Questo libro,
che reca come sottotitolo “Tra capitalismo e democrazia”, del sociologo Hauke
Brunkhorst, uno specialista del costituzionalismo europeo, sostiene una complessa
tesi volta ad individuare, sulla scorta di una rilettura in chiave di
evoluzionismo hegelianamente ispirato, lo schema di Koskenniemi dell’opposizione
nell'evoluzione costituzionale europea di due “mindset” (ambienti, reti
concettuali e modi di pensare): il Kantian
constitutional mindset (KCM), ispirato all'utopia cosmopolita e
democraticamente orientato (ma volto a dissolvere la democrazia nazionale in
favore di quella mondiale) e il Managerial
mindset (MM) volto ad un progressivo apprendimento cognitivo, adattivo e
sensibile all'equilibrio del potere. La conclusione vede molto bene ciò che sta
accadendo (anzi pre-vede) ma sceglie di sperare nel KCM contro ogni speranza
per timore del rischio della richiusura nelle democrazie realmente esistenti, come
reazione al MM. La sua posizione si forma contro da una parte l'approccio
luhmaniano del MM, dall'altra contro la posizione, dal suo lato disfattista, di
Streeck e Scharpf di asserragliarsi nella fortezza nazionale per salvare le
strutture normative della democrazia sociale.
Il testo è del 2014 e l’autore ha oggi settantadue
anni, si tratta dunque di una opera matura e di altissima densità concettuale e
politica. Un’opera che segue al suo testo del 2003 “Solidarity: from civic friendship to a globale
legal community”, che sviluppa una teoria dell’inclusione democratica
estesa alla cittadinanza globale. Brunkhorst è autore anche di un interessante libro su Habermas nel quale mostra l’interna
connessione tra il concetto di razionalità,
incardinata nella struttura pragmatica del linguaggio e nel fatto della
comunicazione, che muove da soggetti empirici e non trascendentali ma produce
nel suo farsi effetti quasi-trascendentali (tesi condivisa con Karl-Otto Apel),
e la società ricostruita nella forma
della dialettica tra integrazione sociale (riassunta nella formula recuperata
da Husserl) e integrazione sistemica (ripresa da un intenso confronto con
Luhmann, ma anche con Parsons). L’elemento centrale rispetto ai temi qui
trattati, e che Brunkhorst condivide con Habermas è la presa di posizione per
una “società aperta”, di sapore
liberale ed illuminista, che rigetta da una parte le teorie elitiste e le
concezioni funzionaliste (che in questa opera sono incluse nel Managerial
mindset), ma dall’altra insiste sulla ‘razionalizzazione’
ancorata alla chiarificazione individuale dei piani di vita ed alla formazione
di coordinamento non coatto a partire dai ‘mondi vitali’. I ‘mondi
vitali’ sono il supporto di ogni possibile ‘agire comunicativo’ e sono
sempre condivisi entro comunità specifiche, come corpus di conoscenze tacite ed
interpretazioni non problematiche. Si tratta di “un serbatoio o uno sfondo di
certezze ed evidenze non problematizzate ma problematizzabili man mano che
diventano rilevanti per una situazione” (Habermas, “Teoria dell’agire comunicativo”), di contenuti cognitivi che
immagazzinano il lavoro interpretativo della tradizione e rappresentano un
necessario ‘contrappeso conservatore’ alla possibile problematizzazione di ogni
termine e quindi alla difficoltà di coordinare i piani di azione per via
discorsiva. Tuttavia questo contrappeso può essere rimesso in questione,
razionalizzandolo e guadagnando quindi ‘autonomia’, proprio attraverso l’agire
comunicativo. Dunque passando da “un intendersi imputato normativamente versus
una intesa raggiunta in modo comunicativo” (Habermas ‘Teoria dell’Agire Comunicativo’) la comprensione del mondo quindi
si “decentra” (Piaget) e sia avvia su
un percorso evolutivo simile a quello che porta dal bambino all’uomo adulto.
Il programma neo-illuminista di Habermas, (differenziazione
funzionale del sistema sociale e detradizionalizzazione del ‘mondo della vita’)
ma condotto con strumenti ‘post metafisici’, ovvero fondati sulla comunicazione
intersoggettiva e non sulla filosofia del soggetto capace di conoscenza vera ed
oggettiva, muove per questo dallo sforzo costante di rendere riflessivi i
legami sociali, disintrecciandoli da valori e presupposizioni dati.
Lo spirito di questo programma, oltre a formarsi negli
anni della lunga ritirata (cui contribuisce) dalla metafisica della lotta di
classe e della critica della reificazione,
si muove nel quadro anni ottanta e novanta della “pacificazione da parte dello
Stato sociale” (Tac, p.1021) di una società nella quale la forza integrante
delle ideologie (mentre quella liberale impera) non è più disponibile. Questa lettura
datata, dentro la quale si muove il paradigma interpretativo di Brunkhorst
(mentre altri come Honneth
e la sua allieva Jaeggi
in particolare cercano di trovare materiali per aggiornarla) vede la frammentazione della coscienza
quotidiana (perdendo i quadri di riferimento generali, o meglio, direi, sostituendoli
con l’assenza di quadro unificante e quindi con la pronunciata
mercatizzazione), e la interpreta come colonizzazione del mondo vitale da parte
della logica sistemica (ovvero dei codici denaro e potere giuridificato). Come
dice lui stesso: “la teoria della reificazione, riformulata in concetti di
sistema/mondo vitale, necessita quindi dell’integrazione di un’analisi della
modernità culturale che prende il posto di una obsoleta teoria della coscienza
di classe. Anziché servire alla critica dell’ideologia, essa dovrebbe spiegare
l’impoverimento culturale e la frammentazione della coscienza quotidiana;
anziché inseguire le tracce disperse di una coscienza rivoluzionaria dovrebbe
indicare le condizioni per un ricongiungimento della cultura razionalizzata con
una comunicazione quotidiana dipendente da tradizioni vitali” (TAC, p.1022).
Tutta la costruzione habermasiana di quegli anni, e
dei seguenti, fino al recente parziale ripensamento espresso in “Verbalizzare
il sacro”, muove dentro il riuscito scambio welfarista, ovvero entro
l’addomesticamento effetto di uno Stato sociale insieme funzionante e
integrante in forma sistemica come “effetto collaterale di un accomodamento
riuscito dello Stato sociale” (che, tra l’altro, rende obsolete le ideologie
della rivoluzione, pacificando la gran parte del sociale). Si tratta, in fondo,
con strumenti ben diversi, della stessa ipotesi avanzata negli stessi anni da Giddens
(“Identità
e società moderna”, 1991) e Inglehart (“La
società postmoderna”) e revocata negli anni successivi.
Rischia dunque, il fondamento di questa teoria, essere
soggetto allo stesso avvertimento che chiude “Teoria dell’Agire Comunicativo”, nel 1981: la prigionia
dell’autoriferimento, ovvero dell’astrazione nel suo concretamento particolare
e specifico. Come scrive Marx nei Grundisse (cit in Habermas): “le categorie
più astratte, nonostante siano valide -proprio a causa della loro astrazione-
per tutte le epoche, sono tuttavia, in ciò che vi è determinato in questa
astrazione, il prodotto di condizioni storiche e posseggono la loro piena
validità solo per e entro queste condizioni”. Dunque anche la Teoria dell’Agire
Comunicativo, fondamento del sistema habermasiano, dipende da una condizione
nella quale “gli imperativi dei sottosistemi autonomizzati penetrano nel mondo
vitale e, mediante la monetarizzazione e la burocratizzazione, impongono
un’assimilazione dell’agire comunicativo ad ambiti di azione formalmente
organizzati, anche la dove il meccanismo del coordinamento delle azioni
costituito dalla comprensione e dall’intesa è funzionalmente necessario”
(p.1088). La teoria, in altre parole reagisce ad una “minaccia” propria del suo
tempo: la burocratizzazione e la società regolata da sistemi oppressivi,
ancorché astratti, che è sentita fortemente dai teorici della sua generazione (Enzensberger,
Dahrendorf, Luhmann, Wehler, ecc.).
Al termine, invece, di un quarantennio di
deregolazione e disgregazione, imposta dall’alto e di dominio fattosi trasparente
e proposto come natura, questa agenda, restando in quanto astrazione valida,
appare superata dalla ben motivata “rivolta
degli elettori”, rispetto alla quale rischia di funzionare da contrappeso
conservatore. Insomma, la modernità contemporanea è andata oltre i limiti di
funzionamento del delicato modello di legittimazione habermasiano ed è
deragliata, in quanto quelle che chiama le “logiche sistemiche” hanno di gran
lunga soverchiato i fondamenti della solidarietà. L’argine posto non ha retto.
New Armony |
Questa è la chiave critica attraverso la quale
procederemo a leggere l’interessante ed utile libro di Brunkhorst.
L’autore imposta un discorso insieme complesso e schematico,
imperniato su una opposizione tra due stili d’azione opposti e dialetticamente
attivi sin dall’inizio del percorso di sviluppo del processo di formazione
della Unione Europea che è seguito cronologicamente. Lo scontro sempre ripetuto
tra Kantian Constitutional Mindset (KCM) e Managerial Mindset (MM) nasce
nell’immediato dopoguerra, con qualche importante antecedente, e si sviluppa
come contraddizione dialettica tra ‘emancipazione’ (nel senso habermasiano) e
‘adattamento’ (al sistema delle forze agenti nel contesto capitalistico
europeo). Un costante lavoro da parte di MM di rimuovere la stessa esistenza di
KCM e un continuo, ostinato, “ritorno del rimosso”.
Si parte dall’avvio del progetto europeo che
Brunkhorst legge decisamente come tensione dei popoli europei e delle élite
culturali ed intellettuali (in realtà direi molto più delle seconde)
all’emancipazione ed alla fuoriuscita dagli orrori della prima metà del secolo
per la fondazione di una repubblica cosmopolitica di cittadini liberi ed eguali.
Questo ideale di purissima marca neo-illuminista, che risale ovviamente al Kant
de “Per la pace perpetua” (che viene
letto come testo filosofico con una certa tendenza ad evitarne la
storicizzazione) viene contrastato da una chiave realista di approccio ai
problemi del secolo che vede, nel MM, opporre “una vuota retorica della pace,
dell’intesa e di un mondo più felice che si accorda con la ricostruzione
dell’unità nazionale e con l’egemonia di una costituzione economica
spoliticizzata” (p.11). La questione dell’avvio meriterà un approfondimento,
dato che si tratta, nell’economia dell’argomentazione del testo dello snodo
legittimante centrale, ma per ora andiamo avanti con la lettura.
Si parlava di “ritorno
del rimosso”: dopo la richiusura nella logica intergovernativa e nella
‘costituzione economica’ il rimosso KCM torna infatti sempre come
“apprendimento normativo” (termine denso di teoria, cfr. p.46) che si oppone a
processi semi-spontanei di adattamento cognitivo portati avanti da sistemi
d’azione incardinati nelle tecnostrutture e nell’economico. Questi due processi
si ostacolano a vicenda e creano continue frizioni reciproche, ma pur
sviluppano nel suo miglior risultato una dialettica reciproca. In un quadro
interpretativo di tipo evoluzionistico, come quello espressamente praticato
dall’autore, dunque si tratta alla fine di un processo che porta verso
l’emancipazione procedendo tra salti e lenti accumuli di anomalie, tensioni,
deviazioni. L’emancipazione implica lo sviluppo, o almeno la difesa, della democrazia
che è contraddizione esistente del sistema istituzionale vigente (per un quadro
della democrazia come dialettica tra processi diffusi di comunicazione,
capillarmente riprodotti e sviluppanti ‘capacità d’assedio’ e strutture
specializzate all’azione di tipo sistemico si veda Habermas “Fatti
e norme”).
Con una sintetica ricostruzione inavvertitamente molto
germanocentrica Brunkhorst definisce il complicato periodo dell’immediato
dopoguerra, dal 1944 al 1845 (includendo quindi anche i preparativi da parte
degli alleati, in particolare degli USA alla gestione dell’Europa post
sconfitta dei fascisti e minacciata, dal loro punto di vista, da un possibile
avanzamento delle forze comuniste e socialiste rivitalizzate dalle esperienze
delle resistenze) come una rivoluzione incompleta: l’unificazione “non iniziò
con il consenso tecnocratico delle élite e del loro Managerial Minsdet, ma con
la liberazione delle masse represse che lottavano per l’autodeterminazione
nella legislazione politica”. Ma quasi subito, con il Trattato di Roma (1957,
di cui abbiamo letto il dibattito parlamentare italiano qui)
l’ “Europa sociale” viene rimossa e messa da parte in favore di un progetto di
costruzione meramente economico, del grande capitale. Di lì muove una serie di
rimozioni: le alternative di sinistra e l’imposizione in tutta Europea del
dominio democristiano (p.16), l’eurocomunismo (che passa negli anni settanta
per la rimozione di Brandt e probabilmente di Moro), la rimozione sistematica
della storia e anche del presente coloniale (ad esempio francese, p.18). Non a
caso, sottolinea l’autore, “tutti gli Stati primi firmatari dei trattati –
quello di Parigi nel 1951, con cui si creò la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (con un’altra autorità
indipendente, antesignana della futura Commissione, e con una corte di
giustizia subito attiva sul piano politico) e quello di Roma del 1957, con cui
si diede vita alla Cee – sono stati rifondati tra il 1944 e il 1948 dal loro
potere legislativo costituente” (p.20). Qui l’autore cita Thornhill, Fossum,
Moller.
In realtà l’autore glissa su questo punto, ma nessuno
degli Stati in oggetto, e ovviamente in particolare la Germania, era davvero
sovrano all’epoca. In particolare quest’ultima riteneva anche che si trattasse
di uno stato di cose desiderabile (come dice Streeck in questa
intervista), e lo ritenevano anche le élite in Italia. In conseguenza di questo
trauma e di questa condizione di semi-subalternità si sentivano giustamente
puniti per il “nazionalismo” fascista, ritenuto causa della guerra e delle
conseguenti distruzioni, e -come scrive Streeck- “cercavano di raccomandare la
denazionalizzazione della politica come ideale di un nuovo ordine mondiale
[anche] per tutti gli altri”.
La disincarnata descrizione (molto “kantiana”) di
Brunkhorst glissa su questo punto direi decisivo e qualifica invece il consenso
nativo al processo di superamento delle barriere nazionali, incardinato
opportunamente in alcune costituzioni riscritte in quegli anni, come apertura
cosmopolita decisiva. Con le sue parole: “è
stato decisivo che i poteri costituenti di tutti i membri fondatori si siano
pronunciati esplicitamente a favore dell’obiettivo dell’unificazione politica
dell’Europa come obiettivo dei rispettivi Stati” (p.25) ciò attribuisce,
anche contro il MM, che tende ad una interpretazione della situazione come
orientamento a forzare, piuttosto, la creazione di uno Stato di diritto senza
legislatore, ai Trattati un valore costituzionale vincolante che va molto al di
là dei trattati internazionali. Costituendo quindi un vincolo a creare un
accordo transnazionale fondato direttamente sul consenso dei popoli europei.
Qui il punto centrale in termini di legittimazione
dell’intero percorso successivo.
Si tratta di una interpretazione, come ripeto, troppo
germanocentrica e che dimentica (ovvero rimuove) i limiti, politici, sociali e
persino militari, di questo consenso prodottosi nel contesto di una feroce
guerra fredda e con centinaia di migliaia di militari USA in Europa, oltre che
di miliardi di dollari di aiuti certamente non ciechi alla convenienza. Basterebbe
ripercorrere le biografie di Monnet, di Schuman e del generale Donovan (capo
dell’ASS, poi divenuta CIA) che testimoniano l’origine geopolitica della spinta
e verificare i fondi che utilizza, ad esempio, il Movimento Europeo (la più
importante organizzazione federalista del dopoguerra). Ad esempio, come
abbiamo letto dai testi disponibili un trentatreenne Giorgio Napolitano,
per il Partito Comunista Italiano, che ha milioni di simpatizzanti e quindi si
pone con ciò fuori del potere costituente di Brunkhorst, dichiara la più
completa contrarietà. Per lui e per il PCI , esso “costituisce solo un tentativo dei gruppi capitalistici europei di
consolidare ed estendere le loro posizioni”, ed è, continua, “indirizzato ad una indiscriminata
liberalizzazione ed è pertanto contrario ad ogni politica di sviluppo
all’interno dei singoli paesi con danni rilevanti per le zone economicamente
depresse che, come il nostro mezzogiorno, hanno bisogno invece di discriminati
interventi da parte dello Stato”. Dopo aver definito i correttivi indicati
nella relazione del Governo (BEI, FSE, PAC) inadeguati, Napolitano denuncia in
sostanza che “il Trattato avrà il solo risultato di arrestare il progresso
economico e le riforme sociali nei singoli paesi aderenti”.
Anche Giolitti chiarisce che “il ricorso al libero
gioco della concorrenza fra aree di diverso sviluppo economico produce
l’accentuazione degli squilibri economici esistenti”.
Dunque il “volere costituzionale vincolante” si può
dire che al minimo non includa la parte del popolo italiano, e delle sue élite,
che restavano dalla parte sbagliata della barriera eretta con la guerra fredda
e che il processo “cosmopolita” da avviare concretamente ostacolava nella
possibilità di determinare effetti politici.
Del resto le tracce di questa semplice verità sono
anche nel testo, quando si riconosce la presenza dell’elefante nella stanza,
affermando che in quegli anni si compie il passaggio dalla retorica
antifascista (che include le sinistre) a quella anticomunista, opportunamente
mascherata nel richiamo alla “pace” e all’”unità” sotto l’ombrello atlantico. E
si descrive in modo opportuno ed interessante l’imprinting ordoliberale che la
costruzione prende. Ma questo ultimo è ricondotto solo al MM, mentre a ben
vedere è presente sottilmente anche nel KCM.
Del resto Jan-Werner Muller, nel suo “L’enigma
democrazia”, afferma più sinteticamente che la Comunità Europea svolge in
quegli anni la funzione di “protezione dalla democrazia”. L’obiettivo più
sentito dell’epoca era, infatti, “il problema del male” (Arendt, ma anche
Adorno) e dunque la stabilizzazione di un ordinamento destinato a scongiurare
il ritorno di passati totalitari. Come dice bene Jan-Werner Muller “come
reazione, i politici dell’Europea occidentale instaurarono una forma di
democrazia estremamente limitata e profondamente segnata dalla sfiducia nella
sovranità del popolo, anzi, perfino nella tradizionale sovranità dei
Parlamenti” (op.cit. p.180). L’obiettivo politico era chiaramente di mettere al
sicuro l’assetto liberal-democratico minacciato dall’esterno dal mondo
comunista e dall’interno dalle sinistre politiche.
Se uno scontro dialettico tra KCM e MM è
rintracciabile nella dinamica europea, e non c’è dubbio vi sia, tuttavia si
tratta di variazioni entro un campo di gioco necessariamente ristretto al solo
liberalesimo. Il progetto europeo prevede geneticamente l’esclusione di forme
democratiche ‘populiste’ (ovvero di forme ‘maggioritarie’), ed istituisce a
questo fine una dialettica allungata e plurischermata tra forme di
rappresentanza elettiva (dagli anni settanta duplice), vincoli costituzionali e
limitazioni attraverso “corti” politicamente molto attive, come vedremo, e
tecnostrutture semipolitiche dedite al controllo dall’alto. Peter Mair, nel suo
ultimo libro, “Governare
il vuoto” avrà parole molto nette sulla disfunzionalità di questo assetto.
Brunkhorst risale, per la legittimazione culturale dell’impulso
cosmopolita, oltre che ad Habermas di cui utilizza la struttura concettuale, a
Kant, ed individua nel KCM una sorta di “effetto
chiavistello”, in grado di bloccare alcune porte, e proteggere le
“conquiste evolutive emancipatrici” di una selezione sociale che opera anche
attraverso interessi di classe (dominante) e imperativi funzionali (dei
sottosistemi economici, ad esempio della finanza) moralmente neutralizzati
(p.35). Questo “effetto” si manifesta attraverso le tracce che restano,
comunque, nelle argomentazioni giuridiche e si riferiscono a testi e principi
statuiti, frutto magari di faticosi compromessi notturni e lasciati a margine, ma
anche con i discorsi le parole d’ordine e le mobilitazioni.
Richiamando “Per
la pace perpetua” (che, però, si oppone all’assolutismo del suo tempo), e
chiarendo la propria ispirazione, l’autore scrive che “l’universalismo
intrinseco spinge oltre in quanto generato dalla stessa evoluzione sociale
oltre tutti i confini statali perché richiede la costituzione di un’organizzazione
cosmopolitica che superi tutte le costituzioni statali per comprimere, se non
addirittura distruggere, il loro nocciolo di violenza. Solo con essa si può
conservare e far valere per intero l’idea di diritto” (p.36). Alla luce di
queste prese di posizione l’opposizione tra il KCM (che “crede fermamente
nell’autonomia, nel self-government e nella rappresentazione democratica”,
purché non nazionale, ovvero non realmente esistente) e il MM (che “punta sul
dominio della legge (rule of law), sulla tecnica professionale, sulla
razionalità strumentale, sul new public management, e sulla connessione interna
di law and economics”) appare meno radicale di quanto piaccia all’autore.
È chiaro che il MM, nella versione di Luhmann, è
direttamente un equivalente funzionale della democrazia, ma anche nel KCM è presente
comunque una democrazia svirilizzata, nella quale imperano i diritti dell’uomo
ma ci sono enormi limitazioni compromissorie a far passere quelli sociali, in
cui il “popolo” è astratto e disincarnato (nel senso di Sandel).
Chiaramente l’autore riconosce che KCM e MM sono
interdipendenti, nel senso che sono connessi internamente, e la loro dialettica
limita le direzioni di sviluppo possibile determinandosi come “condizioni
strutturali”, canalizzando le possibilità di adattamento sociale. Dunque il
progetto europeo, per come si è sviluppato storicamente e per come è
determinato nella dialettica tra un impulso cosmopolita e una realtà adattiva
al sistema economico ed alle realtà di potere e di classe, appare come
“concetto esistente” (Hegel) informando l’evoluzione generale.
Alla “Costituzione economica”, dominante sin dai
trattati degli anni cinquanta l’azione liberale delle Corti europee, sin
dall’inizio improntate ad un forte attivismo politico (si veda su questo
Scharpf, “La
doppia asimmetria dell’integrazione europea”, 2009) viene aggiunto uno
Stato di Diritto che fonda in pratica dalle pieghe dei Trattati dei non prima
esistenti diritti di cittadinanza europei prevalenti sui diritti di
cittadinanza e sui poteri statuali delle singole nazioni. Dagli anni settanta
in questo modo il KCM aggiunge una dimensione politica, anche se resta per ora
come “una goccia sulla pietra rovente della costituzione economica egemonica
dell’unione” (p. 54). Del resto la costituzione economica, idea portata avanti
negli anni venti da Sinthemeier e Franz Neumann, ed incentrata sul parlamento,
viene girata nel suo contrario dal ’33 dall’appropriazione ordoliberale
sviluppata da Bohm, che integra la costituzione economica nell’ideologia della
economia di mercato competitiva, la sgancia dalla costituzione politica e la
neutralizza tecnicamente. In questo modo abilmente scioglie il rapporto tra lo
Stato e l’economia, secondo un principio di differenziazione funzionale, e lo
riformula come questione giuridica. Non a caso Scharpf attribuisce questa
logica anche all’azione delle Corti che Brunkhorst sembra attribuire all’azione
del KCM.
L’idea portata avanti da Hayek (’39) in “le
condizioni economiche del federalismo tra Stati” è abbastanza semplicemente
di impedire che le “maggioranze” democratiche possano abusare delle loro competenze
costituzionali, contro le minoranze abbienti, per immischiarsi nella libertà
della proprietà. Il federalismo interstatale svolge questa funzione proprio
perché l’uomo disincarnato della cittadinanza sovranazionale non ha abbastanza
solidarietà e comunanza per accettare di condividere schemi redistributivi. Al
massimo può condividere (in accordo con il KCM) dei ‘diritti liberali’ che non
interferiscono con gli assetti di potere economico concreti. Questa semplice ma
dura realtà è ancora quella con la quale si romperà la testa, alla fine del
libro anche la sua generosa ipotesi.
Come riconosce l’autore, sposando questa idea, gli
ordoliberali ben rappresentati dalle delegazioni trattanti tedesche sin
dall’inizio, “fecero il passo, assolutamente decisivo, di separare l’idea di
una costituzione economia non solo dal Parlamento, ma anche dallo Stato
nazionale e di prepararla per la programmata Comunità Economica Europea”
(p.56). Diventa centrale, come ben vedrà il PCI in Italia, il diritto alla
concorrenza e retrocedono sullo sfondo tutti quelli a dimensione sociale. In
una prima fase il resto del KCM resta solo a livello nazionale.
Ma gradualmente questo risale la china, fino ad
affermare dei diritti individuali al livello sovranazionale, attraverso le
Corti europee e il concerto con quelle nazionali. Ovvero a forza di Sentenze
tecnicamente eversive che di fatto attuano “la neutralizzazione tecnica del
legislatore democratico nazionale” (p.63). Si tratta, come dice, di una
giustizia politicamente attiva che è programmata (teleologicamente) in funzione
della progressiva unificazione. Ovvero della distruzione, e/o svirilizzazione,
della democrazia nazionale già formata e socialmente molto più forte e
difficilmente controllabile (siamo nei tardi anni sessanta, anni di lotte
sociali intense, vedi ad
esempio). Da pagina 64 il testo analizza una serie di sentenze, a partire
dagli stessi anni cinquanta, che progressivamente e costantemente ampliano le
possibilità di ricorso contro la legislazione degli Stati nazionali ed in
favore dei cittadini, e delle imprese private, ricorrenti. I capisaldi sono lo
sviluppo della dottrina “dell’applicabilità diretta”, “dell’effetto utile”,
“dell’implied powers”, e nel 1963 “dell’effetto diretto” secondo il quale il
diritto europeo funziona in deroga a quello nazionale ed anche in suo
contrasto.
Anche contro la decisa azione di De Gaulle (cosiddetta
“politica della sedia vuota”) la corte “efficacemente ma non democraticamente
rese esplicito che i presupposti democratici dell’Europa stanno al di là dello
Stato Nazionale, nei diritti dei suoi cittadini”. In particolare attraverso due
sentenze: la Leberpfenning e la Costa/Enel.
Attraverso queste interpretazioni i Trattati non sono
più solo letti come accordi tra Stati ma come prime fonti di un nuovo “diritto
transnazionale” che si fonda e costituisce ad un tempo una nuova cittadinanza”.
Un diritto che nascerebbe, secondo l’autore, da un momento costituente implicato
nel consenso dei popoli europei (come visto al netto delle sinistre, che
protestano inascoltate), e incorporato nelle stesse Costituzioni nazionali.
Sono quindi un momento di KCM in quanto superamento
dello Stato autoritario e del suo “potere prerogativo”, rileggendo e
rifacendosi alla tradizione liberale attraverso un Kant riletto da Ingeborg
Maus (p.73), e capace di una civilizzazione esterna del nucleo di violenza del
potere politico. Ovviamente nel clima della guerra fredda, che presiede almeno
sino al Trattato di Maastricht (quando viene sostituito in corsa da un ancora
più forte ed imperialista approccio neoliberale, ma rivolto alla competizione
tra ‘grandi spazi’), per questo termine si deve intendere rettamente la
possibile violenza delle classi popolari verso le classi possidenti. Ovvero la
lotta di classe che si tratta di neutralizzare, o di superare (come abbiamo
prima visto anche in Habermas).
Certo, a percorso idealmente completato quel che si è
disinnescato a livello delle singole nazioni potrebbe ripresentarsi (violenza e
costrizione, imperialismo) a livello del nuovo superstato europeo. L’orizzonte
del KCM è quindi un controfattuale (ed egocentrico) popolo mondiale fondante
una “cittadinanza planetaria”, nella quale il modo di impostare la rule of law
anglosassone (o almeno occidentale) sia estesa su tutti i popoli della terra
portandoli ad unità. In altre parole, ed a livello globale, “la violenza del
diritto all’interno dello Stato può essere superato solo dalla
individualizzazione comunicativa della sovranità popolare. Solo singoli
socializzati si autodeterminano”.
Segue la Sentenza “Lisbona” nella Corte Costituzionale
Tedesca del 2009, che apre un conflitto con quella Europea sulla priorità del
relativo diritto.
È chiaro comunque che questo processo guidato dal
potere giudiziario, ed azionabile a livello solo del singolo attore, include un
deficit di legittimazione che l’autore non può fare a meno di vedere, ovvero
include di fatto (e di programma) una perdita di democrazia a favore del
capitale e la neutralizzazione del conflitto di classe (p.82), in quanto
l’integrazione legale subentra all’accordo politico. Determinando una
autostabilizzazione funzionale che allontana il sistema giuridico dalle fonti
sociali della legittimazione democratica e rinserrandola nei soli specialisti.
In questo modo gli ordoliberisti vincono sia
attraverso il MM sia attraverso il KCM, o meglio istituendo la dialettica tra
questi che comunque non riesce e non può fuoriuscire dai binari dati.
Alla fine la postdemocrazia si istituisce (come vede
anche l’autore, p.92), e la discorsività post-convenzionale si istituisce solo
a spese del potere legislativo parlamentare che è svuotato. Già in Kant un
simile esito è qualificato come puro perfezionamento dell’assolutismo.
Questo processo è accelerato dal Trattato di
Maastricht, che istituisce una “costituzione da investitori” e quella che
chiama la “auto-schiavizzazione dello Stato democratico” (p.116), di cui
l’euro, il pareggio di bilancio e la Troika sono pietra angolare. Un vero e
proprio regime di bonapartismo del mercato.
Brunkhorst nutre speranza nell’istituzione, a partire
da Lisbona, di un Parlamento Europeo in grado di esplicare capacità di
controllo più forti di quello americano (dove, però, la suprema magistratura
del Presidente è eletta direttamente, mentre la Commissione ha mandato duplice,
diretto dal Parlamento Europeo e indiretto dagli Stati Nazionali che al momento
contano di più). Tuttavia non può mancare di vedere il deficit di
rappresentatività determinato dalla vistosa violazione del principio
democratico ‘una testa un voto’.
E soprattutto, con uno scatto erculeo della volontà,
dopo aver speso pagine drammatiche a condannare l’esito dell’Unione Europea,
figlia dell’egemonia ordoliberale e del MM, lo spirito utopico e la percezione
di un destino evolutivo evidentemente fondato su basi altrettanto forti del
trascendentalismo kantiano gli fa dire: “tutto
ciò non cambia nulla alla conquista normativa dell’Unione Europea, in cui per
la prima volta la transnazionalizzazione e l’individualizzazione della
sovranità popolare è pervenuto ad esistenza” (p.127).
Il problema è che ciò che è “venuto ad esistenza” è in
certo senso l’esatto opposto della “sovranità popolare”, è il meccanismo della
sua neutralizzazione per via della sua radicale limitazione tematica e
funzionale. Ciò che ancora si può esprimere come sovranità è solo la forma
della competizione (che si manifesta insieme come “guerra fredda tra nord e sud
Europa” e come, insieme e necessariamente, “rimozione della lotta democratica
tra le classi”). L’autore spera si possa revocare questa condizione, senza
rimuoverne le cause. Ovvero senza, nei suoi termini, “il ritiro nella fortezza
dello Stato nazionale”, come auspicano Streeck e Scharpf.
Vede bene che la carrozza europea sta andando fuori
dei binari, e che il potere comunicativo rivendicato dalla base degli umiliati
ed offesi popoli europei sta andando verso destra, ma immagina che la lotta di
classe democratica, di nuovo necessaria, sia recuperabile solo a livello
transnazionale (dove non è, e dove gli interessi sono ambiguamente definibili e
comunque facilmente deviabili sull’asse debitori/creditori, pagatori/riceventi
i trasferimenti, tra nord e sud) e non a livello nazionale dove si sta peraltro
manifestando in forme nuove e
sorprendenti.
Nella discussione delle alternative che interessa
l’ultima parte del libro, e nella quale discute direttamente la posizione di
Streeck (vedi, ad esempio, qui)
riconosce che entrambe le alternative sono egualmente rischiose, ma tiene fermo
che il ritiro sulla giustizia esistente dello Stato sociale nazionale non è
sostenibile e che questo quindi “deve perire” (p.137). In conseguenza resta solo
“la fuga in avanti”, “non meno rischiosa ma più giustificabile sul piano
normativo”.
Infatti “il ritiro nella fortezza dello Stato
nazionale comporta il rischio di una caduta inarrestabile sotto il già
raggiunto livello di civilizzazione del nucleo di violenza del potere politico”
(si tratta, insomma del vecchio e volgarmente vuoto argomento della ‘pace’ che
lui stesso, nella prima parte del libro, critica come retorica vuota e
funzionale a scopi di nascondimento).
Inoltre, avanzando un argomento pragmatico di maggiore
forza, “la situazione non permette di scendere sotto il livello di integrazione
funzionale raggiunto” (senza danno per qualcuno), e “la frammentazione potrebbe
provocare una reazione a catena incontrollata” (con grave danno, ad esempio, per
gli investitori dei ricchi paesi del nord, per i loro titoli e risparmi
gestiti, ad esempio dalla Deutsch Bank).
Ed infine il sempreverde, “se il capitalismo
finanziario si esprime a livello sovranazionale allora anche la risposta deve
esserlo” (che, a ben vedere è la stessa obiezione di cui sopra, potendosi
completare “a meno di subire danni ingenti”).
La questione potrei porla in questi termini: davanti alla
certificazione di un eguale rischio bisogna capire dove si è. Da una parte
abbiamo uno status quo nel quale la neutralizzazione della giustizia esistente
(per quanto fallibile e imperfetta) conduce all’imperialismo di mercato
accuratamente costruito nella divisione del lavoro tra MM e KCM, e nel quale molti
perdono certamente e progressivamente; dall’altra
un rischio concreto, rapido, di perdita di stabilità e crollo se si
tagliano le intersezioni e compatibilità sulle quali sono fondati i privilegi e
i cumuli dei beni (più o meno ‘fittizi’)
di pochi. Ma tra i quali possono ben esservi anche alcuni intellettuali. Alla fine
si può essere portati a scegliere, anche senza avvedersene, l’una o l’altro
(rischio) in funzione della propria situazione esistenziale e del proprio
ambiente, ovvero da cosa si ha da perdere (oltre le proprie catene).
La speranza dell’autore, alla fine, nelle ultime due
pagine è che, dovendo andare avanti, la sfida faccia risorgere “un movimento
transnazionale dei lavoratori e delle loro più importanti organizzazioni: i sindacati”,
e che questo fantasmatico evento riesca, vincendo la forza di gravità, staccare
il silenziatore sui fenomeni di colonialismo interno che vede “i paesi del Sud
sfruttati dal Nord” e che legittimino “i transfert di denaro”. Si tratta dell’ipotesi
avanzata anche da Habermas (si veda, “La
democrazia in Europa”), e criticato a più riprese da Streeck (si veda ad
esempio “Che
dire del capitalismo?”).
Dopo aver compiuto questo esercizio assolutamente
controfattuale (la lotta di classe parte e presuppone la presenza di interessi
convergenti, non è un esercizio idealistico, o orientato al punto di vista
morale kantiano, ma un esercizio di lotta che muove da universali concreti, con
un movimento dall’interno verso l’esterno, dagli interessati che difendono se
stessi), e aver superato con atto di volontà l’obiezione del teorema fondativo di
Hayek, senza averne neutralizzato le condizioni, Brunkhorst riveste le sue residue
speranze nei movimenti diffusi e rivolti alle nuove masse moltitudinarie del
precariato intellettuale e giovanile, viste come “il nucleo di una sfera
pubblica transnazionale e di una cultura giovanile transnazionale”.
La chiusa merita di essere riportata, come espressione
della disperazione delle élite: “è
quantomeno immaginabile che in uno dei prossimi momenti critici della
perdurante crisi economica questo potenziale di un precariato altamente
qualificato, in alleanza con sindacati transnazionali, riesca a dar forma a
movimenti di solidarietà, non solo nel Sud. Ciò potrebbe accrescere la
pressione del potere comunicativo sul regime di austerità al punto che, alla
fine, l’attuale costituzione degli investitori potrebbe trasformarsi in una
costituzione sociale dell’Europa” (p.146).
Sorprendentemente nell’anziano habermansiano fa
capolino l’anziano Negri.
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