Tomaso Montanari ha
scritto e pubblicato sul Fatto Quotidiano
un lungo e denso articolo
che attacca con grande vigore e notevole tensione morale la temuta involuzione
identitaria che la destra italiana starebbe suscitando e sfruttando a fini di
raggiungere il potere e conservarlo. Il
suo punto è fondato, sono anche io convinto che sia in corso un cinico
utilizzo, a fini di distrazione dai più pressanti problemi economici, di una
problematica molto sentita da parte dell’elettorato della Lega, ma, come si
vede dai risultati, anche da parte maggioritaria della popolazione italiana.
Credo, più precisamente,
che la Lega stia facendo un gioco molto pericoloso in qualche modo strettamente
connesso con le dinamiche politiche interne. Il 4 marzo il paese, come scrivevo
in “Fase
politica, Aquarius e diversioni” si è spaccato infatti su una linea che
attraversa le sue borghesie, portandosi a traino i ceti popolari, e, insieme,
che la attraversa geograficamente. In estrema sintesi si è manifestata la
defezione della borghesia nazionale rispetto la borghesia coinvolta con il
modello economico mercantilista, e rivolto alla competizione per acquisire
quote di mercato estero, che è contemporaneamente sotto attacco da parte del
vecchio acquirente di ultima istanza americano. Si è formata una maggioranza politica conforme alla
maggioranza sociale che ha clamorosamente sconfitto la vecchia coalizione
da anni al potere, elitaria quanto a rappresentanza sociale, cosmopolita quanto
a cultura e esteroflessa politicamente ed economicamente (con la sua cultura
del “vincolo esterno”).
Guttuso, "La spiaggia" |
Del resto, la parte
della ‘strana’ coalizione che sviluppa questa retorica ha come constituency,
detto in modo sintetico quanto brutale, il mondo delle Piccole e Medie Imprese
impegnate soprattutto nel mercato interno e poco interconnesse sui mercati
globali, i professionisti che con tale mondo e con quello delle famiglie
borghesi intermedie sono legati, operai ed impiegati di questi settori. Queste
forze si manifestano con un gradiente che si riduce man mano si scende verso il
sofferente sud, dove si radica invece la constituency del M5S (che comunque ha
una rappresentanza politica geograficamente più omogenea) e dove hanno più peso
i precari, i giovani ed i disoccupati.
Ciò che, però, unisce
le due parti della coalizione, e questo Montanari non sembra ben valutarlo, è
il bisogno acuto e pressante di
protezione, di due generi di protezione diversi: di protezione sociale, nel sud governato dal M5S, e di protezione individualista, nel nord
della Lega. Le bandiere di cui si discute in questi giorni, rispettivamente
pensioni al minimo e reddito di inclusione, da una parte, e flat tax per le
partite Iva, dall’altra, ne sono esemplare rappresentazione. C'è molto altro nelle forze che si sono coalizzate per prendere il governo del paese, c'è la base di una reazione della società alla forza dissolvente del capitalismo (non solo della globalizzazione) che si cerca di catturare nominandolo a volte come 'momento Polanyi', nel tentativo di metterci un'etichetta, e che dovremo cercare di imparare a capire. Avevo provato in precedenza a dire che vi si intravede il nucleo confuso di un discorso pubblico ruotante intorno alle parola d'ordine "onestà", "integrità", "sicurezza", ma si tratta di bozze di tentativi ancora senza le parole giuste.
Si tratta, comunque, di
una coalizione profondamente fratturata a partire dalle diverse domande di
protezione alle quali rispondono.
In questo quadro ciò
che rende comprensibile la reiterata
azione di provocazione del Vicepresidente Salvini su questi temi è che è
difficile, e ci vuole tempo, rispondere a questa domanda di protezione in modo
che se ne sentano gli effetti; allora sono necessarie diversioni. Per
rispondere a questa esigenza politica, indispensabile per la tenuta del
consenso, ognuno sceglie il proprio terreno, e la Lega ne ha uno ottimo,
fotogenico e altamente visibile: l’immigrazione.
Questo è quanto
concordo con Montanari.
Divergo su alcune sue
valutazioni chiave: io non credo che
l’immigrazione non sia un problema, non
credo sia senza effetti sul mondo del lavoro (anche se non è l’unico e
neppure il principale fattore), non credo
che il destino dell’occidente sia multiculturale. Come vedremo alla fine, e
nei propri termini del testo più denso e complesso citato da Montanari, quello
di Habermas, io credo ci siano i termini, sia pratico-pragmatici, sia etici per
difendere il buon diritto di regolare la propria vita e salvaguardare le
proprie istituzioni e ‘l’integrità delle proprie forme di vita’ (Walzer),
lasciando cadere la filosofia della storia cosmopolitica, proiezione di potenza
dell’occidente anglosassone, che supporta sia Habermas sia Montanari.
Basilica di San Pietro, Roma |
Ma andiamo con ordine,
Montanari sviluppa un ragionamento che parte da una citazione colta di due
autori, cui attribuisce il sostegno delle sue tesi: Amartya Sen e Tony Judt, un
liberale ed un socialista moderato.
A Judt (“Guasto
è il mondo”, 2010) attribuisce la frase: “Identità è una parola pericolosa: non ha alcun uso contemporaneo che
sia rispettabile”, senza chiarire il contesto in cui è scritta.
A Sen (“Identità
e Violenza”, 2007) attribuisce in modo diagonale (citando solo la
prefazione) la disumanità che deriverebbe
dalla ricerca della identità nazionale e religiosa.
Più precisamente
riprende il testo di Sen citando solo la lettura che ne fa, nella prefazione
Mario Vargas Llosa, uno scrittore peruviano neoliberale candidato alla
presidenza con il centro destra nel suo paese. Ma Amartya Sen (a sua volta un
liberale, ma più moderato), non scrive esattamente questo.
Detto in modo molto
sintetico la tesi di Sen è più che per gli uomini contemporanei nessuna tra le
molte identità parziali disponibili (l'elenco nel libro, non a caso, è “americano, di origine caraibica, con
ascendenze africane, cristana, progressista, donna, vegetariana, maratoneta,
storica, insegnante, romanziera, femminista, eterosessuale, sostenitrice dei
diritti dei gay e delle lesbiche, amante del teatro, militante ambientalista,
appassionata di tennis, musicista jazz …”) è da considerarsi l’unica
identità o categoria di appartenenza. Dunque l’inaggirabile (nelle condizioni
contemporanee) natura plurale delle nostre identità ci costringe, di volta in
volta, a prendere delle decisioni sulla loro importanza relativa, nelle circostanze concrete in cui diventano
rilevanti. Naturalmente Sen riconosce che il senso di identità “può dare
un’importante contributo alla forza ed intensità delle nostre relazioni con il
prossimo, che può essere rappresentato dai vicini, o dai membri della stessa
comunità, o dai concittadini, o dai seguaci della stessa religione” (S.p 4), tuttavia,
c’è un rovescio della medaglia, se un senso di identità può accogliere ed unire
alcune persone allo stesso tempo può “escluderne altre senza appello”.
Ovviamente ciò non significa che per
Sen l’identità sia una fonte di male “a tutti gli effetti”. Quando ci si trova
di fronte ad essa, bisogna fare altro; occorre coltivare l’idea che “la forza
di un’identità bellicosa può essere contrastata dal potere delle identità
concorrenti”, ad esempio quella legata alla comune
appartenenza alla razza umana. Affidarsi, cioè, al processo dialogico di
scoperta reciproca e di apertura alla comune esperienza umana. L’argomentazione
di Sen si rivolge quindi contemporaneamente contro due forme di riduzionismo
simmetriche: quella della teoria economica contemporanea che procede come se,
nello scegliere i propri scopi non fossero implicate identità, come se ognuno,
cioè, fosse un’isola “completo in sé”. Simmetricamente si rivolge contro il
riduzionismo ‘dell’affiliazione unica’, che parte dal presupposto che, a tutti
i fini pratici, ognuno appartenga ad una sola collettività. Cerca di tenere la
linea tra lo Scilla dell’individualismo neoliberale ed il Cariddi del
comunitarismo.
Si tratta, cioè, di un
libro complesso, che prende una posizione liberale temperata ed attacca tutte
quelle applicazioni identitarie che tendono a creare delle separazioni ‘principali’.
Il suo migliore esempio di separazione principale da non promuovere è la “lotta
di classe” come “affiliazione unica”. Mentre non oppone obiezioni allo
scegliere, tra le diverse identità plurali che ci attraversano (alcune delle
quali abbiamo scelto ed altre no), quella che di volta in volta è più
pertinente alla situazione.
In questa accezione, ad
esempio, scegliere che in questa situazione (in cui è in corso uno scontro che
ha tra le sue polarità il progetto neoliberale europeo e la sua tendenza a
dissolvere e/o incapsulare e neutralizzare la sovranità democratica e
costituzionale instituita da norme e prassi nella forma dello Stato nazione e
nella solidarietà che in esso può essere rintracciata, al suo meglio) sia
l'identità nazionale ad essere quella più specifica e pertinente, mentre le
altre retrocedono sullo sfondo, è esattamente coerente e compatibile con il
punto filosofico di Sen.
Il secondo libro, Judt
2010, è “Guasto è il mondo”, il suo
libro finale. Nel quale il grande storico attacca il “mondo freddo e spietato
della razionalità economica illuminista” (p.22) e rimpiange il mondo regolato
keynesiano, si spende in un rischioso ragionamento sulla omogeneità (p. 52-3),
connettendolo con il welfare state socialdemocratico e le “virtù costose” della
solidità e resistenza. Riporto un brano che forse Montanari non ha letto bene: “infine
tutto spinge a ritenere che, se l'omogeneità e le dimensioni sono state
importanti per generare fiducia e cooperazione, l'eterogeneità culturale o
economica può produrre l'effetto opposto. Il
costante incremento del numero di immigrati (specialmente se provenienti
dal ‘terzo mondo’) nei Paesi Bassi e in Danimarca, per non parlare del Regno
Unito è strettamente correlato a un declino significativo della coesione
sociale”. (p.53). Ed anche (era distratto), nelle conclusioni, dopo un vigoroso
attacco alla globalizzazione: “dopo decenni di relativo oscuramento, gli Stati-nazione sono destinati a
riaffermare il loro ruolo predominante negli affari internazionali. Le
popolazioni che sperimentano una maggiore insicurezza, fisica e economica,
ripiegheranno sui simboli politici, le risorse legale e le barriere fisiche che
solo uno Stato territoriale può garantire. [...] Lo Stato territoriale, unica
istituzione che si frapponga fra gli individui e le entità non statali come le
banche e le multinazionali, unica unità normativa che occupi lo spazio tra gli
organismi transnazionali e gli interessi locali, probabilmente vedrà crescere
la sua importanza politica” (p.140).
Insomma, con la prima
citazione Tomaso Montanari si schiera nel campo liberale e pro-globalizzazione,
ma senza avvedersene intacca la sua tesi, in quanto Sen ammette la liceità di
far valere un elemento della propria multiforme identità sugli altri quando la
scelta si imponga; con la seconda torna nel campo socialista (sia pure molto
moderato), ma fornisce anche la ragione per sceglierlo: battere la
globalizzazione liberale tornando allo Stato-nazione. Con la seconda depotenzia
la posizione, di quasi venti anni precedente, di Habermas con la quale
terminerà.
Ma nel seguito delimita
lo spazio della sua critica ad alcuni toni di intonazione xenofoba verso i quali
avanza una obiezione sintetica di sapore universalista ed umanista: l’uomo dov’è? Spendendo in questa
sintetica obiezione uno dei poeti da me più amati (un verso
del ‘Canto Generale’ fa da nome al
blog) ed uno dei più identitari e connessi sentimentalmente alla propria
patria: Pablo Neruda. Torcendo gravemente il riferimento (non sono in grado,
per mancanza di riferimento, di rintracciarlo, ma probabilmente si tratta di
una poesia contro il fascismo di Franco o un verso del Canto Generale contro i conquistadores, ovvero contro le tante
violenze che a sua terra, il Cile, ha subito nei secoli, ma ricordo solo che
Neruda era comunista) Montanari interpreta questo verso in senso
dell’universalismo liberale: “che ne è
della comune identità umana, unica fonte dei diritti fondamentali
dell’individuo?”
Sarebbe questa la “domanda cruciale, in questa orrenda stagione
del discorso pubblico sfigurato dal veleno della retorica identitaria”.
Spiace questo uso del
tutto retorico e svuotato di senso dei riferimenti, presi come collezione di
gadget sullo scaffale ‘dell’uomo colto’ e quindi ritorti contro gli autori. Ma davvero
Neruda non può essere usato per promuovere una visione tutta presa dentro
l’individualismo borghese e liberale, una visione che fa dei diritti
individuali, eguali per tutti sulla base di un’ipotesi metafisica di
eguaglianza naturale, la ‘domanda cruciale’. Per Neruda, ma anche per Judt (e
in misura minore persino per Sen) la ‘domanda cruciale’ non sarebbe l’astratta
eguaglianza naturale, distillata in diritti naturali e fondamentali, ma
l’effettiva capacitazione delle concrete persone attraverso politiche
collettive e/o le lotte. Casomai la domanda cruciale è il superamento dello
stato delle cose presenti attraverso la lotta e mobilitazione concreta delle
soggettività individuali e collettive.
So bene che Montanari è
persona sensibile a questi temi, ma dovrebbe sorvegliare meglio i rigurgiti
della cultura di base neoliberale (o almeno liberale-radicale) che ri-emerge
nelle pieghe poco sorvegliate del suo discorso. Inoltre forse una minore
collezione di gadget aiuterebbe.
Certo, lui ha ragione,
quando stigmatizza affermazioni, attribuite al Corriere della Sera circa una valutazione errata sull’incidenza
dell’immigrazione (una tipica generalizzazione basata su esperienze parziali,
se pur reali) da parte di una consistente parte degli italiani, e ancora più
quando si parla dei consistenti flussi di immigrati clandestini (in parte
aventi diritto di asilo) come qualcosa che “ci sta seppellendo”. Questo linguaggio è inaccettabile.
Ma da questo linguaggio
(e dall’ovvia costruzione pronomiale “noi/loro”, che è costantemente all’opera
nel nostro linguaggio, ogni qual volta si voglia far riferimento ad una
differenza) è occasione in Montanari per una potente generalizzazione, per la
quale ogni distinzione è fonte di una
“dottrina del respingimento”. Una “dottrina” (come abbiamo visto fatta propria
da Jundt) sarebbe semplicemente alla radice di un “terrore”. Sulla base di
questo uso letterario e retorico delle parole, Montanari sembra sostenere,
insomma, che nessuna differenza ha
diritto di esistere, sotto l’unità universale e naturale della ‘comune
umanità’.
Provare a scegliere,
sulla base di priorità, una identità come localmente più rilevante di altre,
come ammette Sen, diventa direttamente cedere al “terrore identitario”.
Certo, Montanari ha
ragione a stigmatizzare le provocazioni di Salvini, che intenzionalmente trae
in trappola la sinistra radicale, sollecitando le sue risposte istintive e
spingendola a metterle sul piano moralistico, frasi come “l’immigrazione è invasione, è pulizia etnica al contrario”, sono
sciocche e sconsiderate. Sono piena espressione della volontà di distrarre.
Ma esprime, al
contempo, la propria cattura in questa manovra del furbo leader politico la
ricorrente tentazione di rispondere sul piano solo morale, di cedere alla
“appellite” (si veda, ad esempio questo
articolo). A me pare che in questo modo una buona parte della sinistra stia
ripetendo, amplificato, l'effetto ‘falena
con la luce’ che l'ha neutralizzata a lungo ai tempi di Berlusconi. Con
l'aggravante che la ristrutturazione profonda avviata dal 2008 ha letteralmente
falcidiato una parte rilevante della sua base sociale di riferimento,
rendendola tanto più debole ed esponendola all’irrilevanza. Sotto questo
profilo il discorso di Salvini appare sempre più una vera e propria trappola,
appositamente costruita per la sinistra. Il suo scopo è, in altre parole, di
spingere la sinistra a rifugiarsi entro le proprie cittadelle discorsive, di
inibire qualsiasi possibile tentativo di riconfigurare il discorso e rendere il
“politicamente corretto” unica strategia individuale possibile di
sopravvivenza. Toccando delle corde identitarie potenti, attraverso
provocazioni intenzionali quanto brutali, il discorso pubblico di Salvini
costringe chi lo prende in parola a restare nel suo ordine e, attratto da una
luce irresistibile, finire entro la trappola. Chi volesse sottrarsi resterebbe
immediatamente isolato ed espulso dal novero della comunità che si è intanto
ridefinita come i ‘sensibili alla luce’. La sinistra finisce in questo modo
però a restare dentro delle riserve sempre più strette e insieme di alzare muri
al loro confine. Lo spazio tra la sinistra nel suo insediamento sociale ormai
ristretto ai ceti medi riflessivi, quando va bene, e il resto del mondo diventa
così sempre maggiore. Insomma, Salvini prepara un dominio di lunga durata, lui
pescherà nell'80% della stratificazione sociale, la sinistra in qualcosa meno
del 20.
Se sarà così la partita
è chiusa.
Basilica di San Pietro, Roma |
Montanari, armato dei
suoi buoni sentimenti, sposta abilmente il discorso simmetricamente a Salvini
sulla hitlerizzazione dell’avversario, chiamandolo
fuori dell’umano. A fronte di una separazione posta all’avvio del suo
discorso tra “umano e non”, richiama infatti l’alta lezione di Primo Levi
davanti all’orrore nazista e lo slitta nei centri di detenzione libici (un
paese privo di forma statuale solida, l’esatto opposto del nazismo)
riclassificandoli come ‘lager’ e attribuendone la responsabilità morale ed
operativa al governo italiano.
Cito:
Ha scritto
Primo Levi: “A molti, individui o popoli, può accadere di ritenere, più o meno
inconsapevolmente, che ‘ogni straniero è nemico’. Per lo più questa convinzione
giace in fondo agli animi come una infezione latente; si manifesta solo in atti
saltuari e incoordinati, e non sta all’origine di un sistema di pensiero. Ma
quando questo avviene, quando il dogma inespresso diventa premessa maggiore di
un sillogismo, allora al temine della catena, sta il Lager. La storia dei campi
di distruzione dovrebbe venire intesa da tutti come un sinistro segnale di
pericolo”. Ora, dovrebbe apparire con drammatica chiarezza che i campi di
concentramento in Libia sono conseguenza
diretta del fatto che il dogma dello straniero come nemico è tornato ad
essere, in Europa, la premessa del sillogismo su cui poggia il consenso dei
partiti ‘sovranisti’. E se il leader xenofobo e razzista di uno di questi
partiti e il primo giornale italiano si trovano a usare lo stesso vocabolario,
abbiamo un serio problema culturale.
Quindi riporta tutta la
problematica (che ha rilevanti lati pratico-funzionali) a “problema culturale”.
Rimesso su questo
piano, in una opposizione binaria umano/inumano non c’è più scelta, gli
“intellettuali italiani” (con ciò chiarendo in modo inequivoco, a chi non lo
avesse già compreso, quale è l’interlocutore designato) dovrebbero concentrarsi
sul “conflitto tra identità nazionali e diritti umani”. Ovvero, in termini più
chiari, tra liberalismo e non.
Soccorre il dire di
Donatella Di Cesare, additata come eroina, che, restando dentro il frame,
sostiene che l’Europa, “patria dei diritti umani” (ovvero terra liberale), “ha
negato l’ospitalità a coloro che fuggivano da guerre, persecuzioni, soprusi,
desolazione, fame”, e lo ha fatto al “riparo delle frontiere statali”. Un
minestrone di categorie che nulla fa più capire, o meglio, che intenzionalmente
elimina tutte le differenze per polarizzare tra un dentro (egoista perché ricco) / ed un fuori (puro, perché debole e
reietto). Un modo di rafforzare il discorso distraente, restando dentro il
suo incantesimo.
Uno dei numi tutelari
citati all’avvio, Pablo Neruda, forse avrebbe detto che la questione è
un’altra: che dentro e fuori ci sono altre partizioni rilevanti, quella tra
sfruttati e sfruttatori, dei conflitti senza sbocco che nascono dalla
competizione selvaggia dei lavoratori tra di loro (italiani e non) e delle
frazioni del capitale.
Restando invece dentro il quadro scelto dall’avversario
Montanari, finisce sia per evocare imprudentemente il “nazionalismo
nazifascista” (davanti all’evocazione del quale nessuna distinzione può più
essere compiuta), sia ad allinearsi necessariamente con la difesa del libero
mercato (libero dalla regolazione dello Stato e dalla forza organizzata dei
lavoratori) e della mondializzazione che ne deriva necessariamente (a partire
dalla mobilità dei capitali, pietra angolare) negando qualsiasi spazio di
realtà ad affermazioni generiche come “i migranti sono un costo”, “portano via
il lavoro agli italiani”, “delinquono più degli italiani”, “aiutarli impedisce
di aiutare gli italiani poveri”. Non è che siano affermazioni vere, ma neppure false. Sono affermazioni
sulle quali bisognerebbe intendersi, e non sono necessariamente parte della
“retorica dell’invasione”, possono essere impiegate per ricostruire una
prospettiva di classe se si situano e soprattutto se ci si chiede, “perché”?
Il problema, con le
“vaste bibliografie scientifiche e divulgative” è che bisogna sempre fare mente
ai presupposti impliciti, in particolare bisogna farlo con la letteratura
economica che finge costantemente di essere terza, empirica e ‘scientifica’,
mentre è intrisa di valutazioni ex ante e di ipotesi irrealistiche (come
l'equilibrio generale e l'assenza nei modelli della finanza e del sottoimpiego
dei fattori). Il punto è che partendo da presupposti neoclassici e rifiutando in
radice la stessa nozione di ‘sfruttamento’, poi si arriva alle conclusioni
sulla base di una serie ben nascosta di ipotesi ad hoc.
Aprire alle “quattro libertà” (capitali, merci,
servizi, persone) l’intero mondo non è socialista, non è progressista, ma è l’essenza
del mondo iperfinanziarizzato, altamente ineguale, violento e prevaricatore,
altamente precarizzante, che abbiamo costruito dagli anni ottanta ad oggi.
Probabilmente l’unico mondo che Tomaso Montanari conosce (essendo nato quando
il precedente tramontava ed essendo entrato nell’età della ragione alla metà
degli anni ottanta, quando la retorica liberista era dominante). Se si vuole
uno Stato sociale, che offra protezione, è necessario tenere in piedi un
impegnativo patto di solidarietà tra i cittadini (sincronico e diacronico) che
preveda doveri e privilegi. Come scrive
Andrea Zhok, “in uno Stato di welfare i
servizi vengono pagati elevando tasse più alte che negli Stati liberisti. Tali
tasse servono a fornire quei servizi che eccedono la semplice ‘tutela dei
confini e dei contratti’ (Stato minimo: esercito, polizia, giudici). Tuttavia
in uno stato sociale è necessario che vi sia elevato controllo sul rapporto tra
quanto investito sul territorio in servizi e quanto generato dal territorio in
termini di cespiti fiscali. L’idea è che io pago ora, ad esempio, per la
formazione e le cure mediche della nuova generazione in crescita, e anche, in
parte, per la cura della generazione anziana che non produce più reddito, e
così per ogni generazione in età produttiva rispetto ai gruppi non produttivi. Questo
patto sociale non vincola persone, magari stimabilissime, in altri paesi. I
nostri bambini, o anziani, o disoccupati, non possono attingere ai conti
correnti dei benestanti di altri paesi, così come i bambini, o anziani o
disoccupati altrui non possono attingere alle nostre risorse”.
E’ chiaro che
l’immigrazione, se non regolata, altera questi equilibri, poi l’effetto ottenuto
dipende dalla qualità delle persone immigrate (se è alta impoverisce lo Stato
di partenza ed arricchisce quello di arrivo, come fa la nostra emigrazione
verso la Germania, se è bassa il contrario ed inoltre favorisce la crescita del
paese di arrivo di cattiva occupazione, conflitto tra poveri, incremento della
disoccupazione, sacche di economia illegale o criminale) e, notevolmente, dal
contesto nel quale avviene la scena, se in contesto di crescita o di decrescita,
se politiche di welfare, istruzione, sanità e offerta di infrastrutture ed
alloggi non operano in regime di severa scarsità. Con ciò non dico che sia il
principale fattore di questi fenomeni (dirlo significherebbe essere catturati
dal frame retorico dell’avversario), ma neppure che non ci sono. Dire che non questi
effetti esistono lavora da una parte,
dato che molta parte della popolazione italiana ha evidenza prossemica di una
incidenza, per rafforzare il discorso della Lega nei confronti di questi, dall’altra si mette nell’alveo del
discorso classico delle élite neoliberali sconfitte a marzo.
E c’è una buona ragione
(la ricorda Judt) perché perdere una accettabile, ed accettata, omogenità può
essere un fattore di aggravamento della difficoltà a sostenere uno stato provvidenziale:
che alla percezione di un indebolimento delle prestazioni, per eccesso di uso,
segue la riduzione della disponibilità a pagare per esse con le proprie tasse.
In assenza di una tassazione mondiale universale questo è un problema. La soluzione
madre sarebbe non far indebolire le prestazioni, aumentare le risorse ad esse
dedicate e assicurare parità di trattamento, in particolare sul lavoro, a
tutti.
Un problema che,
naturalmente, non è tale per un liberista, che vuole esattamente una società
multiculturale, fortemente individualista, dove ognuno pensa a sé e quindi la
tassazione è molto bassa e lo Stato non si impiccia con le redistribuzioni. Ovvero
vuole uno stato dove il welfare e le altre protezioni siano le più basse
possibile e la competizione la più alta possibile. Un simile stato è prigioniero
del conflitto tra lavoratori ed a vantaggio del capitale.
La soluzione di
Montanari, come spesso capita alle posizioni moraliste in debito di un’analisi
dei rapporti di forza e delle condizioni sul campo, mette, come si dice “il carro davanti ai buoi”. Funzionerebbe
solo se ci fosse il socialismo, ed anche in quel caso nei limiti delle risorse.
Basilica di San Pietro, Roma |
Naturalmente anche se
ci fosse il regno dei cieli.
È chiaro che tutto va
visto sempre dinamicamente e nella relazione tra crescita della domanda ed
offerta dei diversi fattori nel ciclo produttivo (merci, investimenti, forza
lavoro). Ad esempio, in assenza di importazione di forza lavoro, nelle
condizioni di una forte crescita della domanda e occupazione autoctona tutta
impiegata ci sarebbero solo due alternative: aumentare gli investimenti
(ricreando quello che Marx chiamava “l'esercito di riserva” per la via classica,
ovvero investendo in macchine e altre forme di capitale labor-saving) o
aumentare la forza lavoro (ricreando l'esercito di riserva per la via della sua
importazione). Altrimenti c'è solo l’alternativa quella che il capitale cerca
sempre di evitare: aumentare i salari a
causa della competizione tra i diversi impieghi. Come scrive
Engels, insomma, se c'è l'esercito di riserva la competizione è tra lavoratori
(occupati e disoccupati), se non c'è è tra capitalisti (per attrarre gli
occupati e rubarseli l'un verso l'altro). Chiaramente la seconda ostacola la
redditività del capitale investito. In altre parole, se non ci fosse
immigrazione ci sarebbe meno disoccupazione e anche un lieve innalzamento dei
salari con effetti a onda. Ma chiaramente nelle condizioni della
finanziarizzazione e mobilità di capitali questo comporterebbe effetti su tutto
il sistema con possibili ridislocazioni in altri settori e/o paesi. Si tratta
di un problema sistemico difficile da sezionare.
È chiaro che se, per
ipotesi, un insieme di politiche coordinate di sostegno della forza
contrattuale dei lavoratori, più opportune politiche di repressione del dumping
salariale da chiunque praticato, nella direzione del “Decreto dignità” (ma enormemente rafforzate) comportassero un
aumento dei salari medi, ciò avrebbe ripercussioni e conseguenze complesse: i salari,
crescendo, modificherebbero il mix produttivo perché modificherebbero la
dinamica dei fattori produttivi, come effetto tenderebbero a ridislocare
qualche segmento produttivo (in funzione della mobilità di capitale e merci e
delle relative infrastrutture fisiche, normative e culturali), alterando la
dinamica degli investimenti e modificando la domanda aggregata interna. Tutto
ciò retroagirebbe sulla domanda di forza lavoro (in quantità e qualità),
tendendo ad un diverso equilibrio. Se migliore o peggiore dipende dagli
obiettivi che ci si dà ed in parte è anche una questione empirica, anche perché
non avviene nel vuoto ma nel quadro di competitori esterni che reagirebbero.
Chi ha presente la
logica di sistema contemporanea si rende conto, insomma, che questo mette in
questione l’apertura non solo nei confronti dei lavoratori, ma soprattutto di
merci, servizi e capitali. Mette in questione la mondializzazione.
Se Montanari avesse
letto davvero il libro di Toni Judt, che di queste cose parla a lungo, sarebbe
più attento a distinguere.
Dato che non lo fa,
sposta il focus del discorso, in linea con il richiamo agli “intellettuali”,
sul discorso identitario sul piano culturale. E per colpire meglio si sposta
agli estremi, citando una inchiesta di Casa Pound sulla “Italia arcana, alle
radici della nostra identità nazionale”.
A questa posizione
oppone due argomenti:
-
il primo “etico” (sarebbe a dire morale nella terminologia di Habermas
che in seguito citerà), “per quale ragione l’essere italiano – ‘perché qui ti
ha partorito una fica’, come canta l’eloquente Caparezza descrivendo una
condizione puramente casuale, priva di ogni merito – dovrebbe dare una
precedenza nel diritto alla sopravvivenza?”
-
il secondo ontologico (ovvero di esistenza), “Davvero esiste una ‘Italia
arcana’ con una identità pura, definita una volta per tutte?”
Con questo modo di
argomentare, che estremizza la posizione dell’avversario estraendolo dall’umano
e chiamandolo fuori del consesso civile, Montanari definisce “identità” (certo perdendo del tutto il
riferimento al più sobrio Amartya Sen) come “uguaglianza assoluta, corrispondenza esatta, perfetta”. Questa
definizione del tutto estranea alla tradizione filosofica e politica (cfr
Rousseau, Kant, Herder, Hegel, per dire dei principali) è tratta
“etimologicamente” dalla matematica, o dalla logica matematica, a tutta
evidenza.
Grazie a questa
forzatura argomentativa (che Galli della Loggia ha facilità ad attaccare),
ed alla rituale citazione del bestseller di Hosbawm “L’invenzione della tradizione”, secondo il nostro “le identità
nazionali sono definite a posteriori, spesso inventate di sana pianta”. Peccato
che, ancora una volta, lo storico marxista Eric Hosbawm non intendesse nel suo
libro del 1983 sostenere una tesi così stravagante, ma solo che alcune
‘tradizioni’ (come il Kilt) sono ricostruite a posteriori, talvolta per gli
scopi dell’industria.
Grazie a questo uso
così disinvolto dei riferimenti (che non manca di coinvolgere in questa lettura
fuori contesto e rapsodica anche il nostro Alessandro Manzoni, riportato a
cantore del sangue, e quindi immagino per estensione l’intero risorgimento) può
sottolineare che l’Italia è il frutto storico di tante commistioni di sangue e
cultura. Un popolo meticcio, “più di ogni altro” (tesi discutibile, che anche
la Spagna, la Francia, la Germania hanno i loro flussi storici, ma ricordarlo
avrebbe esteso l’argomento oltre i limiti desiderati), seguito da corretti
quanto parziali esempi. È coinvolta la lingua, la cucina, le stesse cosiddette
“radici cristiane”, per progressivi allargamenti.
Forse accorgendosi di
aver esagerato, riporta allora il concetto di ‘identità’ entro più ragionevoli
limiti affermando che: “tutto questo
serve a dire non che ‘gli italiani non esistono’, ma invece che ‘gli italiani
sono multiculturali per storia e cultura’”. Certo sotto questo profilo, guardando
da questa altezza ed in relazione alla stratificazione storica (dunque forzando
il termine ad un uso non consueto) tutti, nessuno escluso (USA, Cina e Urss
inclusi) sono “multiculturali”.
Ne derivano però conseguenze
radicali: che “non ha senso opporre ‘noi’
a ‘loro’ perché il ‘noi’ si è formato grazie ad una somma di ‘loro’ accolti e
fusi in questa terra”. Una frase la cui logica è sfuggente: se anche il
‘noi’ (di tutti) si fosse formato storicamente nei secoli e millenni, gli altri
‘noi’ che vengono in contatto, egualmente formati, non sarebbero per questo
meno differenti. Uno stato di fatto
transita nel modo moralistico di ragionare di Montanari in giudizio valutativo,
e questo retroagisce in una filosofia della storia che vedrebbe, riscrivendola,
la somma di una sequenza di accoglienze di profughi. Subito dopo afferma,
infatti, che la mitica fondazione di Roma verrebbe da “la discendenza di Enea, rifugiato, richiedente asilo e migrante troiano”.
Dopo i poveri Sen, Judt, Neruda, Hosbawm, Manzoni, anche Virgilio è quindi arruolato.
Peccato che il mito
fondativo di Roma, scritto per finalità geopolitiche e propagandistiche ma
capolavoro della letteratura mondiale, parli di un esercito, con navi proprie,
armamento pesante, organizzazione militare e guerrieri esperti, comandati da un
famoso eroe, che arriva sulle coste laziali, negozia inizialmente un
insediamento coloniale e poi si scontra in una sanguinosa guerra con le
autoctone popolazioni a causa di uno scontro su cultura e risorse.
Il mito di Virgilio, se
non evirato, parla molto meglio della realtà della formazione del ‘noi’.
Nel seguito Montanari
ha di nuovo ragione, la ‘nazione’ ha a che fare con la conoscenza, la cultura,
con il ruolo fondativo della tradizione culturale nel suo nesso sistematico con
il territorio, ma il suo argomento è fallace. Nella Costituzione italiana la
parola “Nazione” ricorre tre volte, l’art.9 non è l’unico e questa imprecisione
non è innocente, l’articolo citato recita:
“La
Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e
tecnica [33, 34]. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della
Nazione”.
Sembra abbastanza
evidente che qui, come negli articoli 67 (“Ogni membro del Parlamento
rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”) e
98 (I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione”) si tratta
di una pura denominazione tecnica. Non è chiaro come avrebbe altrimenti potuto
chiudere la frase, “tutela il paesaggio e il patrimonio storico… (del mondo?
dell’universo? Della Germania?)” ed anche “Ogni membro del parlamento
rappresenta… ?” (qui l’alternativa è “i cittadini che lo hanno votato”), o “i
pubblici impiegati sono al servizio esclusivo …?” (di chi li assume?).
Del resto la parola
“Patria” è citata all’art 52 (“La difesa della Patria è sacro dovere del
cittadino”) e 59, quella “Italia”, all’art 1 (“L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro”), 11;
molto più spesso ricorre “popolo”, art. 1 (quando recita “la sovranità appartiene al popolo”), 71, 101, 102, mentre quello
“Stato”, soprattutto nel fondamentale articolo 42.
Riporto il brano:
L’unico dei
principi fondamentali della Costituzione che usi la parola ‘nazione’ è
l’articolo 9, che mette in strettissima connessione “lo sviluppo della cultura
e la ricerca” e la tutela del “paesaggio e il patrimonio storico e artistico
della nazione”: in altri termini, il riconoscimento costituzionale della
nazione avviene in relazione alla conoscenza, e non al sangue o alla stirpe,
alla fede religiosa o alla lingua. La Repubblica, cioè, prende atto del ruolo
fondativo che la tradizione culturale, il suo sistematico nesso col territorio
e il suo incessante rinnovamento attraverso la ricerca hanno nella definizione
e nel continuo rinnovamento della nazione italiana.
L’interpretazione di
Montanari non discende dal testo, forzandolo. In particolare non discende dal
testo l’esclusione dal novero del concetto di ‘nazione’ della lingua. E ancora non
ne deriva, almeno non da qui, il rapporto che abbiamo con la nazione:
Un rapporto
non proprietario: di tutela, e non di consumo insostenibile. Un rapporto in cui tutti siamo provvisori,
migranti e stranieri: perché nessuno è padrone assoluto della terra.
Chiunque abbia oggi un figlio che frequenti una scuola pubblica (quella scuola
che Concetto Marchesi definisce in Costituente il “solo presidio della
Nazione”) vede come bambini di ogni provenienza divengano, giorno per giorno,
italiani: accettando di prendere parte a un patto, ma anche rinnovandolo con la
loro diversità. La nostra è un’identità non solo aperta a tutti coloro che vengono
in pace, ma anche aperta ai cambiamenti anche sostanziali che i nuovi italiani
porteranno: una nazione per via di cultura è per definizione multiculturale.
Un rapporto con la
“nazione” che ci farebbe tutti “stranieri”, sarebbe ben strano. E strano
metterlo nelle menti dei costituenti del 1947. La ragione addotta esula
dall’ermeneutica del testo, ma si sposta in un vertiginoso non sequitur:
“perché nessuno è padrone assoluto della terra”. Vero, infatti nella
Costituzione c’è l’art 42. Ma qui il senso sarebbe che nessuno è padrone
assoluto del pianeta, ovvero che il pianeta è proprietà comune indivisa
dell’insieme indiviso dell’umanità. Una tesi, se fosse questa, di enorme
portata e certamente non definita in questi termini nella Costituzione repubblicana.
Né aiutano frasi
apodittiche, che passano sopra un complesso e pluridecennale dibattito (cfr, ad
esempio “Jurgen
Habermas, Charles Taylor, ‘Multiculturalismo’” e “Charles
Taylor, ‘La topografia morale del sé’”), come “una nazione per via di
cultura è per definizione multiculturale”. A parte che la definizione della
Nazione solo per via di cultura l’ha tratta da una ermeneutica del testo
altamente arbitraria e mal argomentata, non si comprende perché una cultura
debba essere ‘multiculturale’ per definizione.
Nel seguito viene
richiamato l’Habermas della seconda parte di “Morale, diritto, politica” (di cui abbiamo letto “Sovranità
popolare come procedura”) nel saggio “Cittadinanza
politica e identità nazionale”, del 1992.
In questo
senso, la storia d’Italia risponde in modo profetico alle aspettative di chi –
come per esempio Habermas nel saggio su ‘Cittadinanza
politica e identità nazionale’ (1992) – indica la necessità di una
democrazia che sappia separare il popolo dall’etnia, suggerendo che il
nazionalismo possa essere rimpiazzato da un patriottismo costituzionale
ispirato da una costituzione cosmopolitica: come quella che avrebbe potuto
darsi l’Unione europea, in una delle grandi occasioni mancate di cui ora
paghiamo il conto.
Bisognerà tornarci,
perché il punto è delicato, la nozione di “Patriottismo
Costituzionale” viene introdotta da Habermas non in questo saggio del 1992,
ma sei anni prima nell’ambito di un dibattito con Nolte in un articolo su Die Zeit nello sforzo di conciliare
diritto ed identità culturale di un popolo. Una proposta fortemente procedurale
che vedeva appunto la procedura democratica (giuridica) come fondamento
identitario della nazione. Questa tesi, presente anche in lingua italiana in “La rivoluzione in corso”, 1990, che
ripubblica l’intervista con Jean Ferry del 1988 si è scontrata, da una parte
con le obiezioni di John Rawls, tese a dimostrare che alcuni diritti non sono a
diposizione delle procedure democratiche, e dal lato opposto, di comunitaristi
e neoaristotelici.
Il concetto, detto in
grande sintesi è che “la sovranità popolare della cittadinanza politica si
ritira nelle procedure giuridicamente istituzionalizzate e nei processi
informali (dischiusi dal quadro costituzionale) di una più o meno discorsiva
formazione dell’opinione e della volontà” (H. 1992, p.123).
Continua Montanari:
In ogni
caso, la Costituzione italiana del 1948 ha un’idea di nazione radicalmente
diversa da quella, chiusa e guerresca, nutrita dai grandi nazionalismi: tanto
che all’articolo 10 progetta un’Italia che accolga “lo straniero al quale sia
impedito l’effettivo esercizio dei diritti derivanti da libertà democratiche
garantite dalla Costituzione italiana”. Per questo ogni dottrina del
respingimento è incompatibile, da noi, con un vero patriottismo costituzionale
Anche Habermas, in
effetti, nel testo citato da Montanari discute dell’immigrazione (erano gli
anni dell’allargamento ad est dell’Unione Europea) e lascia cadere l’approccio
“utilitaristico” secondo il quale “un etnocentrismo strumentalmente fondato
sull’aspettativa di vantaggi reciproci, suggerirebbe di concedere agli
stranieri il visto d’ingresso, solo quando esista una fondata speranza che essi
non sovraccarichino la bilancia corrente delle prestazioni e delle
rivendicazioni” (ivi, p.131). Con ciò, già nel 1992, in condizione di
espansione e non al termine di dieci anni di stagnazione, Habermas ammette
implicitamente ciò che Montanari nega recisamente.
Ma continua, cercando
di affrontare la cosa ‘dal punto di vista morale’, ovvero facendo uso di una
morale imparziale di tipo kantiano. In questa prospettiva (allargando
l’esperimento mentale rawlsiano “su scala planetaria”) sarebbe da riconoscere
un diritto di immigrazione universale. Ma, continua, “legittime restrizioni al
diritto di immigrazione potrebbero essere giustificate da concorrenti e
alternativi punti di vista: per esempio dall’esigenza di evitare conflitti e
problemi che, per la loro entità, sarebbero in grado di rappresentare una seria
minaccia all’ordine pubblico o alla riproduzione economica della società” (ivi.
P.133). Ciò che Habermas, dalla sua costruzione liberale del moral point of
view, non ammette sono i “punti di vista relativi a discendenze genetiche,
linguaggio ed educazione”.
Questa impostazione, in
altre parole, fornisce qualche supporto al punto di Montanari, anche se non
supera gli argomenti pragmatici di impatto sopra ricordati.
Ma c’è anche una
diversa prospettiva, quella comunitaria, che riconduce a ‘forme di vita’
politiche, ascrittive e non scelte, nelle quali di costituisce l’identità dei
cittadini. Charles Taylor è un esempio. Secondo Habermas questa posizione è
inadeguata sul piano funzionale (dato il fatto dell’interconnessione e della
mondializzazione), ma “ha il pregio di sottolineare una componente etica che non è opportuno lasciare
cadere”. Richiama quindi l’opinione di Walzer, secondo il quale, cito, “il
diritto all’immigrazione trova il suo limite nel diritto di una collettività
politica a tutelare l’integrità della propria forma di vita” (vedi anche
Michael Walzer, “Che
cosa significa essere americani”).
Nelle conclusioni
Habermas, reputando che “è cominciata l’obsolescenza dello ‘stato di natura’
ancora perdurante tra gli Stati che hanno perso la loro sovranità”, giudica la
tensione verso la “situazione cosmopolitica” non più chimerica, bensì che “cittadinanza
politica e cittadinanza cosmopolitica costituiscono un continuum, che,
nonostante tutto, sta già prendendo forma” (ivi. p.137).
Obiettare alle
posizioni di Habermas è sempre un compito impegnativo e per certo esula dal presente
testo, mi limito a sottolineare le date: 1983-92. Questa prospettiva risente
cioè della fase ascendente neoliberale e si consolida nei dibattiti interni
alla nazione tedesca (in particolare nel “dibattito degli storici” a fronte
della questione del revisionismo) e a ridosso della caduta dell’Urss nella fase
di espansione imperiale americana. Ciò che chiama fase cosmopolita è solo una
fase di espansione imperiale indiretta e camuffata (leggeremo tra breve il
testo più rilevante di quegli anni, Francis Fukuyama “La fine della Storia”, di cui queste atmosfere sono
sofisticatissime versioni).
Finisce Montanari:
La
spaventosa diseguaglianza, le dimensioni della povertà, il tradimento della
sinistra e la rimozione della necessità di un conflitto sociale tra italiani
(cioè tra ricchi e poveri) hanno messo in ombra tutto questo, e rendono molti
nostri concittadini sensibili alle sirene del neo-nazionalismo di Salvini. Ma è
anche vero che la retorica per gli ‘italiani’ appare sempre più strumentale,
perché è sempre più chiaro che “c’è differenza tra il senso della propria
identità e quello che ne ha il potere che ci domina, il quale … sostituisce la
conoscenza effettiva delle differenze, storiche, culturali, ambientali per
degenerare in un duplice abuso: quello di concepire la distinzione come
barriera da alzare tra un gruppo umano e un altro, e quello di ignorare la
dimensione del mutamento, che appartiene alla storia” (Adriano Prosperi, “Identità. L’altra faccia della storia”,
Laterza, 2016).
Richiamando e
riportandosi all’operazione di distrazione, e solo in questi termini, incontra di nuovo il nostro assenso. Le questioni
centrali sono la spaventosa disuguaglianza, strutturalmente incorporata nei modi
di funzionamento e produzione della società liberale, le dimensioni della
povertà che ne conseguono, dal punto di Salvini la necessità, non volendo
affrontare i nodi con la necessaria radicalità di spostare il conflitto dalla
classe (che, dispiace, ma non è tra ‘ricchi
e poveri’, rileggere Marx sta tornando di moda, se ne gioverebbe) in altre
direzioni.
Ma non lo siamo con la
conclusione:
In fondo
sappiamo tutti benissimo che l’Italia del 2100 sarà multietnica e dunque
multiculturale, o non sarà: si tratta di capire che, in realtà, lo è sempre
stata. Chi oggi lo nega sta solo cercando di mettere a reddito la paura dello
straniero sventolando le false bandiere di una identità inventata: senza
passato, e senza futuro.
Forse lui (e l’Habermas
del 1992) sanno che l’Italia del 2100 sarà multiculturale, ma io non sono in
grado di vedere di qui a ottanta anni e non penso che allo stato attuale del
mondo (con un solo dominus e la finanza che abbatte ogni differenza, rendendo
tutti soli e deboli al suo cospetto) non ci siano alternative.
Alla fine si arriva
sempre al TINA.
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