Controversie: “Patria e
Costituzione”, un progetto per una sinistra di popolo
Il prossimo 8 settembre
a Roma, alla Sala della Promoteca, dalle 10.30 per chi volesse esserci un
nutrito gruppo di intellettuali e attivisti propone l’avvio di un’associazione
politica il cui provocatorio nome è: “Patria
e Costituzione”. Ci sarà un intervento in video di Sahra Wagenknecht e
relazioni di D’Attorre, Santomassimo, Giacchè, D’Antoni, Preterossi, introdurrà
Fassina. Non solo per la presenza della Wagenknecht la cosa può ricordare la
parallela, anche nei tempi, operazione che una componente della Linke tedesca
sta tentando con “Aufstehen”,
come alcuni toni della posizione neo-giacobina di “La France insoumise”.
Per facilitare la
lettura di un testo che forse è più complesso del necessario proverò prima a
riassumerne il contenuto, procederò: 1) a chiarire in via preliminare il senso
nel quale propongo di leggere il nome
dell’Associazione e 2) quella che penso sia l’urgenza
alla quale risponde, e la direzione nella quale ricercare la risposta alla
necessità di costruire un ‘popolo’ che faccia da referente al progetto.
Compiuta questa
necessaria premessa e delimitazione di campo procederò 3) a rispondere alla
prima obiezione avanzata da Fausto Anderlini, ovvero al timore di scivolamento nel ben noto ‘patriottismo nazionalista’ con
la conseguenza, da parte sua, della necessità di rinnovare la fiducia, di ultima
istanza, nella logica progressiva intrinseca del progetto europeo. Per comprenderla meglio
diventa però necessario 4) fare cenno allo sfondo
culturale, teorico e politico nel quale si radicano le riprese neo-kantiane
della teoria morale tra gli anni settanta e novanta, alle quali si ancorano le
prese di fiducia nella funzione progressiva incorporata nel processo europeo che
rappresenta il vero punto profondo di
divergenza tra le posizioni. L'idea che vorrei proporre è che in questa fase, revocato il compromesso che faceva da presupposto tacito alla svolta neo-kantiana, occorre fare affidamento sulla lotta di classe che va riletta piuttosto con strumenti hegeliani, e che necessita di luoghi concreti di riconoscimento.
Accennato a questo sfondo, per procedere al chiarimento
della posizione a questo punto 5) occorre compiere una breve ricostruzione del progetto europeo ‘realmente
esistente’, a contrasto con l’ipotesi che lo vede malgrado tutto come un avanzamento
normativo. Quale conclusione intermedia parziale dichiareremo
quindi 6) che il progetto europeo si lascia interpretare in modo più coerente ai
fatti come neutralizzazione democratica
ben riuscita. A questo punto resta 7) da individuare quale sia il luogo più
credibile e coerente nel quale ci siano le maggiori probabilità di riattivare
una necessaria lotta di classe.
Passando ad un secondo punto di discussione 8) il testo di lancio dell’Associazione individua nella svolta libertaria di una parte del movimento del ’68 un fattore di facilitazione di questo orientamento rivolto al depotenziamento dei luoghi reali di espressione della lotta di classe nell’arena nazionale. Per comprenderlo meglio introdurrò a questo punto la riflessione sul socialismo libertario di Foa e Trentin 9) che può essere declinato a diversi livelli di radicalità ma tiene insieme la spinta all’emancipazione, sempre necessariamente orientata in senso intersoggettivo e quindi collettivo, e la salvaguardia della libertà. Lo scopo di questa sezione è di dimostrare che la prospettiva che qui si difende non è necessariamente insensibile alle ragioni del socialismo libertario e non vuole collocarsi rispetto alla frattura, indicata da Trentin e Foa (ma anche da Sennett, per dire) tra socialismo statalista e libertario. Ciò che si vuole criticare del '68 è la sussunzione nell'individualismo libertario del liberismo, non la spinta antiautoritaria in sé.
A questo punto 10) si può provare a trarre qualche conclusione sul ‘che fare’ del progetto europeo e le condizioni necessarie.
La conclusione 11) è che “Patria” deve stare insieme a “Costituzione” come condizione per riscoprire un ben fondato orgoglio di sé a partire dal quale trovare la forza per rilegittimare l’indispensabile riattivazione delle funzioni essenziali dello Stato nazionale in direzione della giustizia sociale, la dignità del lavoro che ne è precondizione, il rispetto dell’uomo e della natura.
1-
Il Nome
Nel nome dell’associazione
palesemente “Patria e Costituzione”
sono due termini che si illuminano reciprocamente, nel quale quindi il secondo
dà il senso nel quale si propone il primo. La mia idea è che insieme chiamano a
riconoscere che ci unisce un progetto
che ha tratti universalisti, ma anche caratteristiche nostre proprie. Come
ricorda il
post di Fassina che inquadra l’iniziativa, l’8 settembre di
settantacinque anni fa terminava la guerra che l'Italia fascista aveva
proclamato imprudentemente contro le liberaldemocrazie e contro il mondo
socialista e quindi si avviava quell'Italia che univa le sue molteplici
tradizioni, il risorgimento, la cultura classica e la realtà delle sue molte
vocazioni territoriali, alla volontà di progettare insieme un futuro di pace e
libertà socialmente responsabile. Un progetto, quindi, che unisce e non divide,
nel quale nessuno può considerarsi solo, nel quale la politica democratica
trova il suo spazio e prevale sulla lotta di tutti contro tutti e sull'economico
imperiale dei nostri tempi; un progetto nel quale, infine, il ‘popolo’ si definisce e costituisce (lontano dall’essere trovato
da un sapere esperto perché già esistente, in qualche mitica unità organica, o ascoltato da un intermediario che
se ne fa sacerdote, fosse anche la 'rete'). Detto in altro modo, solo la dinamica politica, che si nutre di discorsi politici in arene concrete e istituzioni di vario genere, definisce e costituisce un popolo (che, a rigore, non è quindi mai uno solo).
2-
L’urgenza, costruire il
referente
Partendo dalla evidente
modifica dello schema d’ordine che muta in questo avvio di millennio dalla
coppia progresso/reazione,
otto-noventesca, a quella establishment/popolo
che oggi prevale (a partire dal suo avvio con i movimenti ‘no global’) propongo quindi
di considerare in questa ‘fase di interregno’ (nella quale la ‘forma populista’
si afferma confondendo la nostra percezione mentre i vecchi ordini si
dissolvono), che la vera questione centrale è come si costruisce il ‘popolo’ e cosa si nomina con questa parola in sé vuota. Propongo inoltre che il modo più
promettente sia pensarlo a partire dalla radicale rimessa in questione della
riduzione dell’uomo alla Ragione e questa a ciò che può essere colto dal
discorso scientifico (linea screditata dalla tragedia del novecento e che
conduce nella sua logica deduttiva a presumere la necessità di un governo dall’altro
dei tecnici o della tecnica). L’uomo è, infatti, un animale vuoto che si fa
attraverso il rapporto con il mondo e con gli altri intorno a sé, quindi attraverso
il linguaggio e l’interazione ben riuscita (ciò a cui penso è la tradizione
interpretativa che risale a Durkheim, si consolida con Mauss
e si può leggere anche attraverso Sahlins).
Bisogna in questo ritornare a leggere Hegel, dove, reagendo all’avvio della
rivoluzione industriale, questi inquadra per primo la paradossale perdita di
libertà soggettiva che derivava da uno smisurato accrescimento del
particolarismo individuale. L’eccesso patologico creato da una sfera nella
quale i cittadini finiscono per relazionarsi gli uni agli altri solo per il
tramite freddo del collante giuridico crea per il filosofo uno scambio tra l’emancipazione dei
singoli e l’atomizzazione della collettività. Come scrive Honneth “l’individuo
che la società borghese ha investito delle prerogative astratte di una persona
giuridica gode indubbiamente di libertà soggettive prima inconcepibili, ma la
determinazione puramente negativa di quelle libertà non è più in grado di
instaurare alcun legame sociale non riducibile a orientamenti puramente
strumentali” (Axel Honneth, “La libertà negli altri”,
p.50).
Avanzeremo ora una linea di critica, necessariamente solo per abbozzo, della posizione neo-kantiana che riconduce al formalismo ed al proceduralismo di una ragione incorporata nella Storia e incarnata nel progetto europeo il progresso, ora che la prospettiva della lotta di classe è giudicata non più disponibile. Muovendo dal piano più astratto bisogna compiere due spostamenti: da una parte bisogna mettere in
questione la semplice equazione tra progresso e crescita lineare della
conoscenza (scientifica) e quantitativa (delle merci e della stessa macchina
tecnoscientifica nella sua capacità di manipolare il mondo come oggetto), per cui il semplice fatto dell'efficienza economica (presunta) non implica alcuna presunzione di progresso; dall'altra bisogna uscire dalla metafisica del soggetto, comprendendo la ragione umana e quindi anche il progresso come opera di carattere intersoggettivo. Se si compiono queste due mosse si comprende che è vero progresso solo la
crescita delle dotazioni umane e delle capacità sociali e che queste sono sempre necessariamente situate. La
stessa costruzione del ‘popolo’ appare, in questa prospettiva, come progetto
politico e culturale ad un tempo, che può
procedere solo dal concreto e che riesca a disimplicarvi le condizioni
materiali (‘oggettive’ direbbe Hegel) per “essere
l’uno-per-l’altro” come forma privilegiata dell’ordine sociale.
La stessa libertà (che appunto chiama "oggettiva") individuale, lungi dall'essere espressa in forma ideale dalle due forme 'negativa' e 'positiva', si forma solo entro un processo concreto, del quale le forme giuridiche e le strutture di riconoscimento implicate nei dispositivi sistemici (come il mercato, ad esempio) sono condizione insufficiente, di natura cooperativa e concreta ad un tempo. Gli obiettivi che intendiamo darci possono scaturire, se veramente liberi, solo dall'intreccio dei contributi dei soggetti di interazione. Si tratta di quella forma di libertà che Honneth, sulla scorta di una rilettura di Hegel e della tradizione francofortese ad un tempo, legge come "sociale".
Ciò significa anche legare “Patria e Costituzione” in un progetto di rimando reciproco che, se necessario, faccia recedere la specializzazione funzionale (ad esempio alcuni generi di integrazione creanti subalternità e distribuzione ineguale ed inefficiente delle risorse, nell’arena europea) e riesca a mettere in comunicazione intorno al principio democratico (e non a quello liberale) i sottosistemi legale-formale, del mercato e quelli dei rapporti personali (cfr. Axel Honneth, “Il diritto della libertà”). In altre parole, nessuno può essere libero ed eguale se questa condizione non scaturisce da relazioni sociali che abilitino l’autorealizzazione, ovvero l’autonomia. Ma questo termine non ha alcun significato se non trova le sue condizioni nella realtà effettuale (se non è “oggettiva”); se le libertà cioè non si rispecchiano le une nelle altre: questa è la Patria resa possibile dalla Costituzione.
La stessa libertà (che appunto chiama "oggettiva") individuale, lungi dall'essere espressa in forma ideale dalle due forme 'negativa' e 'positiva', si forma solo entro un processo concreto, del quale le forme giuridiche e le strutture di riconoscimento implicate nei dispositivi sistemici (come il mercato, ad esempio) sono condizione insufficiente, di natura cooperativa e concreta ad un tempo. Gli obiettivi che intendiamo darci possono scaturire, se veramente liberi, solo dall'intreccio dei contributi dei soggetti di interazione. Si tratta di quella forma di libertà che Honneth, sulla scorta di una rilettura di Hegel e della tradizione francofortese ad un tempo, legge come "sociale".
Ciò significa anche legare “Patria e Costituzione” in un progetto di rimando reciproco che, se necessario, faccia recedere la specializzazione funzionale (ad esempio alcuni generi di integrazione creanti subalternità e distribuzione ineguale ed inefficiente delle risorse, nell’arena europea) e riesca a mettere in comunicazione intorno al principio democratico (e non a quello liberale) i sottosistemi legale-formale, del mercato e quelli dei rapporti personali (cfr. Axel Honneth, “Il diritto della libertà”). In altre parole, nessuno può essere libero ed eguale se questa condizione non scaturisce da relazioni sociali che abilitino l’autorealizzazione, ovvero l’autonomia. Ma questo termine non ha alcun significato se non trova le sue condizioni nella realtà effettuale (se non è “oggettiva”); se le libertà cioè non si rispecchiano le une nelle altre: questa è la Patria resa possibile dalla Costituzione.
Qui si pone subito un
difficile problema: Nadia Urbinati in un post
che riprende uno di Fausto Anderlini, di cui parleremo dopo, individua nel testo
la volontà di parte di “escludere dalla cerchia della Patria”, e quindi del ‘popolo’,
in nome della quale, ricorda, tutti hanno “detto e fatto” (da Condorcet a
Robespierre, da Mazzini a Cattaneo, da D’Azeglio a Pisacane, incluso, sostiene,
Toni Negri e il ’68), alcune parti che non corrispondono a ciò che si
preferisce. Si tratterebbe, per la politologa della Columbia, di una
“appropriazione particolaristica” molto simile a quella che viene compiuta dai
sovranisti di destra. Insomma, attira la
Patria nella battaglia ideologica rischiando di dissipare l’unica
“grammatica comune” e trasformando con ciò gli avversari politici in nemici
totali. Ma la chiusa del breve intervento indica la direzione che credo sia più
promettente: “lasciare che la Patria sia
il valore della Costituzione”.
Una formula in parte
oscura. Provo a comprenderlo così, la Patria in sé viene prima della politica, nel senso che ha a che fare in qualche modo
con la socializzazione primaria, con la famiglia nella quale capita di nascere
e di crescere, e che si può anche rinnegare o abbandonare ma resta comunque
tale. Ma in questa famiglia, in ognuna, sono presenti cose diversissime e ci
sono anche persone che non si sopportano.
La formula di Urbinati
“lasciare che la Patria sia il valore
della Costituzione” connette appunto Patria e Costituzione scegliendo di attribuire valore a quello che il
testo chiama “l’impianto etico, politico e programmatico scolpito, attraverso
l’Assemblea Costituente, nella nostra Costituzione”.
Mi pare che questo sia in
linea al migliore spirito dell’iniziativa che si discute, l’associazione non ha
infatti nome “Patria e Italiani”, che
avrebbe avuto insieme un sapore sostanzialistico e un carattere prepolitico, ma
ha nome “Patria e Costituzione”, dove
il secondo e qualificante termine ha natura eminentemente politica, anche se
includente. Del resto leggendo il testo, già dalla prima frase c’è una scelta
di campo che rischia di ricadere entro l’avvertenza di Urbinati: la distinzione
tra i “liberal-conservatori” che videro nella frattura della guerra, levatrice
dell’Italia repubblicana la “morte della Patria” e i costituenti (con le
diverse culture politiche) che vi videro al contrario la “rinascita”. Ma sfugge
a tale obiezione, in quanto con questo esempio storico, dunque senza nominare
nulla di attuale, credo si intenda segnare specificamente la distinzione tra
una comunità nazionale prepolitica fatta di “segni storici, culturali e
linguistici” e una comunità politica di cui si propone come centro la
Costituzione.
Alla luce della prima
distinzione, dunque, l’associazione, a ben vedere, non è sulla “Patria” (in quanto indisponibile alle parti, ed unità
culturale), tanto meno sugli italiani
come popolo storico, ma sulla
“Costituzione”, proposta come centro politico della Nazione.
La Costituzione
definisce e chiama ad una unità di
progetto in grado di orientare nella fase populista che viviamo la
costruzione del ‘popolo’ da contrapporre all’establishment. Questa, riletta
nell’associazione alla Patria, sollecita infatti il valore del senso di
appartenenza ad una comunità nazionale che fu il fattore propulsivo della lotta
per liberarsi da oppressioni esterne (i tedeschi che occupavano la parte
centro-nord del paese) e interne (il fascismo), e riguadagnare la capacità di
autodeterminazione. Capacità sin dall’inizio e per tutte le componenti del
quadro costituzionale, declinate come potenziamento della democrazia nella
cooperazione internazionale.
3-
La questione della
democrazia e il progetto europeo
La lettura che fa
Fausto Anderlini, in un suo lungo post,
è che sarebbero invece qui poste in linea gerarchica “Patria”, “Nazione” e
“Stato” e infine “Democrazia”, e quindi si ricada nel ben noto patriottismo nazionalista (ovvero nello
schema della “morte della Patria”). Si tratta di un timore praticamente
pavloviano molto diffuso. La rete è piena di assimilazioni dirette del termine
“Patria” al fascismo. Ma si tratta di una forzatura e misinterpretazione, oltre
che della cessione alla destra di un termine che deve essere patrimonio di
tutti e con essa di un’arma nella lotta delle parole di enorme potenza nelle
circostanze del rischio esistenziale (che si sta avvicinando e si prepara).
Anderlini sostiene di condividere il richiamo, altrove spesso mobilitato al “Patriottismo
Costituzionale” nella tradizione propria della costituzione
liberale e sociale del ’47-48. Ma sostiene che questo, rettamente inteso,
implichi non solo la fondazione democratica, ma anche il superamento della
“Patria” come sostanza data in favore
di un “Patriottismo, per come avanza nel contesto storico europeo, [che] non è
a se stante, non consta nell’identificazione con la Patria e men che meno con
la nazione”. La divergenza è reale e netta, ma non sta esattamente dove indica
Anderlini, non è in realtà nella democrazia, affonda le sue radici nelle distinzioni avanzate al punto 2.
O meglio è in diverse
visioni del progresso e del corso del processo materiale europeo. Il sociologo
e giurista tedesco Hauke Brunkhorst, nel suo “Il
doppio volto dell’Europa” propone di considerare il progetto
europeo, di cui ricostruisce in modo molto interessante l’intera parabola, come
uno scontro durato settanta anni tra una ispirazione kantiana (il kantian constitutional mindset, KCM) ed
una spinta all’integrazione funzionale diretta dal mercato, ma anche dalla
logica delle tecnostrutture e dei sistemi funzionalmente specializzati (il managerial mindset, MM). Uno scontro tra
capitalismo e democrazia, dunque, che propone di vedere hegelianamente come una
dialettica (dunque sulla linea della storia e del progresso in termini di
apprendimento). Con una mossa molto simile a quella di Anderlini (che si ispira
abbastanza chiaramente ad un socialismo libertario ed mi pare qui usi strumenti
habermasiani, quindi neo-kantiani) Brunkhorst, che risale alla stessa ispirazione, rifiuta di asserragliarsi nella
‘fortezza nazionale’ pur davanti la prevalenza del MM ed i suoi enormi guasti.
4- Lo sfondo del superamento della lotta di classe
Bisogna andare a
guardare cosa fonda questa posizione influente (almeno nel caso dell’habermasiano
Brunkhorst): la ripresa di elementi kantiani alla seconda metà del secolo
scorso, in Habermas come in altri (Rawls è il più eminente esempio), ha come
presupposto ormai inesorabilmente revocato la “pacificazione da parte dello
Stato Sociale” (Habermas, Teoria
dell’Agire Comunicativo, 1981, p. 1021) e quindi è parte della lunga
ritirata dall’orientamento metafisico alla lotta di classe e dalla forza
integrante delle ideologie.
Si tratta di una
prospettiva datata che è scopo specifico dell’Associazione in oggetto di revocare.
Propongo dunque di
considerare, con qualche semplificazione che almeno parte dell’ispirazione di
approcci come quello di Anderlini e Brunkhorst sia rivolta, in modo
biograficamente comprensibile, alla percezione di una ritirata, che si è fatta
rotta, dolorosa del movimento di emancipazione socialmente orientato della fase
centrale del secolo scorso. Oltre a ciò alla minaccia portata all’autonomia
individuale (letta con strumenti Rousseauiani e kantiani) dalla società
regolata del welfare, dalla burocratizzazione del fordismo avanzato e da
sistemi statuali percepiti come oppressivi nell’ultima parte del cosiddetto ‘compromesso
fordista’. L'insieme, dunque, di una sfiducia e di una reazione antiautoritaria sulla base di uno specifico concetto di 'libertà' ('negativa').
Da qui si scivola su un
altro punto qualificante della discussione in corso, in quanto questa percezione
di minaccia portata dallo ‘statalismo’ è espressa, in modo perfettamente
idealtipico, dal quadro generale del movimento del ’68, che è, a sua volta,
inserito in una storia più vasta (nelle mobilitazioni che prendono forza dai
tardi cinquanta ed esplodono già all’avvio dei sessanta, nel mondo del lavoro,
nel sindacato, in parte crescente della società), ma aggiunge caratteri suoi
propri.
Su questo sottotema,
fortemente presente nelle osservazioni al testo, torniamo dopo, ma vale ora
solo la pena di ricordare che siamo ormai al termine di un quarantennio di
deregolazione e disgregazione, imposta da molteplici fattori difficili da
districare, ma certamente non esenti da progettualità e funzionalizzazione ad
interessi specifici di parte della società. Da interessi di classe che sono
riusciti a nascondersi come “logica sistemica” e altra natura, anzi come
semplice razionalità (tecnico-scientifica) facendo trasparente il relativo
dominio. Una Agenda (quella che Brunkhorst individua come MM, ma che è
implicita anche nel KCM,) posta in dubbio dall’attuale “Rivolta
degli elettori” e quindi dal ‘momento populista’. Oggi prevale
decisamente il bisogno di sicurezza.
5- Il progetto europeo realmente esistente
Ciò al quale molti sono
rimasti legati è l’ideale (che ha
veste soprattutto retorica, dato che la realtà parla di ben altro) dell’emancipazione
e della fuoriuscita dagli orrori della prima metà del secolo per la fondazione
di una repubblica cosmopolitica di cittadini liberi ed eguali. Questo ideale di
purissima marca neo-illuminista, che risale ovviamente al Kant de “Per la pace perpetua” è stato però sin dall’inizio
pervertito e contrastato da una chiave realista
di approccio ai problemi del secolo che vede, nel MM, opporre tacitamente “l’egemonia
di una costituzione economica spoliticizzata” (B. p.11) sulle Nazioni
democraticamente fondate del dopoguerra di cui si teme la capacità di
autogoverno (ovvero, concretamente, le spinte sociali organizzate dalle
sinistre). Anche considerando questo punto Anderlini, tuttavia articola una
critica che non può essere presa altrimenti che sul serio (cfr. Jurgen
Habermas, “Fatti
e norme”), muovendo da una concezione della democrazia come
dialettica plurale e tendenzialmente autonoma tra processi diffusi di
comunicazione, capillarmente prodotti, e capaci di sviluppare ‘capacità
d’assedio’ e strutture specializzate di tipo sistemico sia nazionali sia
sovranazionali. La questione potrebbe porsi come intelligenza della Ragione malgrado
i tradimenti e le forze a contrasto che cercano sempre di colonizzarla e
ridurla ad imperativi meramente funzionali di potenza. Ci dovremo tornare sul
piano teorico con maggiori strumenti.
Più concretamente,
invece, il progetto europeo al quale Anderlini non vuole rinunciare, preferendo
quindi ‘avanzare’ anziché ‘arretrare’ (implicitamente a livelli inferiori di
razionalità funzionale e apprendimento normativo), è sempre stato un progetto
di protezione dalla democrazia (cfr
Jan-Werner Muller, “L’enigma
democrazia”) che negli anni ottanta, ed in particolare, rotti
gli argini, dopo il 1989, si specializza come superamento e liquidazione della
‘democrazia maggioritaria’ (cfr. Majone, “Lo
Stato regolatore”) ma che già dall’inizio, negli anni cinquanta,
è finalizzato in chiave anti-populista. Il problema posto al centro delle
intelligenze europee ed occidentali è, infatti, “il problema del male” (Arendt, ma anche Adorno) e dunque la necessità
di stabilizzazione di un ordinamento destinato a scongiurare il ritorno di
passati totalitari. Come dice bene Jan-Werner Muller “come reazione, i politici dell’Europea occidentale instaurarono una
forma di democrazia estremamente limitata e profondamente segnata dalla sfiducia
nella sovranità del popolo, anzi, perfino nella tradizionale sovranità dei
Parlamenti” (op.cit. p.180). L’obiettivo politico era chiaramente di
mettere al sicuro l’assetto liberal-democratico minacciato dall’esterno dal
mondo comunista e dall’interno dalle sinistre politiche.
Il progetto europeo
prevede quindi geneticamente
l’esclusione di forme democratiche ‘populiste’ (ovvero di forme
‘maggioritarie’), ed istituisce a questo fine una dialettica allungata e
plurischermata tra forme di rappresentanza elettiva (dagli anni settanta
duplice), vincoli costituzionali e limitazioni attraverso “corti” politicamente
molto attive e tecnostrutture semipolitiche dedite al controllo dall’alto. L’idea
portata avanti anche da Hayek (’39) in “Le
condizioni economiche del federalismo tra Stati” è abbastanza
semplicemente di impedire che le “maggioranze” democratiche possano abusare
delle loro competenze costituzionali, contro le minoranze abbienti, per
immischiarsi nella libertà della proprietà. Il federalismo interstatale apparentemente
incompleto (in realtà perfettamente riuscito) svolge questa funzione proprio
perché l’uomo disincarnato della cittadinanza sovranazionale non ha abbastanza
solidarietà e comunanza per accettare di condividere schemi redistributivi. Al
massimo può condividere (in accordo con il KCM) dei ‘diritti liberali’ che non
interferiscono con gli assetti di potere economico concreti. Questa semplice ma
dura realtà è ancora quella con la quale ci rompiamo la testa. Peter Mair, nel
suo ultimo libro, “Governare
il vuoto” avrà parole molto nette sulla
disfunzionalità di questo assetto.
6- Il progetto europeo come neutralizzazione democratica
Nel progetto europeo è
giunta ad esistenza, insomma, ed insieme
sia una pronunciata transnazionalizzazione della sovranità (ma slittando in
parte significativa nei cosiddetti ‘mercati’, ovvero nelle mani delle élite
abbienti non per via di diritti politici ma economici) sia una sua altrettanto
pronunciata individualizzazione. Si tratta, insomma, della più efficace al
momento conosciuta forma di neutralizzazione
della sovranità popolare democratica attraverso la limitazione tematica e
funzionale. Ormai ciò che si può esprimere di fatto come sovranità è solo la
forma della competizione (verso l’esterno come “guerra fredda tra nord e sud
Europa” e verso l’interno come “rimozione della lotta democratica tra le
classi”). Nelle due formule di Brunkhorst è incluso e sintetizzato il meccanismo geniale del progetto europeo,
che determina la disattivazione sistematica, per via di neutralizzazione a
priori, della lotta tra le classi nei diversi paesi e costringe gli stessi a creare
gli spazi di crescita, per risolvere le tensioni interne, estroflettendo le
proprie economie e sottraendosi spazi vicendevoli. Nessun compromesso, sia esso
fordista o keynesiano è possibile entro i perimetri degli stati nazionali a
causa dei meccanismi accuratamente disegnati dai trattati e della dinamica
delle corti di giustizia, senza avere sbocco la mobilitazione degli interessi è
inibita ab origine (chiunque conosca i processi di mobilitazione di interessi e
costruzione delle collettività politiche sa che si nutrono di credibili
obiettivi intermedi).
7- Il luogo della lotta di classe
Di fronte a questo l’ipotesi
controfattuale di Brunkhorst e di Anderlini è che sia ancora possibile
riattivare la lotta di classe democratica non nel luogo in cui lo spirito
oggettivo delle norme e degli assetti lo ha reso storicamente possibile, ma a
livello transnazionale, dove mancano le più elementari condizioni. Ciò mentre
la carrozza europea va fuori dei binari, ed il ‘potere comunicativo’ va verso destra (Arendt riletta da Habermas in TAC) attivando in direzione di una chiusura difensiva la altrimenti positiva dialettica plurale e tendenzialmente autonoma tra processi diffusi di
comunicazione capaci di sviluppare ‘capacità d’assedio’ (sulla spinta di segmenti di popolo umiliati ed
offesi dalle politiche schermate e dalle tecnomacchine del modo di produzione
capitalistico fattesi selvagge). Il confronto sistematico di interessi tra sufficientemente
omogenee classi, definite rispetto alla loro posizione rispetto al modo di
produzione, in modo da porre la questione del potere e quella della distribuzione
del prodotto sociale, dovrebbe re-istituirsi, in altre parole, proprio dove è più difficile. Dove,
cioè, gli interessi stessi sono ambiguamente definibili e, al netto di
retoriche insopportabili, sono facilmente deviabili dallo stesso senso comune
radicato, sull’asse debitori/creditori, pagatori/riceventi i potenziali e
necessari trasferimenti compensatori tra nord, che si giova della dinamica
competitiva messa in piedi a modo di piano inclinato dalla ‘moneta senza stato’
e dalla costrizione del diritto europeo disattivante il diritto nazionale, ed
il sud, che ne è danneggiato).
Dovrebbe essere chiaro, ad una visione distaccata, il carattere
controfattuale di questo esercizio (la lotta di classe parte e presuppone la
presenza di interessi convergenti, non è un esercizio idealistico, o orientato
al punto di vista morale kantiano, che non la prevede, ma un esercizio di lotta che muove da
universali concreti, con un movimento dall’interno verso l’esterno, dagli
interessati che difendono se stessi), e comunque è in debito di superare
l’obiezione del teorema fondativo di Hayek, ovvero neutralizzarne le
condizioni.
La questione acquista
molto più senso se si parte, invece, dall’ipotesi liberale, anche nella versione
kantiana, che non sia affatto utile e necessaria la mobilitazione collettiva e
la lotta di classe, ma sia possibile il progresso (in base ad una implicita
filosofia della storia connessa intimamente all’impresa tecnico-scientifica)
semplicemente dall'interazione molecolare di individualità condotte dalla ‘mano
visibile’ di regole e istituzioni. E' questa, dunque, l'ipotesi da revocare in profondità.
8- Il ’68 e la versione libertaria della lotta di classe
individualizzata
C’è un secondo punto di
grande divergenza nel testo ed è la lettura del ’68. Scrive Fassina:
“Nel corso degli ultimi decenni, in particolare
dopo il '68, è prevalsa a sinistra, in nome di un'interpretazione parziale e di
una visione subalterna di liberazione dell'individuo, la criminalizzazione
della Patria e dello Stato nazionale. Lo ‘Stato borghese’ veniva assolutizzato
e conseguentemente lo Stato in quanto tale delegittimato e aggredito poiché
identificato come strumento intrinsecamente oppressivo dentro i confini
nazionali e aggressivo oltre confine.
Insomma, irresistibilmente fascista, proprio in
conseguenza del richiamo alla Patria e alla Nazione come comunità di uomini e
donne distinte e separate artificialmente dai confini nazionali da altre donne
e uomini. Pertanto, la soluzione non era e non è la piena democratizzazione
dell'insieme di istituzioni definite Stato, ma il suo superamento in una indefinita
comunità umana globale, naturalmente capace di autoregolazione o regolata da un
governo globale espressione diretta di cittadini liberati da strumentali
appartenenze nazionali, cosmopoliti in un mondo ‘no borders’”.
Qui il principale
riferimento credo sia la critica, aspra ed a tratti liquidatoria, avanzata da
Aldo Barba e Massimo Pivetti in “La
scomparsa della sinistra in Europa”, ma potrebbe essere citato
anche il libro dello storico Mark Lilla “L’identità
non è di sinistra”, o il Jonathan Friedman di “Politicamente
corretto”, infine Pierre Dardot e Christian Laval “La nuova ragione del mondo”
(anche se questi ultimi autori sono spendibili anche in direzione opposta).
La critica di Fassina è
stata interpretata da molti come continua a quella tendenza alla liquidazione
del movimento tutto degli anni sessanta avanzata da destra da autori come De
Benoiste, sulla scorta dello sforzo di recuperare una solidarietà ‘organica’ perduta.
Secondo questa critica il liberalesimo “strappa
l’uomo dai suoi legami naturali o comunitari facendo astrazione dal suo
inserimento in una umanità particolare” (Alain De Benoiste, “Identità e comunità”, 2005,
p.20). Una simile visione è del tutto aliena dalla impostazione
dell’Associazione, e dallo spirito complessivo del testo di Fassina. L’uomo,
come detto, è caratterizzato dall’essere vuoto, pur essendo sempre situato non
ha mai avuto qualcosa come una solidarietà ‘organica’ che gli preesistesse. La questione
della individualità, ovvero della autonomia, non si lascia risolvere scegliendo
semplicemente l’immersione in una ‘comunità’ (che resta sempre attraversata
dalle tensioni, dalle questioni di potere e di distribuzione che formano ruoli
e contrapposizioni strutturali di interesse).
Dice Anderlini:
“2. Preso dall'ansia di recupero delle nozioni
di patria, stato e nazione, Fassina si spinge fino a una radicale revisione del
'68, giudicato reo di aver prodotto un pensiero individualista, antistatalista,
mondialista e cosmopolita. Come se Toni Negri, la finanziarizzazione
dell'economia e lo stato minimo, le 'moltitudini' di Porto Alegre e il Tea
party fossero inscritti nel suo destino. Una semplificazione sorprendente che
porta acqua, involontariamente, a uno dei mulini più operosi del pensiero della
destra. Tra l'altro il '68 italiano, ma anche in Europa, fu non solo
giovanile-studentesco ma anche operaio e di classi medie. Fu qualcosa di più
complesso che un'adunata di 'figli dei fiori'. Il '68 diede la spinta a potenti
aspettative di emancipazione sia individuali che collettive. La legislazione
sociale (dal sistema sanitario allo Statuto) si compie nei '70, assieme alle
conquiste in materia civile. Tanto è vero che alla metà dei '70, il Pci e la
sinistra tocca un apice paragonabile solo a quello del '46. E' dopo che le due
strade dell'emancipazione si dividono, e persino si contrappongono. Guarda caso
proprio in conseguenza del fallimento della strategia berlingueriana del
'compromesso storico'. E' Il perchè questo avviene che sarebbe il compito
dell'analisi. Perchè cioè il '68 si divarica, invece che compiersi. Una nostra
fabula”.
Ora, indubbiamente non
bisogna portare acqua ai mulini della destra, e spostarsi interamente in una
direzione per allontanarsi dall’opposta, ma la semplificazione sorprendente è
quella che compie il nostro. Tra l’altro le lotte
operaie, e quelle studentesche, che ad un certo punto si divaricano
ma restano più o meno sempre parallele e certamente si contrappongono (i
cosiddetti “movimenti”, in particolare durante i settanta inoltrati e il
movimento dei lavoratori organizzato dal PCI e dal sindacato) sono un
grandissimo tema di ricerca storica utile al presente che non era certo
implicato nel breve cenno.
La questione posta, con
toni che hanno urtato molti, è piuttosto che lo spirito neoliberale, che
prevede un ‘ordine giuridico’ attivo e progressista, capace di spingere l’uomo
a modificarsi continuamente per adattarsi alle condizioni sempre mutevoli della
competizione, ha in qualche modo sussunto
in sé la parte meno avvertita dello spirito ribelle ed anarchico che è
stato coltivato nel ’68. Allo scopo di ristabilire le condizioni della libera
concorrenza lo stato neoliberale, che si trova molto bene nelle forme schermate
dell’Unione Europea preordinate a disciplinare senza mostrarsi gli stati
welfaristi, finisce per trovare uno spazio di crescita a sé adatto nel sospetto
verso ogni forma di autorità che possa essere ricondotta a volti. Lo spazio
delle regole, con la sua enfasi ossessiva per i diritti formali, può apparire,
al confronto, meno invasivo.
È quel che credo
intenda Fassina quando scrive “un’interpretazione parziale e di una visione
subalterna di liberazione dell’individuo”, che ha finito per rovesciarsi, in
questo facendo il gioco del neoliberismo che coevamente si stava affermando,
nella condanna proprio di quello Stato nazionale che aveva visto crescere le
forze organizzate del lavoro. Proprio quello Stato Nazionale che il complesso
processo di unificazione europea pone sotto pressione nelle sue funzioni
sociali in continuità con l’orientamento nativo degli organismi sovranazionali
ma anche in accelerazione rispetto alla ridefinizione strategica seguita al
crollo dell’impero sovietico, l’apertura ad est e la “fine della storia” (come scrisse
Fukuyama).
Bisogna notare che il
processo in oggetto, lungi dall’essere fautore di progresso (se si intende con
tale termine la crescita delle dotazioni
umane e delle capacità sociali sempre necessariamente situate) al contempo lascia
libere, anzi potenziandole, le funzioni di disciplinamento della pressione
politica organizzata dal basso dei medesimi stati.
Non c’è dubbio che
quella posta sia un’altra grande questione.
9- Il socialismo libertario come equilibrio ragionevole
Si innesta qui, e
probabilmente a questo è sensibile Anderlini, quella linea di profonda frattura evocata anche da Vittorio Foa in “La
Gerusalemme rimandata”, scritto nel 1985 a ridosso del
cosiddetto “riflusso” (ovvero del fallimento e ripiego della onda lunga delle
mobilitazioni degli anni sessanta e settanta). Tra “vecchi militanti che
chiudono le saracinesche e si rifiutano nel privato” e lo sforzo di ricordare
ciò che conta, Foa richiama nel testo le esperienze del movimento operaio all’avvio del
secolo (1910-14) e la sua ripresa nel 1968-73. Mentre la politica della
leadership del movimento dei lavoratori si concentrava sulla statualità (preso
nel gioco degli equilibri parlamentari), dice Foa, esisteva anche un’ampia
cultura plurale del lavoro operaio, nel rapporto con la vita e nella
valorizzazione delle differenze di genere (raccontando le esperienze concrete
delle lotte minerarie evidenzia come le mogli e le madri dei minatori, per
esempio, siano in effetti la colonna portante della solidarietà mineraria,
figure insuperabili di sensibilità e di intelligenza). La battaglia del lavoro
è sempre stata contemporaneamente battaglia per il controllo del luogo e la
determinazione delle condizioni della propria vita. Da questa esperienza deriva
la visione della democrazia, nel luogo della produzione (tema eluso quanti
altri mai) come “governo di se stessi, partecipazione e autogoverno diretto”,
una spinta libertaria, ma non individualista che trovo sbocco durante la guerra
nell’istituzione degli ‘stop stewards’ (Consigli Operai). Come scrive Foa: “Il socialismo dei consigli non era più solo
una questione di mezzi di produzione e di divisione del prodotto sociale in
vista di una futura conquista del potere, esso diventava una linea teorica e
pratica che collegava le rivendicazioni immediate alle strategie di
trasformazione, saldava tempo presente e tempo futuro, unificava il soggetto
della lotta per la trasformazione con quello della gestione della società
futura” (p.279).
Parimenti Bruno
Trentin, in “La
città del lavoro”, scritto tra il 1994 ed il 1997, testimonia
dello stesso scontro tra due socialismi, libertario e statalista, e del
riassorbimento del socialismo dei Consigli a partire dalla crisi del
fordismo-taylorismo (cui la sinistra non riesce a dare risposta) e la stretta
sullo sforzo di conquistare il potere dello Stato per utilizzarlo. Per Trentin
le grandi lotte operaie della fine degli anni Sessanta hanno messo in crisi il
fordismo-taylorismo, ponendo i problemi della liberazione del lavoro e del
controllo effettivo del processo produttivo, al di là della lotta salariale
(vedi anche il post “Lotte
operaie alla Fiat negli anni settanta: sicurezza sul lavoro e tecnologia”).
In questo contesto si è avuto anche un apporto esterno dalla cultura di
tradizione cristiana: Jacques Maritain, Emanuel Mounier, Simone Weil.
Dice Trentin:
“Si può affermare che intorno alla fine degli
anni Sessanta prese corpo nel vivo del conflitto sociale e in un’area molto
articolata della ricerca teorica ed empirica una nuova idea della sinistra:
l’abbozzo di un progetto di società che prendeva le mosse dal lavoro e dalle
sue trasformazioni possibili. Un progetto di società che fuoriusciva dagli
schemi redistributivi e risarcitori delle tradizionali ideologie della
‘transizione’, le quali assumevano come immutabili i rapporti di potere
inerenti a un sistema di organizzazione del lavoro e delle funzioni, ancora
considerato ‘oggettivamente’ inseparabile dall’idea di progresso. La
testimonianza, insomma, del riemergere di un’altra concezione della sinistra e
del socialismo possibile, e del loro ‘dialogo’ con le tematiche della
liberazione del lavoro, dei diritti individuali, del valore e del ruolo della
persona”. (p.30)
Questa esperienza fu respinta a livello organizzativo ma resta riferita alla “altra sinistra” i cui campioni sono per Trentin: Rosa Luxemburg, Karl Korsch, Otto Bauer, Max Adler, e fuori della tradizione marxista, Simone Weil.
Una grande questione, dunque. Che certamente non voleva essere trattata come un cane morto e rispetto alla quale, come si può ricavare anche dall'excursus sulla 'libertà sociale' , intende collocarsi a monte.
10- che fare del progetto europeo
Ma il cuore della cosa
è nella visione verso il progetto europeo e nel conseguente “che fare”. Molte critiche, e sicuramente
quella di Anderlini, ruotano intorno alla ipotesi, da una parte, che sia più
credibile e fattibile avanzare,
anziché arretrare (ovvero, senza
fuorvianti metafore spaziali, proseguire un processo di integrazione vincendo
la sua tendenza finora irresistibile di path dependence e la coalizione di
forze egemomica che su questa fonda la propria forza, o ricollocare l'azione
democratica in luoghi nei quali sia avvantaggiata), e, dall’altra, che la Grande Patria europea sia il solo
luogo di potenza in grado di difendersi nel mondo reale (interpretato secondo
una implicita, fino ad un certo punto, teoria
dei grandi spazi, per così dire).
Due questioni importanti.
La cosa si riduce ad una valutazione principale: anche uscendo dalla impostazione kantiana del progresso, se si ritiene possibile, o almeno più probabile dell’alternativa, che nei tempi rapidi del prossimo decennio, se va bene, sia possibile condurre le ‘classi in sé’ europee che sono allo stato divise per buone ragioni di interesse su linee nazionali – o di macroregioni collocate nella stessa posizione rispetto alla macro-organizzazione produttiva continentale (che ha un centro renano e propaggini specializzate e/o subalterne verso nord, est e sud) in una unica ‘classe per sé’ che si riconosca come dotata degli stessi interessi ‘ben intesi’ e disponibile a trasformare questa percezione in potere politico alla scala europea. Precisamente (come ipotizza Habermas, pure entro una lettura dei conflitti aggregati su linee politiche e non nazionali ma in chiave interclassista, ed esclude, confermando però, io credo, la necessità di una contrapposizione di interessi politica e classista, Streeck), una ‘classe’ che veda il suo migliore interesse nella realizzazione di una ‘unione di trasferimenti’ in grado di stabilizzare politicamente il continente al prezzo di un trasferimento per decenni di diversi punti di Pil (le stime dicono da 5 a 7) al fine di finanziare un welfare europeo e politiche industriali, oltre che infrastrutture. Come parte di questa valutazione se si ritiene, inoltre, che sia possibile superare nelle aspre condizioni europee, con l’assenza di una sfera pubblica continentale, di linguaggio comune, di tradizioni ed esperienze unificanti (quando il trauma della guerra è ormai lontano e il rancore per il tradimento della promessa della società dei consumi morde le caviglie), la frammentazione sociale che già Habermas riconosceva come problema nel 1981, ottenendo quindi di nuovo, miracolosamente, la trasformazione della “classe in sé” in “per sé”.
È chiaro, d’altra
parte, che neppure l’uscita dalla gabbia dell’euro (che ha anche perso la
doratura iniziale) può essere considerata una palingenesi in sé. Né comporta il
recupero di una sovranità assoluta che mai nessuno ha avuto (ed in particolare
un paese di media potenza come l’Italia). Ma il punto centrale è che nell'attuale
condizione è certo che i paesi più
deboli lentamente diventeranno sempre più subalterni, facendo inesorabilmente
la fine del sud Italia nei confronti del rispettivo nord. Entro questi paesi crescerà l'ineguaglianza e i ceti medi saranno
sempre più schiacciati, cosa che politicamente condurrà agli inevitabili esiti
totalitari. Davanti a questa certezza c'è
il rischio che i capitali italici possano subire un contraccolpo nella
transizione da un equilibrio di sistema ad un altro.
Questo rischio è
altamente valutato da alcuni obiettori.
Ma riassumo: ‘chi non ha’ è certo di perdere se tutto resta come è, ‘chi ha’ ha la possibilità di perdere se tutto cambia e intanto nel medio termine si avvantaggia invece dall'attuale assetto deflazionario.
In base a questa
valutazione di parte, indispensabile se si vuole recuperare una posizione di
classe, e al rischio esistenziale che abbiamo davanti, è necessario capire chi si è, e chiamare tutti coloro
che si riconoscono a lavorare insieme.
11- conclusione
Dunque per queste
ragioni “Patria” deve stare insieme a
“Costituzione”, per riscoprire un ben
fondato orgoglio di sé e rilegittimare in tal modo la riattivazione delle
funzioni essenziali dello Stato nazionale, costruendo un popolo che lo presidi
e difenda come sua la democrazia costituzionale.
Come scrive Fassina:
“La nostra bussola per una navigazione
difficile è il primato della Costituzione sui Trattati europei e sovranazionali
e i principi del socialismo, del cattolicesimo sociale e dell'ecologia
integrale. Per affermare una comunità aperta e solidale dentro i confini
nazionali, dove i conflitti, a partire da quelli di classe e ambientali, si
riconoscono, si combattono e si compongono in riferimento alla dignità del
lavoro, alla giustizia sociale, al rispetto della natura. Per coltivare una
comunità accogliente verso l'altro e cooperativa nelle relazioni con le altre
patrie, con le altre comunità democratiche, con gli altri Stati nazionali, a
partire dai partner dell'Unione europea, per affrontare le enormi sfide globali
di fronte a noi, innanzitutto la riconversione ecologica delle economie e delle
società e il governo dei flussi migratori”.
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