Il libro
dell’antropologo Jonathan Friedman è il risultato di un lungo progetto
editoriale, iniziato nel 1997 a ridosso di un incidente mediatico che coinvolge
sua moglie, anche essa antropologa, l’autore ci lavora per anni e lo pubblica
in questa versione alla fine dopo quasi venti. Friedman è noto per studi
sull’antropologia dei sistemi globali, il carattere ciclico della
globalizzazione, l’interesse per le dinamiche di crescita e declino egemonico.
Una delle caratteristiche di base della sua ricerca è l’attenzione agli ambiti
in cui finisce per riprodursi ed essere integrata ogni organizzazione sociale,
ambiti caratterizzati dai tempi lunghi della storia (un autore di riferimento è
Andre Gunder Frank e ovviamente Giovanni Arrighi). Lo spunto polemico è verso
l’idea che la globalizzazione e l’apertura sia connessa in qualche modo con il
progresso, e quindi ad un approccio evoluzionista e culturalistico. Sul lungo
periodo della storia (ad esempio nelle Hawaii o in Africa) si registrano invece
fasi di frammentazione sociale e culturale (e movimenti indipendentisti)
intervallate da fasi di omogeneizzazione.
Il “politicamente corretto” è connesso a questi
movimenti; sul piano formale è una forma di categorizzazione e quindi di
comunicazione che sposa quella che Friedman chiama una “logica associativa” (se dici una cosa devi essere in una identità predefinita). Questa classificazione induce
a far prevalere quella che si chiama “valenza indessicale”, ovvero il contesto
della comunicazione, sul suo contenuto semantico. L’effetto è che inquadrare
un’affermazione come “politicamente corretta” (o s-corretta) consente di
neutralizzarla, essa non può più essere localmente vera, perché è semplicemente
troppo terribile. Al contrario è vero
ciò che è buono. Insomma, “il terribile e il meraviglioso sono autoevidenti”.
Dunque si ha un utilizzo politico della morale per controllare la comunicazione
e censurarla ab origine in tempi di
incertezza.
I tempi sono incerti perché si è nella fase, per
Friedman nel ventennio in cui coltiva il libro, di ascesa ed affermazione di
una nuova élite multiculturale e cosmopolita. Dunque il multiculturalismo è
parte della identità dell’élite ed il “politicamente corretto” uno strumento
della sua affermazione. Cioè dell’affermazione di una ideologia come dominante
e dell’ordine morale, e di esclusione del discorso, che la caratterizza. Ciò
che avviene è in definitiva una moralizzazione
dell’ordine sociale.
L’ideologia del “politicamente corretto” origina dagli
anni settanta, dall’affermazione di una cultura pluralista che identifica come fondazionalismo, e quindi in qualche
modo totalitarismo, ogni affermazione oggettiva. In essa tutto l’edificio delle
scienze e della cultura precedente.
Questa critica corrosiva si ammanta di radicalismo nel
clima anticoloniale (durante la fase terminale, appunto, della
decolonizzazione) e nasconde al suo interno sul piano sociale l’affermazione di
una élite cosmopolita che aspira alla combinazione delle identità in fusioni
ibride, vagheggianti una controfattuale “cittadinanza globale”. Si tratta dei
“panciuti professori” di cui parla l’ultimo Rorty (in “Una
sinistra per il prossimo secolo”, venato di autocritica). Questa fusione è
alla fine considerata “l’unico futuro moralmente accettabile per il mondo”
(p.26).
Come scrive Friedman si tratta sostanzialmente de “la
moralizzazione dell'universo sociale e la dicotomizzazione tra ciò che si può
dire e ciò che non si può dire”. Di fatto questa selezione ex ante dei temi
giudicati sensibili esplica un potente controllo sociale fondato sulla
vergogna. E manifesta un potente effetto egemonico, generalizzando questioni
locali per trasformarle in verità autoevidenti.
In sostanza la critica che viene avanzata da Friedman
è esattamente nella direzione del pluralismo, a parole esaltato dall’ideologia
del “politicamente corretto”. Per l’antropologo americano, al contrario, questo
diventa “un mezzo di soppressione del dibattito”.
Questa mossa sul piano del controllo dei temi ha comunque
una simmetria con la politica economica globale e il TINA con il quale essa
viene difesa da qualsiasi ipotesi di critica. Come dice l’autore: “seguendo un
curioso dislocamento di una ben nota politica economica globale, le élite
culturali, beneficiarie principali della nuova stratificazione globalizzata, si
sono attivamente impegnate nel loro aggiustamento strutturale intellettuale”
(p.31).
Concepire la politica come moralità significa che al
termine come discriminante diventa “l’argomento centrale che il significato di
una dichiarazione non sta nell’intenzione del soggetto che la produce, ma nella
somma complessiva degli usi ai quali è sottoposto nel più ampio contesto
sociale”. Dunque il “politicamente corretto” attiva un meccanismo potentissimo
di esclusione sociale: la vergogna.
La cultura della vergogna, diffusa sempre più, si basa a sua volta su alcune
autoevidenti verità generali sul mondo, dunque la comparsa di questa cultura è
in relazione con l’indebolimento di quello che chiama “la riflessività”.
Si tratta di una sorta di “spostamento cosmologico”,
avviato con la critica al modernismo, ed alla sua razionalità (incluso il
sistema di autorità centraliste che lo caratterizza, dunque la razionalità di
Stato). D’un tratto, con una sorta di spostamento gestaltico, il
multiculturalismo è diventato l’elemento centrale del progressismo, insieme:
-
al lamentato
declino dell’egemonia occidentale (accusata di essere colonialista),
-
quindi al terzo
mondo ridefinito come il “bene”, ed elevato a rappresentare la vera
alternativa, con l’implicazione di accettare l’eterogeneità ed il relativo,
-
a questo come simbolo
della resistenza contro i centri imperiali, il capitalismo, la razionalità e la
modernità,
-
alla concezione
del subalterno come primitivo, olistico, nomade/ridomatico, in contrapposizione
al moderno, razionalista, astratto e verticale.
Si attua anche una sorta di rovesciamento del modello
eroico, dalla classe lavoratrice come paradigma a antieroe nazionalista, e il
rifugiato, il migrante, come nuovo eroe (p.47). Una vera inversione dei
termini: “liberale significa
progressista, socialista significa reazionario”.
La cultura connessa con questa diversa cosmologia è
improntata al narcisismo ed all’egemonia del controllo basato sulla
classificazione e reso operativo dall’autocontrollo basato sulla vergogna.
Dunque “alla fine il politicamente corretto riguarda ciò che non può essere
vero, perché è semplicemente troppo terribile o malvagio, e ciò che deve essere
vero, perché è così meraviglioso e buono, e tanto terribile che il meraviglioso
sono opportunamente autoevidenti” (p.57).
Questa ideologia opera attraverso classificazioni e catene associative di classificazioni, che
istituiscono una interpretazione moralmente definita della situazione così
potente in alcune menti (socialmente istituite) da determinare un’autentica
paura ad esprimere, e talvolta anche a riconoscere, le proprie opinioni se
divergenti.
Il punto è che “l’emergere,
come progressiste, di questa combinazione di liberismo economico e multiculturalismo
è parte di un significativo ribaltamento ideologico che ha colpito gran parte
del mondo occidentale” (p.71).
L’associazionismo è infatti l’opposto della
discussione razionale: “la razionalità critica si concentra su cosa dice
un'affermazione, l'associazionismo su cosa questa significhi che più ampio
contesto sociale”, ma quando il soggetto comincia a perdere i suoi punti di
riferimento, nel contesto di un rovesciamento cosmologico, prevale il secondo
schema; allora si lavora per associazioni morali e classificazioni, ma si perde
il razionale e con esso la possibilità di un autentico confronto pluralista.
Allora l’identificazione relativa diventa più importante del contenuto della
comunicazione ed il valore sociale del valore semantico. Essere dalla parte giusta
e fare la cosa giusta diventano strumenti di controllo intellettuale sempre più
potenti.
In questo contesto di paura sociale e di insicurezza,
ovvero di transizione egemonica delle élite, l’identificazione diventa la principale forma di agire sociale. Per
cui il solo non essere sicuri, ad esempio, dell’inevitabilità di un mondo
trans-nazionale come approdo finale della storia significa essere reazionari.
Mettere in questione l’implicita visione della storia come di un binario
rettilineo verso il “Bene”, significa volere il medioevo e il ritorno
all’aratro trascinato dai buoi. Non ammettere che lo Stato Nazionale sia in sé
obsoleto, essere fascista, o almeno un antiquato conservatore.
Naturalmente nessuno chiarisce che cosa significa
essere “cittadini del mondo”, dato che la sola locuzione implicherebbe uno
Stato, ma questa volta mondiale. Dunque una forma estrema di centralizzazione e
di razionalità. La locuzione si capisce molto meglio se si fa riferimento ad un
ricco che, avendo ogni mezzo necessario, vuole evitare semplicemente le
responsabilità e i vincoli (in primis la tassazione) che deriva dall’essere
entro un qualche confine statuale. Sembra dire “ho il diritto di conservare il
mio denaro e vivere dove mi pare”. Oppure per uno che fugge da qualche devastazione,
molto più legittimamente, significa “voglio andarmene e dovete accogliermi e
darmi i mezzi per sopravvivere”. Chi li dovrebbe dare se il ricco non vuole
partecipare? E se l’apertura determina alla fine distribuzioni enormemente
ineguali che lasciano nelle mani dei secondi oltre la metà della ricchezza?
Il fatto è che l’imponente crescita delle migrazioni,
lungi dall’essere un fenomeno inevitabile, “contribuisce all’imponente
incremento dello sfruttamento (o livellamento verso il basso) in gran parte
dell’occidente, e in stati assistenziali come la Svezia diventa una macchina di
segregazione” (la mia posizione sul tema in questo post: “il
cespuglio inestricabile”). La migrazione, a parere di Friedman, non è in sé una buona idea ma è un elemento
strategico della nefasta configurazione dello sfruttamento globale, “insomma il
contrario di una cornucopia culturale” (p. 100).
Ma Friedman va molto oltre, afferma che ci sia una
somiglianza strutturale tra questo tipico discorso, il cui tratto tipico è la
natura “soppressiva”, e il razzismo. La somiglianza nasce “dall’identificare un
‘altro’ come appartenente ad un ordine differente che non può essere accettato
e bollato come incarnazione del male” (p.101). Si tratta della logica della
caccia alle streghe per cui invece di chiedersi cosa dice x, ci si chiede chi
sia x.
Il politicamente corretto è, insomma, un problema
antropologico che entra in gioco nei periodi di instabilità, in cui nuove
ideologie emergono senza avere una ideologia chiaramente stabilita. In questo
contesto il mondo multiculturale, transnazionale e culturalmente ibrido è
identificato come l’unica strada possibile per il futuro, mentre chi lo mette
in questione è visto con ostilità ed odio. In questo novero andrebbe messo
anche il grande antropologo Claude Lévi-Stauss che nel 1994 ebbe l’ardire di
scrivere, contro l’Unesco, “le culture, ognuna delle quali collegata con un
proprio stile di vita e sistema di valori, enfatizzano le proprie peculiarità,
e questa è una tendenza sana, non patologica come vorrebbero farci credere”,
dunque “se l’umanità non si rassegna a diventare la consumatrice sterile dei
soli valori che ha saputo creare in passato, capace ormai solo di partorire
opere bastarde, invenzioni grossolane e puerili, dovrà reimparare che ogni
creazione vera implica una certa sordità al richiamo di altri valori, che può
giungere fino al loro rifiuto o addirittura alla loro negazione” (p.104).
Questa trasformazione, nella quale l’ibridismo, la
globalizzazione, il multiculturalismo e le migrazioni sono considerate forze
rivoluzionarie essenzialmente perché “paiono incarnare una visione classista
funzionale alle esigenze di una élite culturale nuova e mobile”, emerge man
mano che questa si stacca dalla piccola e media borghesia, lasciandola
indietro.
Lasciandola indietro, rinchiusa nei suoi fortilizi
nazionali, l’alta borghesia globalizzata e cosmopolita in effetti cerca di ripristinare
una forma di pluralismo culturale che appare “un’invenzione dell’ordine
coloniale, un ordine basato sulla segmentazione” (p.156).
Dunque c’è una sorta di opposizione tra l’ordine
coloniale, in cui limitate élite esterne, associate a parte di élite
“compradore” interne, governano paesi segmentati e concepiti quasi come
dormitori studenteschi, e lo Stato nazionale che reagisce a questa
disintegrazione e cerca di mettere al sicuro le condizioni di esistenza. Il
processo sociale della modernità era incentrato sulla nazione perché lo era sul
controllo statale e la protezione.
Il tramonto di questa cosmologia ha portato ad alcuni
slittamenti paralleli:
-
dal nazionale al
postnazionale (dall’ordine nazionale a quello coloniale),
-
dal locale al
globale,
-
dal collettivo
all’individuale (e quindi al narcisismo),
-
dal socialismo al
liberale come modello progressista,
-
dall’omogeneo
all’eterogeneo,
-
dal monoculturale
al multiculturale,
-
dall’uguaglianza
alla gerarchia (differenza),
Sta emergendo alla fine un potenziale di classificazione
gerarchica ed un autoritarismo liberale che può sfumare in una sorta di sistema
di caste, o meglio di “simil-caste” (p.195). Un sistema basato sul concetto di
“rispettabilità” che esclude dalle
posizioni di potere chiunque non lo è. Una logica che “è di per sé legata a, e
determinata da, una vera e propria polarizzazione verticale e dalla formazione
di rapporti di classe transnazionali”. Abbiamo avuto un plastico esempio nella
recente crisi istituzionale italiana, quando una maggioranza chiaramente emersa
da un’elezione democratica è stata osteggiata, fino al limite di minacciare
l’incarico ad un altro governo che si sapeva in partenza non avere nessun
numero (poteva raggiungere il record di non avere la fiducia di nessuno),
perché “non rispettabile”, e accusata di avere cattive intenzioni. Ho evocato
in quel caso la nozione di “post-democrazia”,
ma in effetti nella legittimazione di quella posizione, come si vede dal
dibattito seguente (imperniato sul tentativo delle forze di élite “coloniali”
di creare un “fronte repubblicano”), è implicata un rifiuto radicale di
riconoscere la rispettabilità.
Ovvero è implicato il carattere radicalmente non “politicamente
corretto” del discorso della nuova coalizione.
Del resto è dagli anni novanta, con l’inversione
cosmologica di cui abbiamo parlato, che i progressisti sono diventati i
neo-liberisti (con una versione di destra ed una di sinistra che ora si tenta
di riunire nel “fronte”), in vario modo multiculturalisti, mentre i reazionari
sono associati al monoculturalismo e alla protezione dei lavoratori. Chi protegge è, insomma, reazionario o
almeno conservatore.
Sulla base di questo scivolamento chi si intesta le
istanze di protezione dal basso, assumendo necessariamente i relativi toni
(inclusi alcuni “plebeismi” necessari per entrare in sintonia comunicazionale),
è sospettabile di “fascismo”, nella misura in cui è nazionalista e cerca di
mettere in essere un movimento per il controllo delle proprie condizioni di
esistenza che passa necessariamente per la protezione. In realtà per le stesse
ragioni potrebbe essere chiamato “socialdemocratico” (i due movimenti sotto questo profilo reagiscono alla
stessa sfida, p.158, anche se lo fanno in modo molto differente).
Ciò che non è rispettabile, in altre parole, è che il
candidato a governare non tronca
realmente, come dovrebbe, la
rappresentatività e non è abbastanza
diverso da chi è governato. La logica della nuova forma del mondo è infatti
che il governo, in quanto progetto politico della classe egemone cosmopolita e
mondializzata (da noi incarnata nei circoli europei), deve essere rigidamente separato dal popolo e deve essere differente
da esso (p.226). Anzi, il popolo deve trasformarsi ‘nei popoli’, veloci,
flessibili e in fondo simili ad una popolazione coloniale che ha unica scelta
di adattarsi. La globalizzazione è, infatti, per questa forma ideologica un
fenomeno naturale, che unifica il mondo disciogliendo ogni particolarità e
dissolvendo ogni protezione e barriera, promuovendo la concorrenza ed esaltando
creatività e flessibilità; intensificando.
Del resto le élite globali in effetti non hanno
bisogno davvero della democrazia, nella logica classificatoria della ideologia
del “politicamente corretto”, si può dire che esse contengono la democrazia “nel loro corpo”. Esse sono la democrazia.
La cosa può sembrare illogica, ma chi si identifica nel
cosmopolitismo postmoderno non è facilmente sensibile alle argomentazioni
razionali, perché egli rappresenta in sé
il “bene”, egli è parte di quelli che hanno a cuore l’umanità e dei
rappresentanti della giustizia. Essi sono, insomma, “la voce di Dio piuttosto che la voce del popolo”. Si tratta, in
altre parole, di un ordine della differenza, intrinsecamente gerarchico.
Infatti “ciò che è democratico non sono inezie come il
voto, ma quei valori considerati ‘buoni’, cioè moralmente e politicamente
corretti” (p.252).
Anche in questo senso se si esercita l’affronto di
opporsi, dopo un attimo di trattenuto ma profondo sconcerto, la reazione logica
può essere solo di definire il radicale ‘altro’ che si è manifestato come
“fascista”. In qualche senso espellerlo dall’umano.
Come reazione a questo processo, ed a questo progetto,
la dicotomia destra/sinistra anche per Friedman si è verticalizzata in
alto/basso (p.250)
Dove la classe dirigente, letteralmente, si chiama
fuori dalla nazione, delegittimandone la forma, e opera per trasformare questa
ultima in una società plurale e senza forma, “una variante della precedente
società coloniale, in cui la classe dirigente è di origine straniera, o per lo
meno si identifica come appartenente a quel mondo” (p.294). Si ha uno
spostamento della sovranità dal popolo verso i rappresentanti delle élite
sovranazionali o lavoranti per esse. Uno spostamento che può prendere la forma
di sovranità
dei mercati, purché internazionali, mobili e considerati allo stato di
natura.
D’altra parte chi si identifica in questa sinistra, e si
pensa come progressista in questo senso, è parte di una autonominata nuova
élite dominante, “il cui nemico principale è ormai la classe operaia” (p.289).
Ci sono due problemi: questa se ne è accorta ed è una popolazione decisamente consistente
ed in crescita.
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