Nel 2014 l’economista cattolico Luigino Bruni, di cui
abbiamo già letto, “Il
mercato e il dono. Gli spiriti del capitalismo”, scrive questo libro nel quale sviluppa una importante riflessione
sul lavoro, come dice “parola grande e quindi ambivalente”. La partenza è che
il lavoro è nella tradizione una chiamata
al rapporto di cura e custodia della terra, in un rapporto di reciprocità.
In Grecia e Roma, invece, il lavoro in quanto tale
entra in una zona di disprezzo e si instaura quindi una sorta di inimicizia tra
lavoro e vita buona, che è elettivamente
la vita intellettuale o contemplativa. Con qualche eccezione per alcune forme
di lavoro artigiano, e in Cicerone per il lavoro di insegnamento ed il
commercio, ma solo se in grande (cfr. De Officiis).
La vera valorizzazione del lavoro inizia nel medioevo,
ed in particolare con il monachesimo, quando ‘laborare’ diventa degno come ‘orare’.
I monasteri sono l’immenso vivaio nel quale rinascono le arti e i mestieri, ma
anche nel quale si sperimenta la democrazia, il voto per eleggere i priori, le
forme complesse dell’autogoverno. Vengono poste qui le premesse culturali per
la possibilità di cooperazione tra eguali (dato che i monaci sono tali,
formalmente anche quando sono nobili). In questo luogo, ricorda Bruni, e nei
lunghi secoli del medioevo cristiano, si mette a punto la razionalità organizzativa
occidentale e si mette a punto anche il lavoro organizzato e razionale, si
prepara per l’invenzione della ‘fabbrica’.
Certo, in questo contesto culturale non tutti i lavori
sono considerati, ad esempio quello dell’economo (il lavoro di Giuda) continua
a subire lo stigma della condanna morale del lucrum (si veda anche Jacques Le
Goff, “Lo
sterco del diavolo. Il denaro nel medioevo”). Saranno i francescani, e poi
gli illuministi, quindi Vico, Genovesi, e gli scozzesi a far passare l’idea che
la ricerca (prudente) del bene privato può produrre per vie inaspettate (la “mano
invisibile”), il bene comune.
Ma la grande lezione del monachesimo è anche in questa
relazione tra lavoro ed eguaglianza, quindi democrazia.
Invece il lavoro nella nostra condizione, di
capitalismo realizzato, vede al contrario il lavoratore come oggetto, come
risorsa o come capitale e vede l’attività del lavoro come tempo speso ed
asservito al consumo (al momento del “tempo libero”, quando si può vivere e
consumare). Ciò perde le dimensioni più importanti, perché il lavoro è essenzialmente
‘dono’ per Bruni, dono nella reciprocità. E il suo salario non ne determina
interamente il valore, ma è anche in qualche modo il ‘premio’ (per questo
concetto si veda Dragonetti, allievo di Genovesi nel libro prima
citato). Ovvero un controdono. Il lavoro è una relazione sociale tra due
parti, che si scambiano reciprocamente valore, riconoscendosi. Il salario per
questo, lo sa bene chi gestisce un’attività stabile e di successo, deve essere
percepito come ‘giusto’, deve implicare e produrre rispetto.
Quando avviene questo il posto stesso del lavoro
diventa un luogo dell’umano in cui si trova senso per la vita, e dove si viene
educati reciprocamente.
Qui nasce anche la differenza tra speculatori, che
puntano solo ad accrescere il denaro nel più breve tempo possibile, e
imprenditori, che creano. Come dice Bruni, con riferimento all’oggi: “un’impresa,
un sistema economico, una civiltà iniziano la loro decadenza quando il nesso
tra capitali e frutti si inverte e lo scopo dei capitali diventano i capitali”
(p.41). Per Bruni, che riprende David Ricardo e Achille Loria, il conflitto
fondamentale della società è dunque tra
redditieri e produttori. La rendita è un parassita economico perché alimenta
l’uso improduttivo della ricchezza, l’attività di mediazione (ad esempio quella
immobiliare) che crea solo differenziali fittizi di valore. Valore che
esiste solo fino a che i beni sono liquidi e conservano l’illusione di
detenerlo (per un’analisi tecnica con strumenti kenesyani si legga Massimo
Amato e Luca Fantacci “Fine
della finanza”, con strumenti marxiani Robert Kurz “le
crepe del capitalismo”).
Ma c’è altro. Il lavoro, quando implica adesione ed amore, quando
è dono ricambiato, crea anche competenza e ne produce. La competenza ha potenti
effetti sull’identità, ma richiede tempo, e deve essere coltivata secondo la
propria vocazione. Qui c’è ancora una gravissima deformazione del nostro mondo
del lavoro, dove le persone, i giovani in particolare, sono spremuti, non sono
accolti e non sono rispettati. Non sono aspettati. Non riescono quindi a
trovare senso in quel che fanno.
E c’è una deformazione della funzione del mercato, che
potrebbe ottenere che le attività utili vengano create in modo libero e con
dignità, ma è invece il luogo della irrazionalità e dello spreco (in primis
delle vite dei lavoratori).
Molti altri temi sono trattati nel libro, come il ‘merito’,
virtù complessa per la quale Bruni ricorre alla lettura del filosofo ottocentesco
Romagnosi, molto apprezzato da Pisacane nel suo “La
rivoluzione”, i colloqui nelle aziende ed altri temi minori in una sorta di
larga esplorazione per episodi della vasta fenomenologia del lavoro e delle
imprese contemporanee.
Ciò che ci serve alla fine per Bruni è soprattutto il
recupero di un’etica del lavoro ben fatto,
per se stesso (un tema per il quale ricorre alle belle pagine di “Denaro”
di Charles Péguy, e per il quale si può ricordare le pagine di Sennett in “L’uomo
artigiano”).
Nella conclusione Luigino Bruni propone di ripensare
il nostro modo di vivere, oltre l’eccessivo schiacciamento sul capitalismo
nordico ed anglosassone (per contrastare il quale valorizza la grande tradizione
del pensiero umanistico ed economico della scuola italiana, in particolare
sette-ottocentesca), ripartendo dal meridione, dal sud (p. 149). Partendo proprio
dal riconoscimento del talento civile, dello spirito di un paese che deve ritrovare
l’orgoglio e la speranza civile nei segni presenti nel suo passato e nel suo
oggi.
Non bisogna, quindi, “sognare Germania o USA, ma
creare nuova ricchezza dai nostri antichi capitali, di cui la natura e il genio
dei nostri padri e madri ci hanno dotato in quantità e qualità straordinari”
(p.152).
Non potrei essere più d’accordo.
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