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venerdì 24 agosto 2018

Luigino Bruni, “Fondati sul lavoro”



Nel 2014 l’economista cattolico Luigino Bruni, di cui abbiamo già letto, “Il mercato e il dono. Gli spiriti del capitalismo”, scrive questo libro nel quale sviluppa una importante riflessione sul lavoro, come dice “parola grande e quindi ambivalente”. La partenza è che il lavoro è nella tradizione una chiamata al rapporto di cura e custodia della terra, in un rapporto di reciprocità.



In Grecia e Roma, invece, il lavoro in quanto tale entra in una zona di disprezzo e si instaura quindi una sorta di inimicizia tra lavoro e vita buona, che è elettivamente la vita intellettuale o contemplativa. Con qualche eccezione per alcune forme di lavoro artigiano, e in Cicerone per il lavoro di insegnamento ed il commercio, ma solo se in grande (cfr. De Officiis).
La vera valorizzazione del lavoro inizia nel medioevo, ed in particolare con il monachesimo, quando ‘laborare’ diventa degno come ‘orare’. I monasteri sono l’immenso vivaio nel quale rinascono le arti e i mestieri, ma anche nel quale si sperimenta la democrazia, il voto per eleggere i priori, le forme complesse dell’autogoverno. Vengono poste qui le premesse culturali per la possibilità di cooperazione tra eguali (dato che i monaci sono tali, formalmente anche quando sono nobili). In questo luogo, ricorda Bruni, e nei lunghi secoli del medioevo cristiano, si mette a punto la razionalità organizzativa occidentale e si mette a punto anche il lavoro organizzato e razionale, si prepara per l’invenzione della ‘fabbrica’.
Certo, in questo contesto culturale non tutti i lavori sono considerati, ad esempio quello dell’economo (il lavoro di Giuda) continua a subire lo stigma della condanna morale del lucrum (si veda anche Jacques Le Goff, “Lo sterco del diavolo. Il denaro nel medioevo”). Saranno i francescani, e poi gli illuministi, quindi Vico, Genovesi, e gli scozzesi a far passare l’idea che la ricerca (prudente) del bene privato può produrre per vie inaspettate (la “mano invisibile”), il bene comune.

Ma la grande lezione del monachesimo è anche in questa relazione tra lavoro ed eguaglianza, quindi democrazia.

Invece il lavoro nella nostra condizione, di capitalismo realizzato, vede al contrario il lavoratore come oggetto, come risorsa o come capitale e vede l’attività del lavoro come tempo speso ed asservito al consumo (al momento del “tempo libero”, quando si può vivere e consumare). Ciò perde le dimensioni più importanti, perché il lavoro è essenzialmente ‘dono’ per Bruni, dono nella reciprocità. E il suo salario non ne determina interamente il valore, ma è anche in qualche modo il ‘premio’ (per questo concetto si veda Dragonetti, allievo di Genovesi nel libro prima citato). Ovvero un controdono. Il lavoro è una relazione sociale tra due parti, che si scambiano reciprocamente valore, riconoscendosi. Il salario per questo, lo sa bene chi gestisce un’attività stabile e di successo, deve essere percepito come ‘giusto’, deve implicare e produrre rispetto.
Quando avviene questo il posto stesso del lavoro diventa un luogo dell’umano in cui si trova senso per la vita, e dove si viene educati reciprocamente.

Qui nasce anche la differenza tra speculatori, che puntano solo ad accrescere il denaro nel più breve tempo possibile, e imprenditori, che creano. Come dice Bruni, con riferimento all’oggi: “un’impresa, un sistema economico, una civiltà iniziano la loro decadenza quando il nesso tra capitali e frutti si inverte e lo scopo dei capitali diventano i capitali” (p.41). Per Bruni, che riprende David Ricardo e Achille Loria, il conflitto fondamentale della società è dunque tra redditieri e produttori. La rendita è un parassita economico perché alimenta l’uso improduttivo della ricchezza, l’attività di mediazione (ad esempio quella immobiliare) che crea solo differenziali fittizi di valore. Valore che esiste solo fino a che i beni sono liquidi e conservano l’illusione di detenerlo (per un’analisi tecnica con strumenti kenesyani si legga Massimo Amato e Luca Fantacci “Fine della finanza”, con strumenti marxiani Robert Kurz “le crepe del capitalismo”).

Ma c’è altro. Il lavoro, quando implica adesione ed amore, quando è dono ricambiato, crea anche competenza e ne produce. La competenza ha potenti effetti sull’identità, ma richiede tempo, e deve essere coltivata secondo la propria vocazione. Qui c’è ancora una gravissima deformazione del nostro mondo del lavoro, dove le persone, i giovani in particolare, sono spremuti, non sono accolti e non sono rispettati. Non sono aspettati. Non riescono quindi a trovare senso in quel che fanno.
E c’è una deformazione della funzione del mercato, che potrebbe ottenere che le attività utili vengano create in modo libero e con dignità, ma è invece il luogo della irrazionalità e dello spreco (in primis delle vite dei lavoratori).

Molti altri temi sono trattati nel libro, come il ‘merito’, virtù complessa per la quale Bruni ricorre alla lettura del filosofo ottocentesco Romagnosi, molto apprezzato da Pisacane nel suo “La rivoluzione”, i colloqui nelle aziende ed altri temi minori in una sorta di larga esplorazione per episodi della vasta fenomenologia del lavoro e delle imprese contemporanee.

Ciò che ci serve alla fine per Bruni è soprattutto il recupero di un’etica del lavoro ben fatto, per se stesso (un tema per il quale ricorre alle belle pagine di “Denaro” di Charles Péguy, e per il quale si può ricordare le pagine di Sennett in “L’uomo artigiano”).

Nella conclusione Luigino Bruni propone di ripensare il nostro modo di vivere, oltre l’eccessivo schiacciamento sul capitalismo nordico ed anglosassone (per contrastare il quale valorizza la grande tradizione del pensiero umanistico ed economico della scuola italiana, in particolare sette-ottocentesca), ripartendo dal meridione, dal sud (p. 149). Partendo proprio dal riconoscimento del talento civile, dello spirito di un paese che deve ritrovare l’orgoglio e la speranza civile nei segni presenti nel suo passato e nel suo oggi.
Non bisogna, quindi, “sognare Germania o USA, ma creare nuova ricchezza dai nostri antichi capitali, di cui la natura e il genio dei nostri padri e madri ci hanno dotato in quantità e qualità straordinari” (p.152).

Non potrei essere più d’accordo.

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