debito pubblico è niente di meno che la
connessione delle “famiglie”, ed “intima”, con il “grande” ed “efficiente” (due
parole che non possono certo essere sottovalutate nella loro potenza simbolica)
“mercato”. Il debito pubblico, continua Carli, è il tramite della scelta
culturale dell'apertura delle frontiere.
A chi propone (all'epoca Visentini) forme di ristrutturazione forzosa (che oggi sarebbe implicita in una fuoriuscita dalla gabbia europea, ma anche in una sua forte messa in discussione, attraverso operazioni di “monetizzazione”), Carli risponde che “oggi le strade della coercizione finanziaria sono precluse a qualsiasi classe dirigente che non voglia far correre al Paese antistoriche avventure autoritarie”. Insomma, risponde che al debito non si può sfuggire, e nemmeno si deve.
In conseguenza di ciò, e dell'apertura dei mercati, “non è più
possibile tornare indietro”. Come dice espressamente: “il Trattato di
Maastricht è incompatibile con l'idea stessa della 'programmazione economica'.
Ad essa si vengono a sostituire la politica dei redditi, la stabilità della
moneta e il principio del pareggio di bilancio” (p.389).
Il Banchiere che altrove dice apertamente “io stavo dalla parte dei capitalisti” nei conflitti distributivi, (p.269) e che ha rappresentato l'Italia nel negoziato di Maastricht, mostra, cioè, in modo del tutto chiaro chi è il sovrano.
Il sovrano è chi decide, e sono i risparmiatori, ovvero i detentori
dei capitali e quindi dei debiti.
Oggi ne abbiamo avuta un'altra prova: a fronte di due forze
politiche che non apprezzo, ma che hanno la maggioranza sia in Parlamento sia
nei voti degli italiani, e che proponevano attraverso la corretta procedura un
ministro sgradito perché foriero di
mettere in questione il debito, il Presidente ha argomentato il suo rifiuto
proprio in questi termini. Ha
sostenuto che la scelta avrebbe danneggiato i risparmi e spaventato i mercati.
Dunque non sono sovrani i cittadini attraverso la procedura del
voto (ovvero attraverso l'esercizio di quel suffragio universale, sostituitosi
nel corso del novecento al voto limitato a chi dispone di capitale), ma i
risparmiatori e il loro oracolo: i “mercati”.
In effetti “post-democrazia”, da oggi, è
termine modesto. Bisognerà riflettere bene su questo passaggio epocale: di nuovo l'Italia apre la strada.
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