Su La Repubblica
di oggi il vero padre dell’attuale governo, il progettista della disfatta del
centrosinistra italiano e coerente acceleratore della resa al liberismo della
cultura ex socialista italiana, ha scritto un lungo articolo
che spiega bene le ragioni razionali del successo giallo-verde (ragioni che ho
cercato attraverso le parole chiave “onestà”,
“integrità”,
“sicurezza”).
Partiamo da cosa è la “sinistra per come la intendo”, veltroniana: un movimento
che ha lottato contro lo schiavismo (nell’ottocento, suppongo, anche se Lincoln
era Repubblicano e i Democratici all’epoca erano dall’altra
parte, ma fa niente), per la “liberazione delle donne”, e “contro l’alienazione
e lo sfruttamento, per i diritti civili e umani, contro le discriminazioni”.
Del resto lui stesso si definisce come un uomo che “ha dedicato tutta la sua
vita a ideali di democrazia e progresso”.
Cosa c’è e cosa manca in queste rispettabili
definizioni? Ci sono tanti bei valori e
condivisibili, manca il sociale, l’emancipazione collettiva, e
l’ispirazione socialista. L’intero orizzonte valoriale è ristretto
all’individuale. Mark Lilla, che insegna storia alla Columbia, in “L’identità
non è di sinistra” individua la “politica identitaria”, nella
quale la sinistra americana (ed europea), cara a Walter, si è rifugiata negli
ultimi decenni come un necessario sostituto del marxismo caratterizzato da due
movimenti simmetrici: la riduzione dello sguardo sul mondo e abbandono della
visione complessiva e il rifugio in una posizione di “autorispecchiamento
morale”. Si tratta di una posizione coerentemente individualista, che parte
dall’accettazione della struttura del mondo e, sin dagli anni sessanta, cerca
di sostituire la critica di questa con un sostituto funzionale in grado di
sostituirne l’effetto mobilitante: le battaglie sui diritti civili (le donne,
le minoranze, i neri, gli omosessuali). Nel compiere questo movimento però ogni
interesse per l’economia e la politica estera è scomparso, insieme agli schemi
interpretativi che consentivano di leggerle, ed ogni cosa ha cominciato a
ruotare intorno ad i “dannati della terra”
di turno, i deboli e discriminati purché per ragioni riconducibili a ragioni
identitarie, etniche o di genere. Nel frattempo succede una cosa del tutto
ovvia, e parallela: i “subalterni”, i
vecchi lavoratori, o i disoccupati e sottoccupati, creati dalla macchina
produttiva del capitalismo, rimasta senza alternative nella mente della
sinistra, sono stati ignorati ed hanno cominciato a votare a destra.
Cosa dirà, infatti, Veltroni della situazione sociale?
Dirà che “in questi ultimi anni è andata avanti una gigantesca riorganizzazione
della intera struttura sociale. Qualcosa
di paragonabile agli effetti della rivoluzione industriale. Il lavoro ha
cambiato natura, facendosi aleatorio e precario. E se la macchina a vapore ha creato l'industria moderna e con essa le
classi sociali e le città, così la
nuova rivoluzione tecnologica, ancora agli inizi, finisce con il sostituire
tendenzialmente l'uomo con la macchina e con il mutare tutti i codici cognitivi
e comunicativi. La società è segnata da una sensazione di precarietà che la
domina, che ne mina la fiducia sociale nel futuro. Non si può pensare che un
tempo in cui le famiglie italiane hanno perso undici punti di reddito rispetto
alla fase precrisi, in cui la differenza tra ricchi e poveri è aumentata, non
sia carico di un drammatico disagio”.
Insomma, si tratta di natura, la natura del progresso. Non a caso Walter identifica se stesso
come dedito al progresso (ed alla
democrazia). L’unica cosa che sa dire dell’enorme crescita della ineguaglianza
e della precarietà, che disgrega e distrugge la società e determina gli effetti
politici che vede e teme, è che in fondo è inevitabile. È proprio così? In effetti su questo tema che il nostro presenta,
come altri, come fosse un fatto c’è un vasto
dibattito. Lo studioso di Harvard Yochai Benkler in una serie di recenti
interventi propone di identificare su questo dibattito un passaggio di
confine tra posizioni di destra e sinistra: da una parte c’è chi vede la
tecnologia, in particolare l’automazione, destinata a spiazzare l’attuale
distribuzione del lavoro, ma naturalmente ed in ultima analisi per il meglio in
quanto spinta al progresso ed alla modernità; dall’altra quella la tecnologia sostanzialmente
non rilevante, perché ciò che conta è il potere. La prima è di destra, ne sono
espressione ad esempio autori come David Autor; la seconda di
sinistra ed uno degli autori più rilevanti è Larry
Mishel.
Più in dettaglio, da una parte per alcuni i mercati
sono in grado di allocare efficientemente le risorse e premiare ognuno per il
suo contributo ed in questo quadro la tecnologia è la variabile primaria, il
motore di tutto ed in particolare delle distribuzioni (per cui se alcuni
ricevono poco è per effetto della tecnologia che spiazza le loro competenze);
la tesi opposta, critica, la vede come subordinata ed in ultima analisi
irrilevante, in quanto è il rapporto di forza politico che modella le
distribuzioni (se alcuni ricevono poco è perché non riescono a farsi valere
collettivamente). Chi sostiene la prima tesi, anche implicitamente, vede
nell’automazione, nei robot, nell’economia delle piattaforme il fattore
dominante dei rapporti sociali e insieme lo vede come uno sviluppo in qualche
modo naturale, comunque come progresso da non arrestare, che si risolverà da sé;
casomai da ribilanciare, risarcendo i perdenti (come è scritto in ogni manuale di
economia). L’idea è che “i robot spiazzeranno tutti i posti di lavoro”
(attuali), ma ciò sarà per il meglio.
Insomma, è un vasto e non chiuso dibattito, ma il
nostro si colloca senza alcuna esitazione dalla parte della destra culturale.
Si capisce comunque che c’è un “drammatico disagio”,
ma sul meccanismo causale che lo provoca Veltroni non ha nulla da dire, è fuori
dell’orizzonte della politica per come la concepisce il nostro. La politica,
del resto, “è percezione”, persino
quando determina i più grandi e tragici eventi del novecento. All’avvio, con
una improvvida e fuori contesto citazione di un autore certamente non amico del
veltronismo come Luciano Gallino, il nostro eroe della democrazia dirà,
infatti, che si diventa nazisti per una percezione sociale, ovvero, sembra di
capire, perché gradualmente certi sentimenti vengono socialmente liberati dallo
stigma. La distruzione della democrazia, dice il Gallino ridotto a
propagandista liberal da Veltroni, viene da dentro di noi, nel “perenne
conflitto, che è ad un tempo sociale e psichico, tra bisogno di sicurezza e
desiderio di libertà”. Non ho modo di controllare il contesto della citazione,
ma dubito che il senso difeso dal sociologo socialista sia stato quello inteso
dal liberal contemporaneo. Ovvero che tra ricerca di sicurezza sociale (che contrasta nella sua versione edulcorata di
filosofia della storia con il progresso inevitabile) e libertà (ovvero in fondo democrazia, come chiarirà nel seguito) ci
sia un conflitto perenne.
Certo, se per ‘libertà’ si intende solo la cosiddetta
‘libertà
negativa’ difesa da tanti filosofi liberisti, allora con i meccanismi di
protezione e redistribuzione necessari per rendere effettiva la ‘libertà
positiva’ c’è contrasto. Ma se per ‘libertà’ si intende la capacità effettiva
di promuovere la vita buona e la dignità, disponendo delle necessarie risorse e
godendo della protezione dall’esercizio della ‘libertà’ dei più forti, allora
non c’è alcun conflitto. Tra sicurezza sociale e libertà c’è un necessario nesso
interno.
Il resto dell’articolo sottopone la solita favoletta
morale: coloro i quali non riescono a sopportare la durezza della vita, e
quindi ricorrono alla fuga dalla ragione, ‘percependo’ un bisogno di protezione
ragionevole ma infantile, si rifugiano in politiche illusorie e dannose, come i
‘dazi’, la fuga dalla globalizzazione, l’orizzontalità della democrazia. Sono tutte
illusioni perché il determinismo economico e il culto del progresso,
naturalmente portato dalla tecnica, passano per una politica, quella dei dazi,
che “è sempre stata la premessa per
conflitti sanguinosi” (peccato che le protezioni alle frontiere, di varia
natura, siano la costante storica di più lungo periodo, e l’apertura
relativamente totale l’eccezione dovuta senza alcuna eccezione a brevi periodi
di dominio imperiale di qualche superpotenza sul resto del mondo), per il rifiuto della ‘globalizzazione’, “che è
un fenomeno oggettivo” (peccato sia un’eccezione storica, e sia in via di
ripiego non a caso insieme all’egemonia statunitense ed a causa della riduzione
di questa), per la chiusura al progetto
europeo, che da Spinelli
in poi è sinonimo di pace (peccato che la pace sia causata dall’impero, e non
certo dalla volontà di non confliggere dei semicoloniali stati europei a
sovranità limitata, che anzi non fanno altro con gli strumenti che gli restano).
A ben vedere c’è una coerenza molto profonda in questo
scegliere, senza alcuna esitazione, tutti i miti della destra statunitense e l’approvazione
di quel galantuomo di uno dei suoi maggiori campioni: il John McCain che,
certo, ha combattuto fino all’ultimo, ma per l’imperialismo universalista
americano (a costo di bombardare chiunque e di allearsi con i peggiori nemici).
Ma, indubbiamente, chi sposa il “sovranismo” (ovvero la sovranità popolare) è nemico della ‘società
globale’ (nella pratica del dominio per il quale il nostro eroe ha sempre
combattuto), ed è per una ‘società chiusa’ (la distinzione dovrebbe risalire a
quel campione della sinistra che fu il compianto Karl Popper, membro della Mont
Pelerin Society con Hayek, Von Mises e Milton Friedman).
Resta da dire che l’orizzontalismo della reazione
populista (ovvero il discredito, ben meritato, per i Partiti tradizionali e per
i loro propagandisti e corifei) comporta per Veltroni una delega leaderistica
(critica non infondata) e per questo l’unica soluzione è continuare con la ‘democrazia
decidente’. Ovvero con il progetto che si è schiantato contro il referendum
costituzionale. Anche qui una coerenza.
Si può concludere: questa ‘sinistra’ liberale di stampo
borghese (come nella versione
di Calenda) è la causa della “Scomparsa
della sinistra in Europa”, come scrivono Aldo Barba e Massimo Pivetti. Ovvero
è decisamente la causa della deriva verso il populismo di destra che sta
investendo l’intero occidente, per combattere il quale non serve una maggiore
dose del veleno che lo ha provocato, ma il farmaco del socialismo.
E’ parte del problema e non certo della soluzione; è “Il
nostro comune nemico”.
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