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giovedì 23 agosto 2018

Hauke Brunkhorst, “Il doppio volto dell’Europa”.



Questo libro, che reca come sottotitolo “Tra capitalismo e democrazia”, del sociologo Hauke Brunkhorst, uno specialista del costituzionalismo europeo, sostiene una complessa tesi volta ad individuare, sulla scorta di una rilettura in chiave di evoluzionismo hegelianamente ispirato, lo schema di Koskenniemi dell’opposizione nell'evoluzione costituzionale europea di due “mindset” (ambienti, reti concettuali e modi di pensare): il Kantian constitutional mindset (KCM), ispirato all'utopia cosmopolita e democraticamente orientato (ma volto a dissolvere la democrazia nazionale in favore di quella mondiale) e il Managerial mindset (MM) volto ad un progressivo apprendimento cognitivo, adattivo e sensibile all'equilibrio del potere. La conclusione vede molto bene ciò che sta accadendo (anzi pre-vede) ma sceglie di sperare nel KCM contro ogni speranza per timore del rischio della richiusura nelle democrazie realmente esistenti, come reazione al MM. La sua posizione si forma contro da una parte l'approccio luhmaniano del MM, dall'altra contro la posizione, dal suo lato disfattista, di Streeck e Scharpf di asserragliarsi nella fortezza nazionale per salvare le strutture normative della democrazia sociale.



Il testo è del 2014 e l’autore ha oggi settantadue anni, si tratta dunque di una opera matura e di altissima densità concettuale e politica. Un’opera che segue al suo testo del 2003 “Solidarity: from civic friendship to a globale legal community”, che sviluppa una teoria dell’inclusione democratica estesa alla cittadinanza globale. Brunkhorst è autore anche di un interessante libro su Habermas nel quale mostra l’interna connessione tra il concetto di razionalità, incardinata nella struttura pragmatica del linguaggio e nel fatto della comunicazione, che muove da soggetti empirici e non trascendentali ma produce nel suo farsi effetti quasi-trascendentali (tesi condivisa con Karl-Otto Apel), e la società ricostruita nella forma della dialettica tra integrazione sociale (riassunta nella formula recuperata da Husserl) e integrazione sistemica (ripresa da un intenso confronto con Luhmann, ma anche con Parsons). L’elemento centrale rispetto ai temi qui trattati, e che Brunkhorst condivide con Habermas è la presa di posizione per una “società aperta”, di sapore liberale ed illuminista, che rigetta da una parte le teorie elitiste e le concezioni funzionaliste (che in questa opera sono incluse nel Managerial mindset), ma dall’altra insiste sulla ‘razionalizzazione’ ancorata alla chiarificazione individuale dei piani di vita ed alla formazione di coordinamento non coatto a partire dai ‘mondi vitali’.  I ‘mondi vitali’ sono il supporto di ogni possibile ‘agire comunicativo’ e sono sempre condivisi entro comunità specifiche, come corpus di conoscenze tacite ed interpretazioni non problematiche. Si tratta di “un serbatoio o uno sfondo di certezze ed evidenze non problematizzate ma problematizzabili man mano che diventano rilevanti per una situazione” (Habermas, “Teoria dell’agire comunicativo”), di contenuti cognitivi che immagazzinano il lavoro interpretativo della tradizione e rappresentano un necessario ‘contrappeso conservatore’ alla possibile problematizzazione di ogni termine e quindi alla difficoltà di coordinare i piani di azione per via discorsiva. Tuttavia questo contrappeso può essere rimesso in questione, razionalizzandolo e guadagnando quindi ‘autonomia’, proprio attraverso l’agire comunicativo. Dunque passando da “un intendersi imputato normativamente versus una intesa raggiunta in modo comunicativo” (Habermas ‘Teoria dell’Agire Comunicativo’) la comprensione del mondo quindi si “decentra” (Piaget) e sia avvia su un percorso evolutivo simile a quello che porta dal bambino all’uomo adulto.
Il programma neo-illuminista di Habermas, (differenziazione funzionale del sistema sociale e detradizionalizzazione del ‘mondo della vita’) ma condotto con strumenti ‘post metafisici’, ovvero fondati sulla comunicazione intersoggettiva e non sulla filosofia del soggetto capace di conoscenza vera ed oggettiva, muove per questo dallo sforzo costante di rendere riflessivi i legami sociali, disintrecciandoli da valori e presupposizioni dati.

Lo spirito di questo programma, oltre a formarsi negli anni della lunga ritirata (cui contribuisce) dalla metafisica della lotta di classe e della critica della reificazione, si muove nel quadro anni ottanta e novanta della “pacificazione da parte dello Stato sociale” (Tac, p.1021) di una società nella quale la forza integrante delle ideologie (mentre quella liberale impera) non è più disponibile. Questa lettura datata, dentro la quale si muove il paradigma interpretativo di Brunkhorst (mentre altri come Honneth e la sua allieva Jaeggi in particolare cercano di trovare materiali per aggiornarla) vede la frammentazione della coscienza quotidiana (perdendo i quadri di riferimento generali, o meglio, direi, sostituendoli con l’assenza di quadro unificante e quindi con la pronunciata mercatizzazione), e la interpreta come colonizzazione del mondo vitale da parte della logica sistemica (ovvero dei codici denaro e potere giuridificato). Come dice lui stesso: “la teoria della reificazione, riformulata in concetti di sistema/mondo vitale, necessita quindi dell’integrazione di un’analisi della modernità culturale che prende il posto di una obsoleta teoria della coscienza di classe. Anziché servire alla critica dell’ideologia, essa dovrebbe spiegare l’impoverimento culturale e la frammentazione della coscienza quotidiana; anziché inseguire le tracce disperse di una coscienza rivoluzionaria dovrebbe indicare le condizioni per un ricongiungimento della cultura razionalizzata con una comunicazione quotidiana dipendente da tradizioni vitali” (TAC, p.1022).
Tutta la costruzione habermasiana di quegli anni, e dei seguenti, fino al recente parziale ripensamento espresso in “Verbalizzare il sacro”, muove dentro il riuscito scambio welfarista, ovvero entro l’addomesticamento effetto di uno Stato sociale insieme funzionante e integrante in forma sistemica come “effetto collaterale di un accomodamento riuscito dello Stato sociale” (che, tra l’altro, rende obsolete le ideologie della rivoluzione, pacificando la gran parte del sociale). Si tratta, in fondo, con strumenti ben diversi, della stessa ipotesi avanzata negli stessi anni da Giddens (“Identità e società moderna”, 1991) e Inglehart (“La società postmoderna”) e revocata negli anni successivi.
Rischia dunque, il fondamento di questa teoria, essere soggetto allo stesso avvertimento che chiude “Teoria dell’Agire Comunicativo”, nel 1981: la prigionia dell’autoriferimento, ovvero dell’astrazione nel suo concretamento particolare e specifico. Come scrive Marx nei Grundisse (cit in Habermas): “le categorie più astratte, nonostante siano valide -proprio a causa della loro astrazione- per tutte le epoche, sono tuttavia, in ciò che vi è determinato in questa astrazione, il prodotto di condizioni storiche e posseggono la loro piena validità solo per e entro queste condizioni”. Dunque anche la Teoria dell’Agire Comunicativo, fondamento del sistema habermasiano, dipende da una condizione nella quale “gli imperativi dei sottosistemi autonomizzati penetrano nel mondo vitale e, mediante la monetarizzazione e la burocratizzazione, impongono un’assimilazione dell’agire comunicativo ad ambiti di azione formalmente organizzati, anche la dove il meccanismo del coordinamento delle azioni costituito dalla comprensione e dall’intesa è funzionalmente necessario” (p.1088). La teoria, in altre parole reagisce ad una “minaccia” propria del suo tempo: la burocratizzazione e la società regolata da sistemi oppressivi, ancorché astratti, che è sentita fortemente dai teorici della sua generazione (Enzensberger, Dahrendorf, Luhmann, Wehler, ecc.).

Al termine, invece, di un quarantennio di deregolazione e disgregazione, imposta dall’alto e di dominio fattosi trasparente e proposto come natura, questa agenda, restando in quanto astrazione valida, appare superata dalla ben motivata “rivolta degli elettori”, rispetto alla quale rischia di funzionare da contrappeso conservatore. Insomma, la modernità contemporanea è andata oltre i limiti di funzionamento del delicato modello di legittimazione habermasiano ed è deragliata, in quanto quelle che chiama le “logiche sistemiche” hanno di gran lunga soverchiato i fondamenti della solidarietà. L’argine posto non ha retto.

New Armony


Questa è la chiave critica attraverso la quale procederemo a leggere l’interessante ed utile libro di Brunkhorst.

L’autore imposta un discorso insieme complesso e schematico, imperniato su una opposizione tra due stili d’azione opposti e dialetticamente attivi sin dall’inizio del percorso di sviluppo del processo di formazione della Unione Europea che è seguito cronologicamente. Lo scontro sempre ripetuto tra Kantian Constitutional Mindset (KCM) e Managerial Mindset (MM) nasce nell’immediato dopoguerra, con qualche importante antecedente, e si sviluppa come contraddizione dialettica tra ‘emancipazione’ (nel senso habermasiano) e ‘adattamento’ (al sistema delle forze agenti nel contesto capitalistico europeo). Un costante lavoro da parte di MM di rimuovere la stessa esistenza di KCM e un continuo, ostinato, “ritorno del rimosso”.

Si parte dall’avvio del progetto europeo che Brunkhorst legge decisamente come tensione dei popoli europei e delle élite culturali ed intellettuali (in realtà direi molto più delle seconde) all’emancipazione ed alla fuoriuscita dagli orrori della prima metà del secolo per la fondazione di una repubblica cosmopolitica di cittadini liberi ed eguali. Questo ideale di purissima marca neo-illuminista, che risale ovviamente al Kant de “Per la pace perpetua” (che viene letto come testo filosofico con una certa tendenza ad evitarne la storicizzazione) viene contrastato da una chiave realista di approccio ai problemi del secolo che vede, nel MM, opporre “una vuota retorica della pace, dell’intesa e di un mondo più felice che si accorda con la ricostruzione dell’unità nazionale e con l’egemonia di una costituzione economica spoliticizzata” (p.11). La questione dell’avvio meriterà un approfondimento, dato che si tratta, nell’economia dell’argomentazione del testo dello snodo legittimante centrale, ma per ora andiamo avanti con la lettura.

Si parlava di “ritorno del rimosso”: dopo la richiusura nella logica intergovernativa e nella ‘costituzione economica’ il rimosso KCM torna infatti sempre come “apprendimento normativo” (termine denso di teoria, cfr. p.46) che si oppone a processi semi-spontanei di adattamento cognitivo portati avanti da sistemi d’azione incardinati nelle tecnostrutture e nell’economico. Questi due processi si ostacolano a vicenda e creano continue frizioni reciproche, ma pur sviluppano nel suo miglior risultato una dialettica reciproca. In un quadro interpretativo di tipo evoluzionistico, come quello espressamente praticato dall’autore, dunque si tratta alla fine di un processo che porta verso l’emancipazione procedendo tra salti e lenti accumuli di anomalie, tensioni, deviazioni. L’emancipazione implica lo sviluppo, o almeno la difesa, della democrazia che è contraddizione esistente del sistema istituzionale vigente (per un quadro della democrazia come dialettica tra processi diffusi di comunicazione, capillarmente riprodotti e sviluppanti ‘capacità d’assedio’ e strutture specializzate all’azione di tipo sistemico si veda Habermas “Fatti e norme”).

Con una sintetica ricostruzione inavvertitamente molto germanocentrica Brunkhorst definisce il complicato periodo dell’immediato dopoguerra, dal 1944 al 1845 (includendo quindi anche i preparativi da parte degli alleati, in particolare degli USA alla gestione dell’Europa post sconfitta dei fascisti e minacciata, dal loro punto di vista, da un possibile avanzamento delle forze comuniste e socialiste rivitalizzate dalle esperienze delle resistenze) come una rivoluzione incompleta: l’unificazione “non iniziò con il consenso tecnocratico delle élite e del loro Managerial Minsdet, ma con la liberazione delle masse represse che lottavano per l’autodeterminazione nella legislazione politica”. Ma quasi subito, con il Trattato di Roma (1957, di cui abbiamo letto il dibattito parlamentare italiano qui) l’ “Europa sociale” viene rimossa e messa da parte in favore di un progetto di costruzione meramente economico, del grande capitale. Di lì muove una serie di rimozioni: le alternative di sinistra e l’imposizione in tutta Europea del dominio democristiano (p.16), l’eurocomunismo (che passa negli anni settanta per la rimozione di Brandt e probabilmente di Moro), la rimozione sistematica della storia e anche del presente coloniale (ad esempio francese, p.18). Non a caso, sottolinea l’autore, “tutti gli Stati primi firmatari dei trattati – quello di Parigi nel 1951, con cui si creò la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (con un’altra autorità indipendente, antesignana della futura Commissione, e con una corte di giustizia subito attiva sul piano politico) e quello di Roma del 1957, con cui si diede vita alla Cee – sono stati rifondati tra il 1944 e il 1948 dal loro potere legislativo costituente” (p.20). Qui l’autore cita Thornhill, Fossum, Moller.

In realtà l’autore glissa su questo punto, ma nessuno degli Stati in oggetto, e ovviamente in particolare la Germania, era davvero sovrano all’epoca. In particolare quest’ultima riteneva anche che si trattasse di uno stato di cose desiderabile (come dice Streeck in questa intervista), e lo ritenevano anche le élite in Italia. In conseguenza di questo trauma e di questa condizione di semi-subalternità si sentivano giustamente puniti per il “nazionalismo” fascista, ritenuto causa della guerra e delle conseguenti distruzioni, e -come scrive Streeck- “cercavano di raccomandare la denazionalizzazione della politica come ideale di un nuovo ordine mondiale [anche] per tutti gli altri”.

La disincarnata descrizione (molto “kantiana”) di Brunkhorst glissa su questo punto direi decisivo e qualifica invece il consenso nativo al processo di superamento delle barriere nazionali, incardinato opportunamente in alcune costituzioni riscritte in quegli anni, come apertura cosmopolita decisiva. Con le sue parole: “è stato decisivo che i poteri costituenti di tutti i membri fondatori si siano pronunciati esplicitamente a favore dell’obiettivo dell’unificazione politica dell’Europa come obiettivo dei rispettivi Stati” (p.25) ciò attribuisce, anche contro il MM, che tende ad una interpretazione della situazione come orientamento a forzare, piuttosto, la creazione di uno Stato di diritto senza legislatore, ai Trattati un valore costituzionale vincolante che va molto al di là dei trattati internazionali. Costituendo quindi un vincolo a creare un accordo transnazionale fondato direttamente sul consenso dei popoli europei.

Qui il punto centrale in termini di legittimazione dell’intero percorso successivo.

Si tratta di una interpretazione, come ripeto, troppo germanocentrica e che dimentica (ovvero rimuove) i limiti, politici, sociali e persino militari, di questo consenso prodottosi nel contesto di una feroce guerra fredda e con centinaia di migliaia di militari USA in Europa, oltre che di miliardi di dollari di aiuti certamente non ciechi alla convenienza. Basterebbe ripercorrere le biografie di Monnet, di Schuman e del generale Donovan (capo dell’ASS, poi divenuta CIA) che testimoniano l’origine geopolitica della spinta e verificare i fondi che utilizza, ad esempio, il Movimento Europeo (la più importante organizzazione federalista del dopoguerra). Ad esempio, come abbiamo letto dai testi disponibili un trentatreenne Giorgio Napolitano, per il Partito Comunista Italiano, che ha milioni di simpatizzanti e quindi si pone con ciò fuori del potere costituente di Brunkhorst, dichiara la più completa contrarietà. Per lui e per il PCI , esso “costituisce solo un tentativo dei gruppi capitalistici europei di consolidare ed estendere le loro posizioni”, ed è, continua, “indirizzato ad una indiscriminata liberalizzazione ed è pertanto contrario ad ogni politica di sviluppo all’interno dei singoli paesi con danni rilevanti per le zone economicamente depresse che, come il nostro mezzogiorno, hanno bisogno invece di discriminati interventi da parte dello Stato”. Dopo aver definito i correttivi indicati nella relazione del Governo (BEI, FSE, PAC) inadeguati, Napolitano denuncia in sostanza che “il Trattato avrà il solo risultato di arrestare il progresso economico e le riforme sociali nei singoli paesi aderenti”.
Anche Giolitti chiarisce che “il ricorso al libero gioco della concorrenza fra aree di diverso sviluppo economico produce l’accentuazione degli squilibri economici esistenti”.

Dunque il “volere costituzionale vincolante” si può dire che al minimo non includa la parte del popolo italiano, e delle sue élite, che restavano dalla parte sbagliata della barriera eretta con la guerra fredda e che il processo “cosmopolita” da avviare concretamente ostacolava nella possibilità di determinare effetti politici.

Del resto le tracce di questa semplice verità sono anche nel testo, quando si riconosce la presenza dell’elefante nella stanza, affermando che in quegli anni si compie il passaggio dalla retorica antifascista (che include le sinistre) a quella anticomunista, opportunamente mascherata nel richiamo alla “pace” e all’”unità” sotto l’ombrello atlantico. E si descrive in modo opportuno ed interessante l’imprinting ordoliberale che la costruzione prende. Ma questo ultimo è ricondotto solo al MM, mentre a ben vedere è presente sottilmente anche nel KCM.
Del resto Jan-Werner Muller, nel suo “L’enigma democrazia”, afferma più sinteticamente che la Comunità Europea svolge in quegli anni la funzione di “protezione dalla democrazia”. L’obiettivo più sentito dell’epoca era, infatti, “il problema del male” (Arendt, ma anche Adorno) e dunque la stabilizzazione di un ordinamento destinato a scongiurare il ritorno di passati totalitari. Come dice bene Jan-Werner Muller “come reazione, i politici dell’Europea occidentale instaurarono una forma di democrazia estremamente limitata e profondamente segnata dalla sfiducia nella sovranità del popolo, anzi, perfino nella tradizionale sovranità dei Parlamenti” (op.cit. p.180). L’obiettivo politico era chiaramente di mettere al sicuro l’assetto liberal-democratico minacciato dall’esterno dal mondo comunista e dall’interno dalle sinistre politiche.



Se uno scontro dialettico tra KCM e MM è rintracciabile nella dinamica europea, e non c’è dubbio vi sia, tuttavia si tratta di variazioni entro un campo di gioco necessariamente ristretto al solo liberalesimo. Il progetto europeo prevede geneticamente l’esclusione di forme democratiche ‘populiste’ (ovvero di forme ‘maggioritarie’), ed istituisce a questo fine una dialettica allungata e plurischermata tra forme di rappresentanza elettiva (dagli anni settanta duplice), vincoli costituzionali e limitazioni attraverso “corti” politicamente molto attive, come vedremo, e tecnostrutture semipolitiche dedite al controllo dall’alto. Peter Mair, nel suo ultimo libro, “Governare il vuoto” avrà parole molto nette sulla disfunzionalità di questo assetto.

Brunkhorst risale, per la legittimazione culturale dell’impulso cosmopolita, oltre che ad Habermas di cui utilizza la struttura concettuale, a Kant, ed individua nel KCM una sorta di “effetto chiavistello”, in grado di bloccare alcune porte, e proteggere le “conquiste evolutive emancipatrici” di una selezione sociale che opera anche attraverso interessi di classe (dominante) e imperativi funzionali (dei sottosistemi economici, ad esempio della finanza) moralmente neutralizzati (p.35). Questo “effetto” si manifesta attraverso le tracce che restano, comunque, nelle argomentazioni giuridiche e si riferiscono a testi e principi statuiti, frutto magari di faticosi compromessi notturni e lasciati a margine, ma anche con i discorsi le parole d’ordine e le mobilitazioni.

Richiamando “Per la pace perpetua” (che, però, si oppone all’assolutismo del suo tempo), e chiarendo la propria ispirazione, l’autore scrive che “l’universalismo intrinseco spinge oltre in quanto generato dalla stessa evoluzione sociale oltre tutti i confini statali perché richiede la costituzione di un’organizzazione cosmopolitica che superi tutte le costituzioni statali per comprimere, se non addirittura distruggere, il loro nocciolo di violenza. Solo con essa si può conservare e far valere per intero l’idea di diritto” (p.36). Alla luce di queste prese di posizione l’opposizione tra il KCM (che “crede fermamente nell’autonomia, nel self-government e nella rappresentazione democratica”, purché non nazionale, ovvero non realmente esistente) e il MM (che “punta sul dominio della legge (rule of law), sulla tecnica professionale, sulla razionalità strumentale, sul new public management, e sulla connessione interna di law and economics”) appare meno radicale di quanto piaccia all’autore.
È chiaro che il MM, nella versione di Luhmann, è direttamente un equivalente funzionale della democrazia, ma anche nel KCM è presente comunque una democrazia svirilizzata, nella quale imperano i diritti dell’uomo ma ci sono enormi limitazioni compromissorie a far passere quelli sociali, in cui il “popolo” è astratto e disincarnato (nel senso di Sandel).


Chiaramente l’autore riconosce che KCM e MM sono interdipendenti, nel senso che sono connessi internamente, e la loro dialettica limita le direzioni di sviluppo possibile determinandosi come “condizioni strutturali”, canalizzando le possibilità di adattamento sociale. Dunque il progetto europeo, per come si è sviluppato storicamente e per come è determinato nella dialettica tra un impulso cosmopolita e una realtà adattiva al sistema economico ed alle realtà di potere e di classe, appare come “concetto esistente” (Hegel) informando l’evoluzione generale.

Alla “Costituzione economica”, dominante sin dai trattati degli anni cinquanta l’azione liberale delle Corti europee, sin dall’inizio improntate ad un forte attivismo politico (si veda su questo Scharpf, “La doppia asimmetria dell’integrazione europea”, 2009) viene aggiunto uno Stato di Diritto che fonda in pratica dalle pieghe dei Trattati dei non prima esistenti diritti di cittadinanza europei prevalenti sui diritti di cittadinanza e sui poteri statuali delle singole nazioni. Dagli anni settanta in questo modo il KCM aggiunge una dimensione politica, anche se resta per ora come “una goccia sulla pietra rovente della costituzione economica egemonica dell’unione” (p. 54). Del resto la costituzione economica, idea portata avanti negli anni venti da Sinthemeier e Franz Neumann, ed incentrata sul parlamento, viene girata nel suo contrario dal ’33 dall’appropriazione ordoliberale sviluppata da Bohm, che integra la costituzione economica nell’ideologia della economia di mercato competitiva, la sgancia dalla costituzione politica e la neutralizza tecnicamente. In questo modo abilmente scioglie il rapporto tra lo Stato e l’economia, secondo un principio di differenziazione funzionale, e lo riformula come questione giuridica. Non a caso Scharpf attribuisce questa logica anche all’azione delle Corti che Brunkhorst sembra attribuire all’azione del KCM.
L’idea portata avanti da Hayek (’39) in “le condizioni economiche del federalismo tra Stati” è abbastanza semplicemente di impedire che le “maggioranze” democratiche possano abusare delle loro competenze costituzionali, contro le minoranze abbienti, per immischiarsi nella libertà della proprietà. Il federalismo interstatale svolge questa funzione proprio perché l’uomo disincarnato della cittadinanza sovranazionale non ha abbastanza solidarietà e comunanza per accettare di condividere schemi redistributivi. Al massimo può condividere (in accordo con il KCM) dei ‘diritti liberali’ che non interferiscono con gli assetti di potere economico concreti. Questa semplice ma dura realtà è ancora quella con la quale si romperà la testa, alla fine del libro anche la sua generosa ipotesi.


Come riconosce l’autore, sposando questa idea, gli ordoliberali ben rappresentati dalle delegazioni trattanti tedesche sin dall’inizio, “fecero il passo, assolutamente decisivo, di separare l’idea di una costituzione economia non solo dal Parlamento, ma anche dallo Stato nazionale e di prepararla per la programmata Comunità Economica Europea” (p.56). Diventa centrale, come ben vedrà il PCI in Italia, il diritto alla concorrenza e retrocedono sullo sfondo tutti quelli a dimensione sociale. In una prima fase il resto del KCM resta solo a livello nazionale.
Ma gradualmente questo risale la china, fino ad affermare dei diritti individuali al livello sovranazionale, attraverso le Corti europee e il concerto con quelle nazionali. Ovvero a forza di Sentenze tecnicamente eversive che di fatto attuano “la neutralizzazione tecnica del legislatore democratico nazionale” (p.63). Si tratta, come dice, di una giustizia politicamente attiva che è programmata (teleologicamente) in funzione della progressiva unificazione. Ovvero della distruzione, e/o svirilizzazione, della democrazia nazionale già formata e socialmente molto più forte e difficilmente controllabile (siamo nei tardi anni sessanta, anni di lotte sociali intense, vedi ad esempio). Da pagina 64 il testo analizza una serie di sentenze, a partire dagli stessi anni cinquanta, che progressivamente e costantemente ampliano le possibilità di ricorso contro la legislazione degli Stati nazionali ed in favore dei cittadini, e delle imprese private, ricorrenti. I capisaldi sono lo sviluppo della dottrina “dell’applicabilità diretta”, “dell’effetto utile”, “dell’implied powers”, e nel 1963 “dell’effetto diretto” secondo il quale il diritto europeo funziona in deroga a quello nazionale ed anche in suo contrasto.
Anche contro la decisa azione di De Gaulle (cosiddetta “politica della sedia vuota”) la corte “efficacemente ma non democraticamente rese esplicito che i presupposti democratici dell’Europa stanno al di là dello Stato Nazionale, nei diritti dei suoi cittadini”. In particolare attraverso due sentenze: la Leberpfenning e la Costa/Enel.
Attraverso queste interpretazioni i Trattati non sono più solo letti come accordi tra Stati ma come prime fonti di un nuovo “diritto transnazionale” che si fonda e costituisce ad un tempo una nuova cittadinanza”. Un diritto che nascerebbe, secondo l’autore, da un momento costituente implicato nel consenso dei popoli europei (come visto al netto delle sinistre, che protestano inascoltate), e incorporato nelle stesse Costituzioni nazionali.


Sono quindi un momento di KCM in quanto superamento dello Stato autoritario e del suo “potere prerogativo”, rileggendo e rifacendosi alla tradizione liberale attraverso un Kant riletto da Ingeborg Maus (p.73), e capace di una civilizzazione esterna del nucleo di violenza del potere politico. Ovviamente nel clima della guerra fredda, che presiede almeno sino al Trattato di Maastricht (quando viene sostituito in corsa da un ancora più forte ed imperialista approccio neoliberale, ma rivolto alla competizione tra ‘grandi spazi’), per questo termine si deve intendere rettamente la possibile violenza delle classi popolari verso le classi possidenti. Ovvero la lotta di classe che si tratta di neutralizzare, o di superare (come abbiamo prima visto anche in Habermas).

Certo, a percorso idealmente completato quel che si è disinnescato a livello delle singole nazioni potrebbe ripresentarsi (violenza e costrizione, imperialismo) a livello del nuovo superstato europeo. L’orizzonte del KCM è quindi un controfattuale (ed egocentrico) popolo mondiale fondante una “cittadinanza planetaria”, nella quale il modo di impostare la rule of law anglosassone (o almeno occidentale) sia estesa su tutti i popoli della terra portandoli ad unità. In altre parole, ed a livello globale, “la violenza del diritto all’interno dello Stato può essere superato solo dalla individualizzazione comunicativa della sovranità popolare. Solo singoli socializzati si autodeterminano”.

Segue la Sentenza “Lisbona” nella Corte Costituzionale Tedesca del 2009, che apre un conflitto con quella Europea sulla priorità del relativo diritto.
È chiaro comunque che questo processo guidato dal potere giudiziario, ed azionabile a livello solo del singolo attore, include un deficit di legittimazione che l’autore non può fare a meno di vedere, ovvero include di fatto (e di programma) una perdita di democrazia a favore del capitale e la neutralizzazione del conflitto di classe (p.82), in quanto l’integrazione legale subentra all’accordo politico. Determinando una autostabilizzazione funzionale che allontana il sistema giuridico dalle fonti sociali della legittimazione democratica e rinserrandola nei soli specialisti.
In questo modo gli ordoliberisti vincono sia attraverso il MM sia attraverso il KCM, o meglio istituendo la dialettica tra questi che comunque non riesce e non può fuoriuscire dai binari dati.



Alla fine la postdemocrazia si istituisce (come vede anche l’autore, p.92), e la discorsività post-convenzionale si istituisce solo a spese del potere legislativo parlamentare che è svuotato. Già in Kant un simile esito è qualificato come puro perfezionamento dell’assolutismo.
Questo processo è accelerato dal Trattato di Maastricht, che istituisce una “costituzione da investitori” e quella che chiama la “auto-schiavizzazione dello Stato democratico” (p.116), di cui l’euro, il pareggio di bilancio e la Troika sono pietra angolare. Un vero e proprio regime di bonapartismo del mercato.

Brunkhorst nutre speranza nell’istituzione, a partire da Lisbona, di un Parlamento Europeo in grado di esplicare capacità di controllo più forti di quello americano (dove, però, la suprema magistratura del Presidente è eletta direttamente, mentre la Commissione ha mandato duplice, diretto dal Parlamento Europeo e indiretto dagli Stati Nazionali che al momento contano di più). Tuttavia non può mancare di vedere il deficit di rappresentatività determinato dalla vistosa violazione del principio democratico ‘una testa un voto’.

E soprattutto, con uno scatto erculeo della volontà, dopo aver speso pagine drammatiche a condannare l’esito dell’Unione Europea, figlia dell’egemonia ordoliberale e del MM, lo spirito utopico e la percezione di un destino evolutivo evidentemente fondato su basi altrettanto forti del trascendentalismo kantiano gli fa dire: “tutto ciò non cambia nulla alla conquista normativa dell’Unione Europea, in cui per la prima volta la transnazionalizzazione e l’individualizzazione della sovranità popolare è pervenuto ad esistenza” (p.127).




Il problema è che ciò che è “venuto ad esistenza” è in certo senso l’esatto opposto della “sovranità popolare”, è il meccanismo della sua neutralizzazione per via della sua radicale limitazione tematica e funzionale. Ciò che ancora si può esprimere come sovranità è solo la forma della competizione (che si manifesta insieme come “guerra fredda tra nord e sud Europa” e come, insieme e necessariamente, “rimozione della lotta democratica tra le classi”). L’autore spera si possa revocare questa condizione, senza rimuoverne le cause. Ovvero senza, nei suoi termini, “il ritiro nella fortezza dello Stato nazionale”, come auspicano Streeck e Scharpf.
Vede bene che la carrozza europea sta andando fuori dei binari, e che il potere comunicativo rivendicato dalla base degli umiliati ed offesi popoli europei sta andando verso destra, ma immagina che la lotta di classe democratica, di nuovo necessaria, sia recuperabile solo a livello transnazionale (dove non è, e dove gli interessi sono ambiguamente definibili e comunque facilmente deviabili sull’asse debitori/creditori, pagatori/riceventi i trasferimenti, tra nord e sud) e non a livello nazionale dove si sta peraltro manifestando in forme nuove e sorprendenti.

Nella discussione delle alternative che interessa l’ultima parte del libro, e nella quale discute direttamente la posizione di Streeck (vedi, ad esempio, qui) riconosce che entrambe le alternative sono egualmente rischiose, ma tiene fermo che il ritiro sulla giustizia esistente dello Stato sociale nazionale non è sostenibile e che questo quindi “deve perire” (p.137). In conseguenza resta solo “la fuga in avanti”, “non meno rischiosa ma più giustificabile sul piano normativo”.
Infatti “il ritiro nella fortezza dello Stato nazionale comporta il rischio di una caduta inarrestabile sotto il già raggiunto livello di civilizzazione del nucleo di violenza del potere politico” (si tratta, insomma del vecchio e volgarmente vuoto argomento della ‘pace’ che lui stesso, nella prima parte del libro, critica come retorica vuota e funzionale a scopi di nascondimento).
Inoltre, avanzando un argomento pragmatico di maggiore forza, “la situazione non permette di scendere sotto il livello di integrazione funzionale raggiunto” (senza danno per qualcuno), e “la frammentazione potrebbe provocare una reazione a catena incontrollata” (con grave danno, ad esempio, per gli investitori dei ricchi paesi del nord, per i loro titoli e risparmi gestiti, ad esempio dalla Deutsch Bank).
Ed infine il sempreverde, “se il capitalismo finanziario si esprime a livello sovranazionale allora anche la risposta deve esserlo” (che, a ben vedere è la stessa obiezione di cui sopra, potendosi completare “a meno di subire danni ingenti”).

La questione potrei porla in questi termini: davanti alla certificazione di un eguale rischio bisogna capire dove si è. Da una parte abbiamo uno status quo nel quale la neutralizzazione della giustizia esistente (per quanto fallibile e imperfetta) conduce all’imperialismo di mercato accuratamente costruito nella divisione del lavoro tra MM e KCM, e nel quale molti perdono certamente e progressivamente; dall’altra un rischio concreto, rapido, di perdita di stabilità e crollo se si tagliano le intersezioni e compatibilità sulle quali sono fondati i privilegi e i cumuli dei beni (più o meno ‘fittizi’) di pochi. Ma tra i quali possono ben esservi anche alcuni intellettuali. Alla fine si può essere portati a scegliere, anche senza avvedersene, l’una o l’altro (rischio) in funzione della propria situazione esistenziale e del proprio ambiente, ovvero da cosa si ha da perdere (oltre le proprie catene).



La speranza dell’autore, alla fine, nelle ultime due pagine è che, dovendo andare avanti, la sfida faccia risorgere “un movimento transnazionale dei lavoratori e delle loro più importanti organizzazioni: i sindacati”, e che questo fantasmatico evento riesca, vincendo la forza di gravità, staccare il silenziatore sui fenomeni di colonialismo interno che vede “i paesi del Sud sfruttati dal Nord” e che legittimino “i transfert di denaro”. Si tratta dell’ipotesi avanzata anche da Habermas (si veda, “La democrazia in Europa”), e criticato a più riprese da Streeck (si veda ad esempio “Che dire del capitalismo?”).

Dopo aver compiuto questo esercizio assolutamente controfattuale (la lotta di classe parte e presuppone la presenza di interessi convergenti, non è un esercizio idealistico, o orientato al punto di vista morale kantiano, ma un esercizio di lotta che muove da universali concreti, con un movimento dall’interno verso l’esterno, dagli interessati che difendono se stessi), e aver superato con atto di volontà l’obiezione del teorema fondativo di Hayek, senza averne neutralizzato le condizioni, Brunkhorst riveste le sue residue speranze nei movimenti diffusi e rivolti alle nuove masse moltitudinarie del precariato intellettuale e giovanile, viste come “il nucleo di una sfera pubblica transnazionale e di una cultura giovanile transnazionale”.

La chiusa merita di essere riportata, come espressione della disperazione delle élite: “è quantomeno immaginabile che in uno dei prossimi momenti critici della perdurante crisi economica questo potenziale di un precariato altamente qualificato, in alleanza con sindacati transnazionali, riesca a dar forma a movimenti di solidarietà, non solo nel Sud. Ciò potrebbe accrescere la pressione del potere comunicativo sul regime di austerità al punto che, alla fine, l’attuale costituzione degli investitori potrebbe trasformarsi in una costituzione sociale dell’Europa” (p.146).


Sorprendentemente nell’anziano habermansiano fa capolino l’anziano Negri.

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