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sabato 2 giugno 2018

Jonathan Friedman, “Politicamente corretto”



Il libro dell’antropologo Jonathan Friedman è il risultato di un lungo progetto editoriale, iniziato nel 1997 a ridosso di un incidente mediatico che coinvolge sua moglie, anche essa antropologa, l’autore ci lavora per anni e lo pubblica in questa versione alla fine dopo quasi venti. Friedman è noto per studi sull’antropologia dei sistemi globali, il carattere ciclico della globalizzazione, l’interesse per le dinamiche di crescita e declino egemonico. Una delle caratteristiche di base della sua ricerca è l’attenzione agli ambiti in cui finisce per riprodursi ed essere integrata ogni organizzazione sociale, ambiti caratterizzati dai tempi lunghi della storia (un autore di riferimento è Andre Gunder Frank e ovviamente Giovanni Arrighi). Lo spunto polemico è verso l’idea che la globalizzazione e l’apertura sia connessa in qualche modo con il progresso, e quindi ad un approccio evoluzionista e culturalistico. Sul lungo periodo della storia (ad esempio nelle Hawaii o in Africa) si registrano invece fasi di frammentazione sociale e culturale (e movimenti indipendentisti) intervallate da fasi di omogeneizzazione.



Il “politicamente corretto” è connesso a questi movimenti; sul piano formale è una forma di categorizzazione e quindi di comunicazione che sposa quella che Friedman chiama una “logica associativa” (se dici una cosa devi essere in una identità predefinita). Questa classificazione induce a far prevalere quella che si chiama “valenza indessicale”, ovvero il contesto della comunicazione, sul suo contenuto semantico. L’effetto è che inquadrare un’affermazione come “politicamente corretta” (o s-corretta) consente di neutralizzarla, essa non può più essere localmente vera, perché è semplicemente troppo terribile. Al contrario è vero ciò che è buono. Insomma, “il terribile e il meraviglioso sono autoevidenti”. Dunque si ha un utilizzo politico della morale per controllare la comunicazione e censurarla ab origine in tempi di incertezza.

I tempi sono incerti perché si è nella fase, per Friedman nel ventennio in cui coltiva il libro, di ascesa ed affermazione di una nuova élite multiculturale e cosmopolita. Dunque il multiculturalismo è parte della identità dell’élite ed il “politicamente corretto” uno strumento della sua affermazione. Cioè dell’affermazione di una ideologia come dominante e dell’ordine morale, e di esclusione del discorso, che la caratterizza. Ciò che avviene è in definitiva una moralizzazione dell’ordine sociale.

L’ideologia del “politicamente corretto” origina dagli anni settanta, dall’affermazione di una cultura pluralista che identifica come fondazionalismo, e quindi in qualche modo totalitarismo, ogni affermazione oggettiva. In essa tutto l’edificio delle scienze e della cultura precedente.
Questa critica corrosiva si ammanta di radicalismo nel clima anticoloniale (durante la fase terminale, appunto, della decolonizzazione) e nasconde al suo interno sul piano sociale l’affermazione di una élite cosmopolita che aspira alla combinazione delle identità in fusioni ibride, vagheggianti una controfattuale “cittadinanza globale”. Si tratta dei “panciuti professori” di cui parla l’ultimo Rorty (in “Una sinistra per il prossimo secolo”, venato di autocritica). Questa fusione è alla fine considerata “l’unico futuro moralmente accettabile per il mondo” (p.26).
Come scrive Friedman si tratta sostanzialmente de “la moralizzazione dell'universo sociale e la dicotomizzazione tra ciò che si può dire e ciò che non si può dire”. Di fatto questa selezione ex ante dei temi giudicati sensibili esplica un potente controllo sociale fondato sulla vergogna. E manifesta un potente effetto egemonico, generalizzando questioni locali per trasformarle in verità autoevidenti.

In sostanza la critica che viene avanzata da Friedman è esattamente nella direzione del pluralismo, a parole esaltato dall’ideologia del “politicamente corretto”. Per l’antropologo americano, al contrario, questo diventa “un mezzo di soppressione del dibattito”.

Questa mossa sul piano del controllo dei temi ha comunque una simmetria con la politica economica globale e il TINA con il quale essa viene difesa da qualsiasi ipotesi di critica. Come dice l’autore: “seguendo un curioso dislocamento di una ben nota politica economica globale, le élite culturali, beneficiarie principali della nuova stratificazione globalizzata, si sono attivamente impegnate nel loro aggiustamento strutturale intellettuale” (p.31).

Concepire la politica come moralità significa che al termine come discriminante diventa “l’argomento centrale che il significato di una dichiarazione non sta nell’intenzione del soggetto che la produce, ma nella somma complessiva degli usi ai quali è sottoposto nel più ampio contesto sociale”. Dunque il “politicamente corretto” attiva un meccanismo potentissimo di esclusione sociale: la vergogna. La cultura della vergogna, diffusa sempre più, si basa a sua volta su alcune autoevidenti verità generali sul mondo, dunque la comparsa di questa cultura è in relazione con l’indebolimento di quello che chiama “la riflessività”.

Si tratta di una sorta di “spostamento cosmologico”, avviato con la critica al modernismo, ed alla sua razionalità (incluso il sistema di autorità centraliste che lo caratterizza, dunque la razionalità di Stato). D’un tratto, con una sorta di spostamento gestaltico, il multiculturalismo è diventato l’elemento centrale del progressismo, insieme:
-        al lamentato declino dell’egemonia occidentale (accusata di essere colonialista),
-        quindi al terzo mondo ridefinito come il “bene”, ed elevato a rappresentare la vera alternativa, con l’implicazione di accettare l’eterogeneità ed il relativo,
-        a questo come simbolo della resistenza contro i centri imperiali, il capitalismo, la razionalità e la modernità,
-        alla concezione del subalterno come primitivo, olistico, nomade/ridomatico, in contrapposizione al moderno, razionalista, astratto e verticale.

Si attua anche una sorta di rovesciamento del modello eroico, dalla classe lavoratrice come paradigma a antieroe nazionalista, e il rifugiato, il migrante, come nuovo eroe (p.47). Una vera inversione dei termini: “liberale significa progressista, socialista significa reazionario”.

La cultura connessa con questa diversa cosmologia è improntata al narcisismo ed all’egemonia del controllo basato sulla classificazione e reso operativo dall’autocontrollo basato sulla vergogna. Dunque “alla fine il politicamente corretto riguarda ciò che non può essere vero, perché è semplicemente troppo terribile o malvagio, e ciò che deve essere vero, perché è così meraviglioso e buono, e tanto terribile che il meraviglioso sono opportunamente autoevidenti” (p.57).

Questa ideologia opera attraverso classificazioni e catene associative di classificazioni, che istituiscono una interpretazione moralmente definita della situazione così potente in alcune menti (socialmente istituite) da determinare un’autentica paura ad esprimere, e talvolta anche a riconoscere, le proprie opinioni se divergenti.

Il punto è che “l’emergere, come progressiste, di questa combinazione di liberismo economico e multiculturalismo è parte di un significativo ribaltamento ideologico che ha colpito gran parte del mondo occidentale” (p.71).
L’associazionismo è infatti l’opposto della discussione razionale: “la razionalità critica si concentra su cosa dice un'affermazione, l'associazionismo su cosa questa significhi che più ampio contesto sociale”, ma quando il soggetto comincia a perdere i suoi punti di riferimento, nel contesto di un rovesciamento cosmologico, prevale il secondo schema; allora si lavora per associazioni morali e classificazioni, ma si perde il razionale e con esso la possibilità di un autentico confronto pluralista. Allora l’identificazione relativa diventa più importante del contenuto della comunicazione ed il valore sociale del valore semantico. Essere dalla parte giusta e fare la cosa giusta diventano strumenti di controllo intellettuale sempre più potenti.
In questo contesto di paura sociale e di insicurezza, ovvero di transizione egemonica delle élite, l’identificazione diventa la principale forma di agire sociale. Per cui il solo non essere sicuri, ad esempio, dell’inevitabilità di un mondo trans-nazionale come approdo finale della storia significa essere reazionari. Mettere in questione l’implicita visione della storia come di un binario rettilineo verso il “Bene”, significa volere il medioevo e il ritorno all’aratro trascinato dai buoi. Non ammettere che lo Stato Nazionale sia in sé obsoleto, essere fascista, o almeno un antiquato conservatore.

Naturalmente nessuno chiarisce che cosa significa essere “cittadini del mondo”, dato che la sola locuzione implicherebbe uno Stato, ma questa volta mondiale. Dunque una forma estrema di centralizzazione e di razionalità. La locuzione si capisce molto meglio se si fa riferimento ad un ricco che, avendo ogni mezzo necessario, vuole evitare semplicemente le responsabilità e i vincoli (in primis la tassazione) che deriva dall’essere entro un qualche confine statuale. Sembra dire “ho il diritto di conservare il mio denaro e vivere dove mi pare”. Oppure per uno che fugge da qualche devastazione, molto più legittimamente, significa “voglio andarmene e dovete accogliermi e darmi i mezzi per sopravvivere”. Chi li dovrebbe dare se il ricco non vuole partecipare? E se l’apertura determina alla fine distribuzioni enormemente ineguali che lasciano nelle mani dei secondi oltre la metà della ricchezza?

Il fatto è che l’imponente crescita delle migrazioni, lungi dall’essere un fenomeno inevitabile, “contribuisce all’imponente incremento dello sfruttamento (o livellamento verso il basso) in gran parte dell’occidente, e in stati assistenziali come la Svezia diventa una macchina di segregazione” (la mia posizione sul tema in questo post: “il cespuglio inestricabile”). La migrazione, a parere di Friedman, non è in sé una buona idea ma è un elemento strategico della nefasta configurazione dello sfruttamento globale, “insomma il contrario di una cornucopia culturale” (p. 100).
Ma Friedman va molto oltre, afferma che ci sia una somiglianza strutturale tra questo tipico discorso, il cui tratto tipico è la natura “soppressiva”, e il razzismo. La somiglianza nasce “dall’identificare un ‘altro’ come appartenente ad un ordine differente che non può essere accettato e bollato come incarnazione del male” (p.101). Si tratta della logica della caccia alle streghe per cui invece di chiedersi cosa dice x, ci si chiede chi sia x.
Il politicamente corretto è, insomma, un problema antropologico che entra in gioco nei periodi di instabilità, in cui nuove ideologie emergono senza avere una ideologia chiaramente stabilita. In questo contesto il mondo multiculturale, transnazionale e culturalmente ibrido è identificato come l’unica strada possibile per il futuro, mentre chi lo mette in questione è visto con ostilità ed odio. In questo novero andrebbe messo anche il grande antropologo Claude Lévi-Stauss che nel 1994 ebbe l’ardire di scrivere, contro l’Unesco, “le culture, ognuna delle quali collegata con un proprio stile di vita e sistema di valori, enfatizzano le proprie peculiarità, e questa è una tendenza sana, non patologica come vorrebbero farci credere”, dunque “se l’umanità non si rassegna a diventare la consumatrice sterile dei soli valori che ha saputo creare in passato, capace ormai solo di partorire opere bastarde, invenzioni grossolane e puerili, dovrà reimparare che ogni creazione vera implica una certa sordità al richiamo di altri valori, che può giungere fino al loro rifiuto o addirittura alla loro negazione” (p.104).

Questa trasformazione, nella quale l’ibridismo, la globalizzazione, il multiculturalismo e le migrazioni sono considerate forze rivoluzionarie essenzialmente perché “paiono incarnare una visione classista funzionale alle esigenze di una élite culturale nuova e mobile”, emerge man mano che questa si stacca dalla piccola e media borghesia, lasciandola indietro.
Lasciandola indietro, rinchiusa nei suoi fortilizi nazionali, l’alta borghesia globalizzata e cosmopolita in effetti cerca di ripristinare una forma di pluralismo culturale che appare “un’invenzione dell’ordine coloniale, un ordine basato sulla segmentazione” (p.156).

Dunque c’è una sorta di opposizione tra l’ordine coloniale, in cui limitate élite esterne, associate a parte di élite “compradore” interne, governano paesi segmentati e concepiti quasi come dormitori studenteschi, e lo Stato nazionale che reagisce a questa disintegrazione e cerca di mettere al sicuro le condizioni di esistenza. Il processo sociale della modernità era incentrato sulla nazione perché lo era sul controllo statale e la protezione.
Il tramonto di questa cosmologia ha portato ad alcuni slittamenti paralleli:
-        dal nazionale al postnazionale (dall’ordine nazionale a quello coloniale),
-        dal locale al globale,
-        dal collettivo all’individuale (e quindi al narcisismo),
-        dal socialismo al liberale come modello progressista,
-        dall’omogeneo all’eterogeneo,
-        dal monoculturale al multiculturale,
-        dall’uguaglianza alla gerarchia (differenza),

Sta emergendo alla fine un potenziale di classificazione gerarchica ed un autoritarismo liberale che può sfumare in una sorta di sistema di caste, o meglio di “simil-caste” (p.195). Un sistema basato sul concetto di “rispettabilità” che esclude dalle posizioni di potere chiunque non lo è. Una logica che “è di per sé legata a, e determinata da, una vera e propria polarizzazione verticale e dalla formazione di rapporti di classe transnazionali”. Abbiamo avuto un plastico esempio nella recente crisi istituzionale italiana, quando una maggioranza chiaramente emersa da un’elezione democratica è stata osteggiata, fino al limite di minacciare l’incarico ad un altro governo che si sapeva in partenza non avere nessun numero (poteva raggiungere il record di non avere la fiducia di nessuno), perché “non rispettabile”, e accusata di avere cattive intenzioni. Ho evocato in quel caso la nozione di “post-democrazia”, ma in effetti nella legittimazione di quella posizione, come si vede dal dibattito seguente (imperniato sul tentativo delle forze di élite “coloniali” di creare un “fronte repubblicano”), è implicata un rifiuto radicale di riconoscere la rispettabilità.
Ovvero è implicato il carattere radicalmente non “politicamente corretto” del discorso della nuova coalizione.

Del resto è dagli anni novanta, con l’inversione cosmologica di cui abbiamo parlato, che i progressisti sono diventati i neo-liberisti (con una versione di destra ed una di sinistra che ora si tenta di riunire nel “fronte”), in vario modo multiculturalisti, mentre i reazionari sono associati al monoculturalismo e alla protezione dei lavoratori. Chi protegge è, insomma, reazionario o almeno conservatore.
Sulla base di questo scivolamento chi si intesta le istanze di protezione dal basso, assumendo necessariamente i relativi toni (inclusi alcuni “plebeismi” necessari per entrare in sintonia comunicazionale), è sospettabile di “fascismo”, nella misura in cui è nazionalista e cerca di mettere in essere un movimento per il controllo delle proprie condizioni di esistenza che passa necessariamente per la protezione. In realtà per le stesse ragioni potrebbe essere chiamato “socialdemocratico” (i due movimenti sotto questo profilo reagiscono alla stessa sfida, p.158, anche se lo fanno in modo molto differente).
Ciò che non è rispettabile, in altre parole, è che il candidato a governare non tronca realmente, come dovrebbe, la rappresentatività e non è abbastanza diverso da chi è governato. La logica della nuova forma del mondo è infatti che il governo, in quanto progetto politico della classe egemone cosmopolita e mondializzata (da noi incarnata nei circoli europei), deve essere rigidamente separato dal popolo e deve essere differente da esso (p.226). Anzi, il popolo deve trasformarsi ‘nei popoli’, veloci, flessibili e in fondo simili ad una popolazione coloniale che ha unica scelta di adattarsi. La globalizzazione è, infatti, per questa forma ideologica un fenomeno naturale, che unifica il mondo disciogliendo ogni particolarità e dissolvendo ogni protezione e barriera, promuovendo la concorrenza ed esaltando creatività e flessibilità; intensificando.

Del resto le élite globali in effetti non hanno bisogno davvero della democrazia, nella logica classificatoria della ideologia del “politicamente corretto”, si può dire che esse contengono la democrazia “nel loro corpo”. Esse sono la democrazia.
La cosa può sembrare illogica, ma chi si identifica nel cosmopolitismo postmoderno non è facilmente sensibile alle argomentazioni razionali, perché egli rappresenta in sé il “bene”, egli è parte di quelli che hanno a cuore l’umanità e dei rappresentanti della giustizia. Essi sono, insomma, “la voce di Dio piuttosto che la voce del popolo”. Si tratta, in altre parole, di un ordine della differenza, intrinsecamente gerarchico.
Infatti “ciò che è democratico non sono inezie come il voto, ma quei valori considerati ‘buoni’, cioè moralmente e politicamente corretti” (p.252).

Anche in questo senso se si esercita l’affronto di opporsi, dopo un attimo di trattenuto ma profondo sconcerto, la reazione logica può essere solo di definire il radicale ‘altro’ che si è manifestato come “fascista”. In qualche senso espellerlo dall’umano.

Come reazione a questo processo, ed a questo progetto, la dicotomia destra/sinistra anche per Friedman si è verticalizzata in alto/basso (p.250)
Dove la classe dirigente, letteralmente, si chiama fuori dalla nazione, delegittimandone la forma, e opera per trasformare questa ultima in una società plurale e senza forma, “una variante della precedente società coloniale, in cui la classe dirigente è di origine straniera, o per lo meno si identifica come appartenente a quel mondo” (p.294). Si ha uno spostamento della sovranità dal popolo verso i rappresentanti delle élite sovranazionali o lavoranti per esse. Uno spostamento che può prendere la forma di sovranità dei mercati, purché internazionali, mobili e considerati allo stato di natura.

D’altra parte chi si identifica in questa sinistra, e si pensa come progressista in questo senso, è parte di una autonominata nuova élite dominante, “il cui nemico principale è ormai la classe operaia” (p.289).

Ci sono due problemi: questa se ne è accorta ed è una popolazione decisamente consistente ed in crescita.

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