Mark Lilla insegna storia alla Columbia e scrive
questo libro che fa parte di un vasto
processo di riflessione della sinistra internazionale di fronte alle turbolenze
di questa fase terminale della seconda globalizzazione (o, come dice, Dani
Rodrik della “iperglobalizzazione”) nel 2017. Il punto di attacco dell’autore è
la concezione individualista della politica che ha interessato sempre più
quelle che chiama “le forze politiche progressiste” dimentiche delle dimensioni
collettive, individuate come oppressive e talvolta conservatrici. A partire
dalla metà del secolo scorso, man mano che si sviluppava e radicava l’opulenta
cultura dei consumi, ha infatti guadagnato centralità quella che chiama “la
politica identitaria”; ovvero “un fenomeno egoriferito e antipolitico” che, come
dice nettamente, “non è di sinistra né liberal, anche se i democratici,
purtroppo, sono caduti nella trappola”.
Questa trasformazione è avvenuta prima in America e
solo dopo in Europa, tra i motivi addotti, ci sono l’impatto del marxismo, e di
una minore immigrazione. Oggi, invece abbiamo sia il tramonto del marxismo, sia
una maggiore disgregazione sociale, con famiglie sempre più piccole e tecnologia
che divide, invece di unire. Tutte queste condizioni, inclusa l’immigrazione, “alimentano
lo sviluppo di una questione identitaria a destra”, ma il vero problema, per
Lilla, è che non si sviluppa la versione
di sinistra. Certo, in Francia c’è una serrata discussione sul
multiculturalismo ed il futuro della tradizione repubblicana, in Inghilterra
Jeremy Corbyn sta iniziando ad affrontare il tema, ma in generale accade che “l’immigrazione
clandestina offre ai democratici una nuova categoria di ultimi per cui combattere,
ora che la classe operaia li ha abbandonati per affidarsi alla protezione dei
populisti” (p.9). La sinistra è bloccata anche perché non riesce a trovare un
modo convincente di parlare dello Stato-nazione “come locus dell’azione e della
legittimazione democratica”, ciò anche se in realtà “la vecchia sinistra
considerava l’autodeterminazione nazionale come condizione necessaria dell’autodeterminazione
democratica”, ed a partire da casi come la lotta d’indipendenza della Grecia
sin dall’ottocento, ai conflitti del novecento per la decolonizzazione (si veda
per una lettura profonda e critica di questi temi Losurdo “Il
marxismo occidentale”). Invece, come dice l’autore, “la sinistra di oggi si
ostina invece a trarre le conclusioni sbagliate dalle guerre mondiali, cioè che
lo Stato-nazione è per sua natura intollerante e violento, e perciò va superato”.
Ma nelle condizioni in cui i cittadini europei si
sentono schiacciati tra i ditkat mercatisti di Bruxelles e l’immigrazione di
massa, che alza la competizione nei propri luoghi di vita e lavoro (non certo
alla borghesia che per lo più vota con la sinistra, che anzi trova interessanti
occasioni a buon mercato per godere di lavoro di assistenza e cura), molti
sentono sempre più di non poter controllare il proprio destino. In questo stato
“è molto difficile concepire un futuro per la sinistra europea se non si
deciderà a riorientarsi sul paradigma della cittadinanza, il che significa
assumere un atteggiamento critico verso la burocrazia dell’Unione Europea e
combattere apertamente l’immigrazione illegale” (p. 10).
Oggi sembra peraltro rimasta solo la “politica
identitaria” (per approfondire il concetto, Jonathan Friedman “Politicamente
corretto”) che, però, non può essere un credibile sostituto del marxismo perché
non offre alcuna visione complessiva
della società, dell’economia e della cultura. Anzi è precisamente costruita
sulla riduzione della posizione di sguardo sul mondo ad un semplice
autorispecchiamento morale. Lilla la vede come una forma di “antipolitica” che
intanto tiene occupati, come una sorta di segnaposto, mentre si cerca di
trovare una qualche idea sul mondo.
Storicamente una simile posizione sostitutiva delle
visioni generali ha iniziato ad essere usata negli anni sessanta in America
dalla cosiddetta “new left” che
cercava collanti nelle battaglie per i diritti civili, nell’orgoglio delle
minoranze. Man mano che scemava l’energia delle mobilitazioni questo
orientamento ha subito una trasformazione inavvertita: ha cominciato ad indicare
il proprio io interiore, il self, come “entità irripetibile che reclamava
protezione”. Si tratta di anni nei quali esplode l’interesse per la
psicoanalisi, secondo una linea che negli anni ottanta fa un balzo:
legittimando direttamente l’autodefinizione come obiettivo politico. Avvampano allora
battaglie che non sono riconducibili ad un progetto generale di società (almeno
non coerente): l’ambientalismo, il femminismo, l’attivismo contro la guerra, … Sostenendo
una tesi molto vicina a quella di Aldo Barba e Massimo Pivetti in “La
scomparsa della sinistra in Europa”, Lilla propone di considerare che è “per
inseguire quella molteplicità incomprensibile [che] la sinistra si è
disgregata, diventando una litigiosa famiglia di movimenti sociali senza una
visione comune del futuro”. Alla fine ogni interesse per l’economia e la
politica estera è scomparso, insieme agli schemi interpretativi che
consentivano di leggerle, ed ogni cosa ha cominciato a ruotare intorno ad i “dannati
della terra” di turno, i deboli e discriminati purché per ragioni riconducibili
a ragioni identitarie, etniche o di genere. Nel frattempo i “subalterni”, i
vecchi lavoratori, o i disoccupati e sottoccupati, creati dalla macchina produttiva
del capitalismo, rimasta senza alternative nella mente della sinistra, sono
stati ignorati ed hanno cominciato a votare a destra.
L’idea che il multiculturalismo sia il nuovo orizzonte
valoriale e strategico della sinistra (un mondo fatto tutto di minoranze
identitarie i cui voti andare a prendere uno per uno) ha così preso piede. Ma alla
fine si è trasformato in un progetto ideologico il cui risultato è di
delegittimare le istanze della cittadinanza e dell’esperienza comune.
È questo il quadro nel quale si materializza la
vittoria di Donald Trump. L’aver dimenticato che, come diceva Lincoln: “il
sentimento pubblico è tutto – con il suo favore niente può fallire; contro il
suo favore, niente può avere successo- chi plasma il sentimento pubblico agisce
più in profondità di chi mette in pratica gli statuti e scrive le sentenze”, ed
il sentimento è stato plasmato da altri.
La sinistra ha peraltro guadagnato l’egemonia solo quando
ha costruito una visione ambiziosa del futuro che coinvolgesse tutti, costruendo
l’immaginario; ad esempio con Roosevelt il quale si riferiva e rendeva
credibile un’America “in cui i cittadini erano coinvolti in una impresa collettiva il cui scopo era proteggersi
a vicenda dai rischi, dalle difficoltà e dalla soppressione dei diritti
fondamentali”. Una missione le cui parole d’ordine erano ‘solidarietà’, ‘opportunità’
e ‘senso del dovere’.
La destra ha invece ripreso l’egemonia con Reagan,
quando ha proposto con successo un’America individualista, “dove le famiglie,
le piccole comunità e gli affari sarebbero fioriti soltanto dopo aver spezzato
le catene dello Stato” (p.21). Le parole d’ordine erano qui ‘autonomia’ e ‘stato
minimo’. Da un modello politico ad un modello antipolitico.
Ora la sinistra si è adattata ad una variante colorata
di questa antipolitica che perde di vista ciò che condividiamo come cittadini e
ci lega come nazione. Ma in questo modo la sinistra liberal è caduta in un
paradosso che la neutralizza, perché la politica identitaria “atrofizza la
capacità di pensare e agire in modo da ottenere i risultati che dice di voler
raggiungere. È ossessionato dai simboli: creare una rappresentazione
superficiale della diversità all’interno dei centri decisionali, riscrivere la
storia per concentrarsi su gruppi marginali e talvolta minuscoli, inventare
eufemismi inoffensivi per descrivere la realtà sociale, proteggere giovano
occhi e orecchie, già peraltro abituati a film truculenti, da spiacevoli
incontri con punti di vista diversi. Il liberalismo identitario ha smesso di
essere un progetto politico e si è trasformato in un progetto evangelico”
(p.27).
Questa è una strada senza uscita, perché non ci può
essere una politica liberal senza un “noi”, senza “un senso di ciò che siamo
come cittadini e ciò che dobbiamo gli uni agli altri”. Bisogna allora fare
altro, “offrire la visione di un destino comune fondato su qualcosa che gli
americani di ogni estrazione davvero condividono”. Senza tornare a New Deal, perché
è impossibile, bisogna spezzare l’incantesimo e tornare ad occuparci di ciò che
ci unisce.
Certo nel seguito, tornando a Reagan, viene descritta
la base materiale (la suburbanizzazione dei ceti medi, la generazione nata nell’agio
che sostituisce quella della guerra, l’iperindividualismo, il declino dei corpi
intermedi e della ‘great society’, il sorgere di nuovi miti come l’imprenditore
ed il manager) e la coalizione sociale che sostenne questa profonda mutazione
della visione della ‘vita buona’, fondamentalmente amorale (aristocratici liberali
dell’est, operai e minoranze frustrate del sud e del mid west, integralisti del
libero mercato, anticomunisti, leader religiosi, conservatori disgustati dal
femminismo). Questa strana coalizione, che non aveva nulla in comune, si è
aggregata quando Reagan ha offerto una visione comune fondata su quattro punti:
la vita buona è quella degli individui che contano su di sé; la priorità deve
essere data alla creazione di ricchezza; più il mercato è libero, più crescerà
a vantaggio di tutti; lo Stato è il problema in sé.
Questo assetto si è progressivamente radicalizzato,
fino a che l’impoverimento progressivo della classe media e la insostenibile e
scandalosa crescita delle ineguaglianze ha portato Trump.
A tutto questo i liberal hanno reagito perdendosi nella selva della politica
identitaria e covando una retorica della differenza risentita e divisiva, ammaliati
dai movimenti sociali che operano al di fuori delle istituzioni. L’uscita di
scena del tema della cittadinanza ha fatto spazio al passaggio dal “noi” all’”io”
(p.74). Ma la politica movimentista, il cui modello generale fu il movimento
per i diritti civili dei neri americani, e quindi quello femminista, e poi per
gli omosessuali, e via dicendo, è centrifuga, induce naturalmente a ridurre le
ambizioni. Si vuole al massimo cambiare il quartiere, non far fare una cosa,
fare un progetto specifico, concreto. L’ambientazione, dice Lilla, “è
perfettamente borghese, senza traccia di demos” (p.86).
Un esempio si trova nel “manifesto
del Collettivo Combahee River” (Barbara Smith, Demita Frazier, Audre Lorde,
ed altre) nel 1977 con la sua enfasi per la radicalità della identità e l’idea
che l’attività politica sia radicata nell’avere un significato autentico per l’individuo.
Un individualismo radicale che è incoraggiato dalla
società sin dalla fase degli studi, e che, anzi, “dà una patina intellettuale
all’individualismo radicale incorporato nella società”. Forse c’è un elemento
strutturale nella chiusa “negriana” (con tanto di esplicito riferimento ai
movimenti ed a quelli studenteschi, con la potenza moltitudinaria delle loro
identità ribelli) dell’interessante testo di Hauke Brunkhorst sulla costruzione
liberale dell’Unione Europea che abbiamo appena letto (cfr. Brunkhorst, “Il
doppio volto dell’Europa”, conclusioni).
Un individualismo che è inoltre incorporato e
incoraggiato dal “modello Facebook”,
che nasce precisamente in quegli ambienti, anche se in anni più recenti. Negli scontri
verbali che spesso si producono in esso, dominati dal “politicamente corretto”,
in effetti ogni incontro è sottilmente trasformato in una relazione di potere
nella quale “il vincitore sarà colui che ha invocato l’identità moralmente
superiore e ha espresso la massima indignazione nell’essere messo in
discussione” (p.94). E nel quale dunque l’identità determina tutto e non esiste
spazio per l’argomentazione (come sostiene anche Friedman) che viene sostituita
dal tabù. Da affermazioni che non sono ‘vere’ o ‘false’ ma, piuttosto ‘pure’ o ‘impure’.
Gli identitari di sinistra, che si sentono radicali, sono così diventato delle
maestrine puritane e ignorano ogni valutazione sul potere reale e la dinamica
di classe su la quale non hanno più strumenti per pensare.
Troppo spesso i movimenti che rappresentano il modello
sono peraltro composti da militanti “con tratti donchisciotteschi, la cui
auto-rappresentazione è definita dall’essere estranei ai compromessi e al di
sopra di ogni interesse particolare” (p.109), e che trattano tutto come diritto
invalicabile, senza spazi per il compromesso e quindi la politica.
La conclusione di Lilla è che questa sinistra non ha
alcuna visione politica da offrire al paese, e inoltre non può averla perché il
modo con il quale pensa lo impedisce.
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