Un giovane di ventiquattro anni, figlio di un
industriale tedesco con una importante filiale Manchester, scrive nel 1844 e
pubblica quasi subito un libro che
resterà come esempio di inchiesta sul campo e di vivida descrizione degli
orrori lasciati dal primo capitalismo industriale nella regione in cui questo
si sviluppa. Un classico della scienza sociale che evita accuratamente, pur
nella crudezza delle descrizioni, ogni intonazione moralistica per cercare di
individuare, con la freddezza dell’anatomopatologo, le ragioni dell’inumano
spettacolo che ci sottopone. La storia del libro è di occasione: il padre, che
aveva una fabbrica in renania, cerca di allontanare il figlio dalle sue cattive
compagnie (il circolo degli hegeliani di sinistra a Berlino) e lo manda ad
occuparsi appunto della filiale di Manchester.
Contemporaneamente Karl Marx stava scrivendo i
cosiddetti “Manoscritti
economico-filosofici del 1844” e lo stesso Engels aveva scritto in
quell’anno “Lineamenti di una critica
dell’economia politica”, quattro anni dopo insieme e su incarico della Lega
dei comunisti i due scriveranno “Il
Manifesto del Partito Comunista”.
C’è una fondamentale differenza tra lo sguardo che il
giovane filosofo getta sulla condizione di immenso degrado dei quartieri
popolari delle città industriali inglesi e quello dei contemporanei: la
borghesia dell’epoca, per tutti i primi tre decenni dell’ottocento si è
interrogata su questo degrado esclusivamente sotto la lente interpretativa dei
“poveri”. Nel 1834 vengono quindi emanate le nuove “Poor Law” contro le quali nell’ultima parte del libro Engels si
scaglia con veemenza, ma nessuno aveva
inquadrato il meccanismo produttivo, e la costruzione di spazio e tempo
dominati dalla logica fredda e spietata della concorrenza e del capitale che la
muove. Quella di Engels è, invece, una inchiesta che legge le condizioni
igienico-abitative della classe operaia, nelle sue diverse articolazioni, come effetto dei processi fisici di
urbanizzazione interamente guidati dal profitto, e ne mostra il meccanismo. I
protagonisti del libro sono le città,
quindi le macchine entro le fabbriche,
l’uomo ne è un effetto.
L’intero libro, che l’anziano Engels riprenderà in una
illuminante prefazione pochi anni prima di morire, quando è impegnato con il
segretario Kautsky a sistemare il lavoro della vita sotto forma di dottrina
coerente, il marxismo, creandola come teoria del crollo inevitabile, è
costruito su una struttura a tesi: le condizioni
materiali creano il degrado, che rende inumano l’uomo, ma insieme esse generano
la necessità soggettiva e collettiva del riscatto, che infallibilmente arriverà.
Il dolore del mondo sarà riscattato, in questo mondo stesso, dalle stesse forze
che esso ha messo in moto. Ovviamente ciò avverrà nei termini dialettici
derivati dalla filosofia idealistica hegeliana, perché sarà prodotto da
un’antitesi contraddittoria tra forze produttive e i rapporti di produzione, quindi
tra le classi sociali da queste prodotte, che troverà sintesi nel comunismo.
Il fascino di questa idea potentissima (i cui legami
con l’escatologia, e la secolarizzazione dello spirito che opera nel mondo,
sono evidenti) trova ancora oggi continue e nuove versioni. Alcune sono
ibridate curiosamente con l’altra grande idea della fine della storia generata
dall’illuminismo: il liberalismo. D’altra parte l’idea di una società futura in
qualche modo pacificata, di natura organicista, internamente coerente e
conforme ad un’antropologia filosofica dominante (“naturale”), e in questo senso
autoritaria e antipluralista, è stata tentata nel novecento e non ha dato buona
prova. La stessa idea fondamentale è di nuovo tentata anche nel finire del
secolo dalla radicalizzazione del liberalismo, sotto forma della macchietta
proposta da Fukuyama (in “La fine della
storia e l’ultimo uomo”), canto del trionfo imperiale americano: anche
questa non ha dato buona prova.
Se si legge “La
situazione”, come esercizio di una sorta di scienza sociale predittiva, in
senso specifico sembra quindi aver fallito: le ipotesi che pone non si sono
realizzate dopo centottanta anni. Ma se la si legge come la descrizione di
alcune direzioni storiche e delle loro conseguenze che possono evolvere anche
in modo diverso (per effetto del prevalere di forze nuove, o in reazione a
quelle esistenti) allora l’analisi è ancora illuminante. Ciò che è accaduto non
conferma la profezia, ma dipende dall’inversione della tendenza alla polarizzazione
che allora vedeva, lungi dallo scomparire le classi medie nel corso nel novecento
si sono riformate su diversa base, non più dedite alla piccola produzione, ma
all’intermediazione ed ai servizi. La classe lavoratrice dai due terzi della
popolazione è scesa a meno della metà e poi a meno di un terzo, in parte perché
si è spostata altrove. La concorrenza proprio delle organizzazioni dei
lavoratori, fattosi forti, hanno costretto la borghesia ad accettare dei
compromessi, a fornire servizi ed a migliorare enormemente le inumane
condizioni dell’ottocento.
Del resto è lo stesso Engels, nella prefazione del
1892, a riconoscere che l’ottimistica e un poco meccanica chiusa del libro del
1845 era prematura. Il capitalismo si è rigenerato, attraversando la crisi del
1847 e le seguenti, facendo nascere come reazione alle difficoltà quello che
chiama “un mercato mondiale” per un insieme di fattori politici, strategici e
tecnologici. Si è ristrutturato esternamente sotto forma di un insieme di paesi
agricoli connessi a corona intorno ad un paese industriale, e internamente
attraverso il dominio del capitale monopolistico su quello legato alle piccole
industrie competitive. Ma questa trasformazione (che sarà descritta anche da
molti altri, ad esempio da Hilferding) produce un effetto secondario: la grande
industria, anche per competere con le piccole e metterle fuori mercato avendo
accesso prioritario a linee di commercio fattesi più lunghe, ha offerto spazio
subalterno alle trade unions. Ha scambiato, insomma, qualche beneficio
economico con la lealtà. La classe operaia inglese (nei suoi segmenti
superiori) nel cinquantennio che separa stesura del testo e prefazione ha perso
così la spinta rivoluzionaria, come anche il vecchio Marx vedrà bene (iniziando
a sperare che l’iniziativa sia presa alla periferia, in America e in Russia).
Come dice Engels, quel che è successo è che lo stesso mondo produttivo,
organizzato da corpi intermedi rivolti ad ottenere benefici materiali, è diventato
“un mezzo per accelerare la concentrazione del capitale” (p.38).
Davanti a questa direzione presa dalla storia il
vecchio Engels conferma, però, che deve essere ancora la classe operaia a
prendere l’iniziativa di liberare l’umanità tutta (amministratori del capitale
inclusi) e che quindi il socialismo è una dottrina “rivolta a liberare l’intera
società, compresi i capitalisti, dai rapporti odierni che li soffocano” (p.40).
Sarà dunque ancora una volta la forza intrinseca del capitalismo, la
concorrenza, a ricondurre alla dura necessità di liberarsi tutti o nessuno. E
lo farà attraverso la competizione che sta per scalzare (come accadrà) l’industria
inglese da centro del mondo; il punto è che con essa il capitale inglese perderà
la possibilità di comprare il consenso dell’aristocrazia operaia. Saranno,
insomma, i fattori strategici e tecnologici a determinare la svolta politica.
Si può dire così: la perdita della centralità di
fabbrica del mondo dell’Inghilterra, in favore di Usa e Germania, determinerà necessariamente
il ritorno di condizioni di sovrasfruttamento e queste porteranno il socialismo,
quindi il giovamento “ora finirà e tornerà il socialismo” (p.49). Tornerà anche
grazie a forze fresche non contaminate da “rispettabili” pregiudizi borghesi
(gli operai non specializzati).
Venendo finalmente al testo del 1845, la ricostruzione
assiale che Engels propone, e che innerva profondamente il marxismo illuminando
anche le sue radici nell’illuminismo, parte sin dalla introduzione. Il primo
necessario mattone è una caratterizzazione senza ambiguità (senza, ovvero, quei
dubbi e quelle oscillazioni del suo amico Marx, in particolare negli ultimi
tempi) dei lavoratori prima dell’industrialismo come di esseri
“intellettualmente morti”. Scrive che, infatti, il modo di vita dell’industria
preindustriale, nella quale il lavoro manuale di trasformazione non era meccanizzato
e quindi era distribuito direttamente nelle campagne e presso le singole case,
dove la moglie e le figlie filavano il filo e l’uomo tesseva, determinava delle
condizioni insieme confortevoli e “indegne di uomini”. La debolezza della
concorrenza consentiva, infatti, un modesto ma significativo surplus, e questo
consentiva alle famiglie di “piantare un paletto nel terreno”, ovvero di avere
anche una casa ed un campo. Come dice,
“in questo modo i lavoratori vegetavano abbastanza
comodamente e conducevano una vita per bene e tranquilla in tutta devozione e
rispettabilità, la loro posizione materiale era di gran lunga migliore di
quella dei loro successori; non avevano bisogno di affaticarsi troppo,
lavoravano non più di quanto volevano e guadagnavano tuttavia ciò di cui
avevano bisogno, disponevano di tempo libero per un sano lavoro nel loro orto o
campo, un lavoro che era per essi già in sé un ristoro, e potevano inoltre
prendere parte ai divertimenti e ai passatempi dei loro vicini” (p.62).
Cosa c’è di male in questo stile di vita? Erano:
“riservati e ritirati, senza attività intellettuale e
senza oscillazioni violente nella loro situazione. Di rado sapevano leggere, e
ancor meno scrivere, andavano regolarmente in chiesa, non facevano politica,
non partecipavano a cospirazioni, non
pensavano, … erano in ottimi rapporti con le classi più elevate della
società. In cambio di tutto questo, però, erano intellettualmente morti, vivevano soltanto per i loro meschini
interessi privati, per il loro telaio ed il loro orticello, e non sapevano
nulla del grandioso movimento che fuori pervadeva l’umanità. Si sentivano a
proprio agio nella loro quieta vita vegetativa e senza rivoluzione industriale
non sarebbero usciti mai da questa esistenza certo molto comoda e romantica, ma indegna di uomini. Infatti non erano
veramente esseri umani, ma semplicemente macchine da lavoro al servizio dei
pochi aristocratici che fino ad allora avevano guidato la storia; la
rivoluzione industriale invero non ha fatto altro che portare tutto ciò alle
ultime conseguenze, completando la trasformazione dei lavoratori in pure e
semplici macchine e togliendo dalle loro mani l’ultimo residuo di attività
autonoma, ma appunto perciò spingendoli a pensare e ad esigere una condizione
umana”.
Si tratta di un testo straordinario e assolutamente
necessario per l’intero percorso del libro, direi per l’intero percorso del
marxismo nella versione codificata. Il progresso passa dunque, e
necessariamente, per la trasformazione della “campagna”, e della sua vita
tradizionale, comunitaria ma priva di autonomia, in “città”. L’ideale che viene
proposto è quello tipico del discorso illuminista, da Rousseau in avanti: è libero solo chi è autonomo, e lo è
solo chi capisce razionalmente e dirige la propria vita. Questo ideale
sottostante innerva l’antropologia proposta (è uomo chi ‘pensa’) e determina la
meccanica della liberazione: per diventarlo bisogna prima trovarsi in
condizioni di realtà, dure, dalle quali si può trovare la forza di rovesciare
d’un sol colpo, nella forma della ‘rivoluzione’, il mondo.
È dunque l’industrialismo borghese che determina, per
sua meccanica e contro sé, la liberazione finale; è esso che “trascina nel
vortice della storia”.
Questo concetto centrale sarà ulteriormente elaborato
dopo quattro anni nel “Manifesto”, ma
sarà rimesso in qualche modo in dubbio, in forma aperta, da Marx nella prefazione
del 1882 all’edizione russa, quando ipotizza che la proprietà comune rurale
possa servire da “punto di partenza” senza necessariamente passare, come in
Inghilterra, per una proletarizzazione.
È comunque la divisione del lavoro, e la concorrenza
che si attua tra datori di lavoro e tra lavoratori, a creare le condizioni
dello sradicamento, e la nascita quindi del proletariato industriale. Con esso
nasce la questione della povertà (che prima si definiva in termini meno
socialmente pericolosi). A fare da primo agente è la meccanizzazione
progressiva e le sue conseguenze: la spinning Mule, inventata da Samuel
Crompton nel 1779, che sostituisce la Jenny di un decennio prima, e
l’applicazione del vapore, creano una pressione competitiva ed effetti sui
prezzi che distruggono interamente il vecchio modo di vita (anche nelle
colonie, in primis in India). Agisce poi come acceleratore la trasformazione
delle infrastrutture, le ferrovie, le miniere, e via dicendo fino ad arrivare
ad avere due terzi della popolazione impiegata nell’industria. Questa è, nella
sua semplicità, la condizione sociale nella quale trova forma l’ipotesi
centrale del marxismo di Engels, nella prima metà del XIX secolo: per dirlo con
le sue parole “la situazione della classe
operaia è la situazione della grandissima maggioranza del popolo inglese”
(p.77), e questo vive in condizioni assolutamente disumane e quindi non può che desiderare il suo
riscatto.
La classe che invece rappresenta la stretta minoranza,
dato che le classi medie sono in continua erosione sotto la pressione della
concorrenza del modo di produzione industriale e della forma commerciale che
questo impone, la borghesia (ovvero i
funzionari del capitale, che domina la società), è spensierata, ma “vive su un
terreno che è già scavato sotto i suoi piedi, e che può franare da un momento
all’altro”, anzi su un terreno “il cui
franamento a breve scadenza è cosa tanto sicura quanto una qualunque legge
matematica o meccanica” (p.79).
Cosa renderà sicura questa legge? Molto semplice, in
effetti: il risentimento. E’ questo
che, reso sempre maggiore dalla forza ineludibile della competizione, “dovrà
esplodere con una rivoluzione”.
Agente di questa rivoluzione generale è naturalmente
la grande maggioranza, la classe proletaria che nacque dall’industria e si è
estesa ovunque perché l’Inghilterra, in questi anni, è la potenza egemone del
mondo, la sua industria stessa. Di qui l’importanza storica del movimento
industriale, esso va di pari passo con la liberazione rivoluzionaria per uno
strano ma necessario movimento: rende poveri. Fa sì che alla fine lo siano
quasi tutti perché concentra in poche mani il capitale, nel fare ciò però esso crea
il risentimento che lo seppellirà. Più va
male, tanto più andrà bene.
L’industria in particolare, mentre concentra il
capitale e manda in rovina la piccola borghesia artigiana e contadina, “riduce
anche al proprio servizio le forze della natura”, operando attraverso le tre
grandi forze dello sfruttamento della forza idraulica, del lavoro meccanico
delle macchine e la divisione del lavoro, che “fanno saltare le connessure del
mondo” (p.82).
Ma se il capitalismo mette in concorrenza campagna e
città (come scriverà), quale è il ruolo
specifico delle grandi città industriali? Henry Lefebvre sostiene
che la città è la macchina produttiva nella quale gli elementi che altrimenti
sembrano esterni gli uni agli altri, suolo, natura, proprietà, capitale, lavoro
sono portati ad unità in un sistema globale. In riferimento anche a questo
libro il filosofo francese definisce la città stessa come il vero “soggetto
storico” che opera la rivoluzione. Ovvero il soggetto che finalizza la storia.
Perché è la città il luogo della divisione del lavoro, essa concentra i suoi
abitanti, prima dispersi, ed insieme ad essi determina i mezzi di produzione, i
capitali, ma anche bisogni e piaceri. È l’esistenza della città che rende
“immediatamente necessaria l’amministrazione, la polizia, le imposte, in una
parola l’organizzazione comunale e la politica in genere” (in Marx, “Lineamenti fondamentali della critica
dell’economia politica”, p. 40). La separazione tra città e campagna indica
una separazione che deve essere superata, insieme al suo antagonismo, creando
“una delle condizioni della comunità” (Lefebvre, cit. p.53), nel comunismo.
Nel capitolo dunque, uno dei più memorabili, sulle
“grandi città”, Engels parte dalla vita inumana che descrive in modo vivido. Ma
se nella campagna tradizionale ad essere inumano era l’assenza di pensiero, qui lo è l’isolamento. I londinesi,
scrive “hanno dovuto sacrificare la parte migliore della loro umanità per
compiere tutti questi miracoli [della tecnica] di cui la loro città è piena,
che centinaia di forze latenti in lui sono rimaste inattive e sono state
soffocate affinché alcune poche potessero svilupparsi più compiutamente e
moltiplicarsi mediante l’unione con quelle di altri”. Cosa è che è inumano? Si
tratta della “brutale indifferenza, l’insensibile isolamento di ciascuno nel
suo interesse personale [che] emerge nel modo più ripugnante ed offensivo
quanto maggiore è il numero di questi singoli individui che sono ammassati in
uno spazio ristretto” (p.84). Dunque il principio fondamentale è diventato un
“angusto egoismo” nel quale è dichiarata apertamente la “guerra di tutti contro
tutti”. Una guerra che si combatte con l’arma del capitale.
Ci sarà chi da questo doppio interdetto (della vita
distribuita della campagna e della vita concentrata nella grande città)
concluderà che bisogna creare società pianificate alla scala intermedia,
città-giardino e regioni urbane con una dimensione “adatta alla vita”.
Ma Engels non sviluppa il tema in questa direzione,
lui ha di mira la parusia finale, non una soluzione riformista che garantisca
la pace sociale, lasciando intatta divisione del lavoro e concorrenza. Dunque
passa a trattare in modo indimenticabile il tema di come si viva in queste città. Ovvero il tema dei “quartieri
brutti”, a Dublino, a Glasgow, a Bolton e poi a Londra ed a Manchester. Nella
“sua” Manchester c’è in pratica un unico, immenso, quartiere operaio, nel quale
la miseria fa da complemento del lusso dei quartieri suburbani nei quali vive
appartata la borghesia. Si tratta di “una sistemazione urbanistica piena di
pudori” (p.110).
Nei quartieri operai, infatti, tutto è sfruttato allo
stremo.
E lo è perché la forza dominante della società
capitalista, capace di esprimersi senza alcun freno e senza alcun pudore, è la concorrenza. È questa che creò il
proletariato, è questa che lo rende povero e disperato. La concorrenza crea la
guerra per la vita (in senso letterale) non è combattuta solo tra le classi, ma
anche tra i membri di queste: operaio contro operaio e borghese contro
borghese. L’arma con la quale si combatte la concorrenza sono dunque le
associazioni, e contro questi corpi intermedi tra gli individui e il capitale
si scatena il furore della borghesia.
Infatti il meccanismo è semplicemente quello di
mettere il singolo di fronte alla scelta se morire o accettare ciò che gli
viene offerto. Se uno rifiuta può sempre essere sostituito.
Ecco come tratta questo punto decisivo:
“questa concorrenza tra gli operai
ha un solo limite; nessun operaio vorrà lavorare per meno di quello che è
necessario per la sua esistenza; se proprio deve morire di fame, preferisce
subire questa sorte rimanendo in ozio piuttosto che lavorando. Naturalmente,
questo limite è relativo; c’è chi ha bisogni maggiori o è abituato a maggiori
comodità di un altro; l’inglese, che conserva un certo grado di civiltà, ha
maggiori esigenze dell’irlandese, che si veste di stracci, mangia patate e
dorme in un porcile. Ma ciò non impedisce che l’irlandese faccia concorrenza
all’inglese, abbassando gradatamente il salario, e con esso il grado di
civiltà, dell’operaio inglese al proprio livello” (p.143).
Naturalmente questa concorrenza non sarà eguale in
tutti i settori, perché alcuni “necessitano di un certo grado di incivilimento”.
Ma se il salario minimo è fissato, secondo i settori,
dalla concorrenza tra gli operai, quale è il massimo? Questo è fissato ancora
dalla concorrenza, ma tra borghesi. Precisamente quando ci si avvicina alla
piena occupazione.
Il lavoro è dunque una merce, e il lavoratore un
servo.
Ma la dinamica della concorrenza crea anche un ciclo
che nel 1845 Engels descrive come fasi di boom seguite da crolli causate dalla
intrinseca anarchia del capitalismo. La concorrenza tra operai determina una
costante tendenza a generarsi di una “popolazione superflua”, quando è poca i
salari salgono, quindi “gli operai stanno meglio, i matrimoni si moltiplicano,
aumenta il numero delle nascite, crescono più bambini, finché si producono operai
a sufficienza; se ce ne sono troppi, i prezzi cadono, subentrano la disoccupazione,
la miseria, la fame e di conseguenza di ciò le epidemie, che falciano la ‘popolazione
superflua’”. Qui si segue Smith e Malthus.
Ma la concorrenza porta anche a migliorare sempre il
rendimento del lavoro e quindi a generare costantemente disoccupati. Ma i “superflui”
escono dal mercato, non possono più comprare nulla e cessa quindi la domanda
delle merci che acquistavano. Cessando la domanda “non è più necessario
fabbricarle” e quindi non servono altri operai. Il meccanismo si alimenta ed accelera.
Ciò è causato alla fine dall’anarchia regnante in una
produzione che “non è intrapresa per il soddisfacimento immediato dei bisogni,
ma per il guadagno”, dove inoltre “tutto avviene al buio, in modo irrazionale,
più o meno alla mercé del caso” (p.148). Di seguito Engels descrive un
meccanismo irrazionale di boom seguito da un crollo, gli spiriti animali che si
lanciano, ognuno per suo conto, a seguire ogni ipotesi di arricchimento e che
si influenzano a vicenda. E, in genere ogni cinque anni, determinano improvvise
crisi di fiducia.
In questa meccanica si inserisce il capitolo sulla “immigrazione
irlandese”, nel quale viene descritto un flusso di circa 50.000 immigrati all’anno
che si sommano ad uno stock di circa un milione che fa concorrenza al
lavoratore inglese, dato che si accontenta di molto meno. Si tratta del “concorrente
contro cui è costretto a lottare l’operaio inglese”. Ne avevamo già parlato in “frammenti”,
l’analisi è semplice senza colpevolizzare nessuno, oggettivamente anche questo
è un fattore di concorrenza.
Quali sono i risultati di questo clima? Per Engels
sono molto semplici e inevitabili: degrado fisico e morale, indebolimento,
abbassamento della durata media della vita (p.176), un vero e proprio “assassinio
sociale”. Si tratta di una fonte continua di odio che nasce dal sentire la
disumanità della propria condizione.
Ma la concentrazione, se provoca una sorta di lavoro
forzato, ha anche dei lati positivi; le grandi città sono le culle del
movimento operaio. Mentre acuiscono la malattia, per questo stesso fatto,
avvicinano la soluzione (p.193). In questo senso, alla fine anche l’immigrazione
irlandese che esaspera la competizione ed abbassa le condizioni di lavoro, è
positiva: perché lascia unica alternativa
tra ribellarsi o sprofondare nell’animalità.
La logica del giovane Engels è qui semplice: tanto va
peggio tanto più andrà meglio, perché al peggio ci si ribella, alle condizioni
leggermente migliori ci si abitua, accontentandosi.
Il testo passa quindi ad esaminare uno per uno i diversi
settori: le fabbriche vere e proprie (p.205), nelle quali il macchinismo
provoca sempre danni per gli operai che diventano superflui (anche le macchine
creano “i superflui” e per questa via abbassano i salari). Quindi il lavoro
femminile (p.214), quello infantile. E gli altri settori di lavoro, la siderurgia
(p.275), le miniere (p.322), o le campagne (p.342).
Una serie di gironi danteschi senza fine, una situazione
inumana che “non può durare e non durerà”.
L’unico modo, però, in cui potrà finire è se gli
operai si organizzeranno e lotteranno contro gli interessi della borghesia in
quanto tale (il cui interesse, spinto dalla competizione, è semplicemente
sfruttarli). Non resta quindi che associarsi per eliminare la base di tutto: la
concorrenza degli operai tra di loro. E poi andare avanti ad eliminare la
concorrenza in generale nella società (p.296).
La borghesia in questa battaglia per la liberazione
dell’umanità è l’avversario perché questa è profondamente corrotta dal suo
amore per il denaro, e quindi dal leggere tutto sotto il filtro dell’economico
(p.357). Ne è massima espressione la “teoria della popolazione” di Malthus e la
legge sui poveri che ne è derivata. La poca assistenza che questa dispone è
erogata in condizioni volutamente inumane e umilianti, perché sostiene di voler
combattere la pigrizia, in realtà per diminuirne il numero.
Dopo la denuncia delle inumane “workhouse” Engels
passa ad immaginare, come farà nella prefazione cinquanta anni dopo, ad
immaginare cosa accadrebbe se l’industria inglese fosse soppiantata dall’America.
Anche in quel caso la piccola borghesia sarebbe schiacciata e il proletariato
si troverebbe a diventare la totalità della nazione.
Allora la crisi economica, “la più potente leva di
ogni sviluppo autonomo del proletariato”, insieme alla concorrenza straniera e
alla rovina della classe media, determineranno l’esito.
“Se la borghesia inglese non si ravvedrà” la
rivoluzione scoppierà subito.
Come dice:
“tutte queste sono conclusioni che
si possono trarre con la massima certezza, conclusioni le cui premesse sono
costituite da fatti inoppugnabili dello sviluppo storico, da un lato, della
natura umana dall’altro. In nessun luogo è più facile fare delle profezie come
in Inghilterra, qui infatti tutti gli elementi della società sono sviluppati in
modo estremamente chiaro e netto. La rivoluzione deve avvenire, è già troppo tardi per giungere ad una soluzione pacifica
dei problemi” (p.379).
Questa previsione fonda sulla separazione sempre
maggiore delle classi che individua nella tendenza storica in corso, ovvero nel
crescere dell’ineguaglianza e nella concentrazione del lavoro in poche grandissime
città, in unità produttive sempre maggiori, spalla contro spalla, voce su voce
ed occhio su occhio.
Poiché queste condizioni saranno attenuate da alcuno
controforze (mobilitate anche in risposta proprio alla pressione dei
lavoratori, fino che è durata), la previsione non si è realizzata. Ma il
capitalismo non sembra aver capito la lezione e si sta dando da fare per
ricrearle.
Rileggere “La
situazione” può servire a ricordare fino a che punto era arrivato, ed
impedire che lo rifaccia, come vorrebbe.
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