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venerdì 14 settembre 2018

Luca Ricolfi, “Sinistra e popolo”



Il noto sociologo Luca Ricolfi scrive questo libro nel 2017, ad evidente ridosso degli sconvolgenti eventi del 2016 (la Brexit, l’elezione di Trump e la fine di Renzi in rapida successione) e si interroga, quando ancora non è arrivato l’evento del crollo simultaneo dei partiti della ‘seconda repubblica’, con conseguente allontanamento dal potere, sulle ragioni per le quali la sinistra non riesce più a stabilire una relazione con quel ‘popolo’ che ormai in tutto l’occidente sembra essenzialmente alla ricerca di protezione dall’incertezza economica, dal terrorismo, dall’immigrazione, esprimendo un bisogno di rassicurazione ed articolandolo con richieste e linguaggio al quale la sinistra non è pronta.



Il libro è piuttosto ambizioso e parte da un’ampia ricostruzione, non sempre condivisibile, dell’intero arco delle trasformazioni del quadro economico internazionale degli ultimi quaranta anni, iscrivendo la parabola della sinistra in questo quadro. All’avvio compie anche un’utile ricostruzione delle definizioni di ‘destra’ e ‘sinistra’ presenti in letteratura distinguendo quelle per le quali uno dei termini rappresenta il ‘bene’ e l’altro, simmetricamente, il ‘male’ da quelle, e sono la minoranza, in cui invece la definizione è simmetrica.

Il cuore dell’argomento di Ricolfi, in continuità con i suoi libri precedenti sulla sindrome di Berlusconi, è che la sinistra, identificandosi con il bene, il progresso, la modernità, si sente superiore e disprezza la posizione avversa, identificata con i vizi simmetrici ed il male. La sinistra ha, insomma, il ‘complesso dei migliori’ e questo la rende antipatica ai più. A partire in particolare dagli anni novanta, quelli dell’opposizione a Berlusconi, la sinistra è caratterizzata da “indifferenza ai fatti, distanza dal senso comune, infatuazione per il politicamente corretto, sentimento di superiorità morale”, dalla convinzione di essere, insomma, “la parte migliore del paese”.

Questo sentimento, si è allargato soprattutto nei cosiddetti “ceti medi riflessivi”, che non vivono alcun dramma esistenziale e sociale, e che in tale modo risolvono il senso di colpa e rafforzano l’autostima. Una simile tesi viene anche ripresa, ma per gli USA e la Svezia, dall’antropologo Jonathan Friedman in “Politicamente corretto”. Si definisce in questo modo una forma di comunicazione sociale che utilizza una logica “associativa” (in base alla quale se esprimi una data proposizione, ad esempio sull’immigrazione auspicandone il controllo, allora devi necessariamente avere anche una specifica identità, ad esempio razzista), o in termini più tecnici la valenza “indessicale” prevale sul contenuto semantico, il contesto sul contenuto. Una affermazione diventa ‘vera’ o ‘falsa’ non in riferimento a fatti del mondo ma alla posizione rispetto al mondo morale, a seconda che sia buona o cattiva. In un certo senso, ed in forma inconsapevole, si tratta dell’utilizzo politico della morale per controllare la comunicazione, censurandone i poteri all’origine in tempi di grande incertezza, quando le chiavi per capire il mondo “grande e terribile” si sono fatte complesse ed inattingibili. È una reazione a due fatti congiunti: la caduta dei quadri di riferimento culturali ed ideologici (che consentivano di semplificare il mondo) e la perdita del senso di sé che ne deriva. Come scrive Friedman si tratta sostanzialmente de “la moralizzazione dell'universo sociale e la dicotomizzazione tra ciò che si può dire e ciò che non si può dire”. Di fatto questa selezione ex ante dei temi giudicati sensibili esplica un potente controllo sociale fondato sulla vergogna. E manifesta un potente effetto egemonico, generalizzando questioni locali per trasformarle in verità autoevidenti, tra queste il nuovo centro dell’identità ‘corretta’, il multiculturalismo, il globalismo ed il progressismo. La prima cosa che ti viene detto è ciò che ‘avanza’ e ciò che ‘arretra’.
Una delle conseguenze (alla quale inclina anche Ricolfi) è di considerare liberale come sinonimo di progressista e socialista di reazionario.

Ma questo atteggiamento ha di fatto allontanato la sinistra dal suo vecchio ‘popolo’, che richiede invece protezione e si rifugia nei movimenti che si definiscono ‘populisti’-; movimenti che Ricolfi individua come di ‘destra’, se osteggiano la mobilità delle persone, e di ‘sinistra’ se quella delle merci e dei capitali. Una domanda comunque, quella di protezione, che è legittima ma che la sinistra, “imbottita di politicamente corretto e prigioniera del totem dell’accoglienza” non può in alcun modo riconoscere.
Non può perché ogni singolo pagherebbe molto caro l’accettarlo, nel contesto della nuova cultura del ‘politicamente corretto’, che è un contesto di insicurezza, ovvero di transizione egemonica delle élite, l’identificazione narcisistica diventa infatti la principale forma di agire sociale. Per cui il solo non essere sicuri, ad esempio, dell’inevitabilità di un mondo trans-nazionale come approdo finale della storia significa essere reazionari. Mettere in questione l’implicita visione della storia come di un binario rettilineo verso il “Bene”, significa volere il medioevo e il ritorno all’aratro trascinato dai buoi. Non ammettere che lo Stato Nazionale sia in sé obsoleto, essere fascista, o almeno un antiquato conservatore.

Attraverso questa nuova polarizzazione avviene qualcosa di importante: si apre una frattura politica diversa da quella tradizione ‘destra’/’sinistra’, una frattura che si organizza su ‘apertura’/’chiusura’.

Le definizioni che l’autore ricostruisce della polarità tradizionale destra/sinistra, sono quelle di Giovanni Sartori, Michele Serra, Alfio Mastropaolo, Paolo Flores d’Arcais, e di Alan de Benoiste, tutte asimmetriche e polarizzanti. Quindi la definizione in chiave di differenza antropologica di Lakoff (padre severo vs genitore premuroso), e di Veneziani (comunitari vs liberal). Ma ci sono anche etica dell’onore vs etica della generosità, radicamento vs emancipazione, egoismo vs altruismo, interessi particolari vs generali, individuali vs collettivi, conservazione vs progresso, autorità vs ragione, diversità vs omologazione.
Quindi c’è il famosissimo schema di Bobbio che riconduce la sinistra alla eguaglianza e la destra alla disuguaglianza, evitando accuratamente di riportarla alla libertà.

E poi ci sono gli schemi simmetrici, dove non c’è una parte buona ed una cattiva. Quello che viene descritto meglio è quello di Hayek, che propone uno schema tripolare in “Perché non sono un conservatore”. Secondo l’austriaco il nucleo della posizione liberale è la fiducia nella libertà individuale e nell’evoluzione spontanea della società, e quindi la sfiducia conseguente nei poteri del governo. I ‘socialisti’ sono l’opposto. Ma entrambi sono avversari di un nemico comune, i ‘conservatori’. ‘Liberali’ e ‘socialisti’ in effetti tirano in direzioni opposte, ma vogliono entrambi il cambiamento. La coppia che li distingue è quindi ‘eguaglianza’ vs ‘libertà’.

Bobbio non accetta la tripartizione di Hayek, e neppure la cita, perché cerca di costruire una posizione che unisca liberalismo e socialismo (che per l’austriaco è impossibile).



Se questo era l’assetto tradizionale, con la sinistra che tendeva all’eguaglianza, all’intervento pubblico ed alla protezione dei deboli, cosa è cambiato? La cosa per Ricolfi inizia con la fine dell’età dell’oro, il ‘trentennio glorioso’, ricondotta all’analisi di O’Connor sulla ‘crisi fiscale dello Stato’, preso nella tenaglia tra uno Stato Sociale cresciuto troppo e un settore industriale il cui incremento di produttività rallenta. Insomma, pieno impiego e welfare si rafforzano, fanno esplodere le lotte salariali e, nella lettura tradizionale dell’autore “non possono che sottrarre risorse all’accumulazione e alla crescita” (per via della riduzione degli investimenti). Una lettura mainstream (e non sarà l’unica) alla quale si aggiunge lo shock esterno determinato dalla interruzione della convertibilità del dollaro in oro nel 1971 e la formazione dell’Opec nel 1973 (due eventi connessi). Le due cose insieme, anzi le tre, lasciano partire le spinte inflazionistiche e le politiche monetarie determinano la stagnazione. Parte la stagflazione. Ma per diversi anni il welfare continua ad espandersi e ‘sacrifica la crescita’ (ancora una lettura mainstream, in altra lettura contrasta il rallentamento sostenendo la domanda che è la vera ragione degli investimenti). Il finanziamento di questa espansione si ha o dalla spesa in deficit, o dalla riduzione degli investimenti pubblici o dall’aumento della pressione fiscale (l’uno e l’altro paese assumono una ricetta diversa in proposito). Il deficit pubblico quintuplica, ma il debito rispetto al Pil no, qui la spiegazione di Ricolfi, che non è un economista, soffre di problemi di logica e di contabilità, ma passim (p.73). Per un’altra spiegazione di tipo keynesiano, si veda Hyman Minsky, “Keynes e l’instabilità del capitalismo”.
Si arriva alla svola liberista, avviata da Jimmy Carter, che nomina Volker, il quale innalzando i tassi a livelli draconiani interrompe l’inflazione e porta il mondo sulla strada della recessione. In modo del tutto intenzionale con questa manovra aumenta la disoccupazione e spezza la forza dei sindacati, raffreddando le domande salariali; si interrompe la corsa al welfare e la recessione porta i prezzi lontani dall’inflazione. Una lettura diversa di questi processi in Wolfgang Streeck, “Tempo guadagnato”, o sul piano delle trasformazioni sociali del mondo del lavoro, Richard Sennett, “La cultura del nuovo capitalismo”, “L’uomo flessibile” e Bauman “Individualmente insieme” e “Il demone della paura”.

Liberalizzazioni e deregolazioni avviano la fiammata liberista. Segue la crescita della finanza e la crisi terminale dell’Urss. Tra il 1989 ed il 1991 nasce il WTO e comincia la fase della ‘globalizzazione’ sotto il controllo dell’unico egemone rimasto. Con questo processo si saldano tra di loro due idee di fondo: “che con la caduta del comunismo finisce la Storia, secondo la celebre tesi di Fukuyama (1992), perché da allora in poi il capitalismo non avrebbe più avuto rivali. E che i successi del capitalismo anglo-americano indicavano a tutti i paesi la via da seguire, quella di una crescente liberalizzazione delle transazioni economiche, con conseguente integrazione delle economie in tutto il mondo” (p.84). Si veda Dani Rodrik “La globalizzazione intelligente”, e per una lettura non economica Giovanni Arrighi “Il lungo XX secolo”.
Si tratta di un nuovo paradigma il cui entusiasmo contagia profondamente la sinistra, ma si tratta essenzialmente di un modello basato sugli squilibri.

Sotto la crescita globale, come molti cominciano a segnalare, si muovono profondi forze che scavano condizioni di crescente ineguaglianza (vedi ad esempio, Stiglitz, “Il prezzo della disuguaglianza”, Branko Milanovic “Mondi divisi”, ed ovviamente Thomas Piketty “Il capitale del XXI secolo”) ed impoverimento dei ceti medi e medio-inferiori. Si finisce secondo alcuni ad accumulare in occidente una decisiva carenza di domanda aggregata e in oriente un eccesso di riserve prudenziali (tesi, ad esempio, di Stiglitz, in “La globalizzazione e i suoi oppositori”). Secondo altri un eccesso di debiti nella parte pubblica, o in alcuni casi privata (per una lettura molto buona di parte liberale si veda Raghuram Rajan “Terremoti finanziari”).

La sinistra, in particolare la cosiddetta ‘terza via’ segue la seconda tesi e tiene ferma la necessità di finanziarizzazione e globalizzazione. La ragione è che “la globalizzazione, nella misura in cui è essenzialmente un processo di caduta delle barriere, che progressivamente accorcia tutte le distanze fra paesi e persone, entra automaticamente in sintonia con tutti i più grandi sogni della sinistra: il cosmopolitismo, l’apertura delle frontiere, la circolazione delle idee (ed internet), l’uscita dei paesi arretrati dalla povertà, la diffusione della democrazia, l’avanzamento dei diritti umani (anche a costo di usare la forza)” (p.102). Ma queste stesse forze mettono a dura prova le economie avanzate (si veda anche nel contesto europeo, Wofgang Streeck, “L’ascesa dello Stato di consolidamento europeo”).

Questo è il cortocircuito primario, lo snodo.

Si ha un mondo che è cambiato, in cui nuove tecnologie connettono ed avvicinano tutto, dove intere aree sono deindustrializzate.

In questo modo si arriva alla lunga crisi aperta nel 2007. Tutte le basi si erodono e rendono “terribilmente inattuali la destra e la sinistra”. Ciò perché “alla loro concorde volontà di aprire le frontiere a tutti i livelli – merci, capitali, persone, informazioni – si deve il trionfo della globalizzazione, ma a entrambe la globalizzazione ha fatto mancare la terra sotto i piedi”. Si veda Joseph Stiglitz, “Bancarotta”, Paul Krugman “Il ritorno dell’economia della depressione”,

Si entra quindi nella fase della “rivolta dei popoli” (o, come dice Spannaus, “la rivolta degli elettori”).

Cioè si entra in una fase nella quale si afferma la forma populista, per i quali il sistema sociale, lungi dal non esistere come per i liberali, è una comunità, ma è visto come unità in qualche modo organica. Chi è con il popolo è in una unità, mentre chi non vi è è semplicemente fuori; uno schema dentro/fuori, o popolo/élite, che non segue quello della lotta di classe. Secondo la schematizzazione di Ricolfi (che è piuttosto sommaria) questa visione necessariamente comunitaria ed organica prova diffidenza per gli altri popoli e la tendenza a “lasciare che ogni popolo viva e si organizza a proprio modo, senza subire brutali interventi da parte di altri popoli” (p.116). Si veda per una visione in parte diversa Ernesto Laclau, “La ragione populista”.

Dopo aver enunciato il principio di una sorta di autodeterminazione, in sé non nuovo e non incompatibile con lo scontro egemonico interno tra classi e interessi.

Si tratta per l’autore di una matrice romantica, che fa risalire all’allievo di Durkheim, Marcel Mauss (di cui abbiamo letto il “Saggio sul dono” e “La nozione di persona”),  e Karl Polanyi (di cui abbiamo letto “La grande trasformazione”), ma anche a Marshal Sahlins (“Un grosso sbaglio. L’idea occidentale di natura umana”). Come dice, “per certi versi a Durkheim e Marx”. Una visione che fa risalire la coesione alla relazioni tra le persone e che si oppone all’illuminismo (almeno gli ultimi due si sarebbero abbastanza indispettiti di questo giudizio).

Con questa radice culturale, descritta davvero sommariamente, Ricolfi individua nel populismo una fase di riapparizione (1071-84), una fase di proliferazione (1985-2007) ed una fase di sfondamento (2008-16). Durante questa, ma anche in America latina durante le precedenti, si forma un populismo di sinistra, il cui più rilevante esempio è Podemos. A suo parere la spinta viene da paura e richiesta di protezione.

Questo è il sommario quadro nel quale l’autore radica la sua tesi secondo la quale, ormai:
1-     I ceti popolari non votano più a sinistra,
2-     La sinistra raccoglie i ceti medi urbani,
3-     Il popolo preferisce i populisti.
I temi sui quali si forma la divaricazione sono, quindi:
a-     L’immigrazione
b-     La globalizzazione
c-     L’Unione Europea
d-     Il terrorismo

Purtroppo la sinistra vede tutti questi temi, salvo l’ultimo, come opportunità o come soluzioni, e non come problemi o minacce. In conseguenza, da brava figlia degli anni novanta, finisce per essere:
-        derisoria
-        sprezzante
-        supponente

Invece “per vedere il problema la sinistra dovrebbe rivoluzionare il suo racconto degli ultimi decenni, rinunciando all’immagine che ha di se stessa” (p.164).

In fondo è tutto logico, perché tutti i temi indicati sono effettivamente delle soluzioni per alcuni mentre sono dei problemi per altri, la richiesta di protezione dei danneggiati, quindi, non è ascoltata perché viene da altri. Ormai la sinistra ha come suo popolo quelli che si avvantaggiano di questi fenomeni ed è estranea a quelli che ne sono danneggiati, con le parole dell’autore: “non vede la richiesta di protezione perché non è del suo popolo”.
La constituency della sinistra, infatti, “è formata dai lavoratori dipendenti istruiti, occupati nella PA, nei servizi privati e nelle grandi fabbriche”, uniti ai professionisti della cultura, cioè a ‘ceti medi riflessivi’ o ‘società delle garanzie’.

Avendo abbandonato anzi gli strati inferiori, ma pensandosi ancora come compassionevole verso gli ultimi (una posizione ormai più morale-religiosa che altro), ha in qualche modo paradossale bisogno dei migranti per fingere ancora di rivolgersi a degli ultimi. Una posizione intrisa di politicamente corretto che la porta a vivere in universi incomunicanti.
Ma il ‘politicamente corretto’, in questa condizione di perdita di identità, è molto importante, perché è una potente fonte di autostima e di prestigio sociale, in pratica senza costare nulla.

In sostanza, se la vecchia ‘società dei due terzi’ finisce per diventare, se va bene, società dell’un terzo, con due parti del corpo sociale risospinte in basso e spaventate, allora il conflitto si sposta e si avvia la rivolta dei popoli.

Una rivolta nella quale il divario tra sinistra e popolo la spingerà a margine della scena (ed il libro è scritto prima del marzo 2018). Come dice, “là dove, invece, globalizzazione, immigrazione e terrorismo dovessero lacerare in modo profondo il tessuto della vita sociale, tutto fa pensare che solo le forze populiste saranno in grado di rappresentare la marea montante della domanda di protezione, e che la loro risposta non potrà che essere qualche tipo di ristabilimento dell’autorità degli Stati nazionali”. Secondo l’autore il divorzio tra queste forze e il “popolo” è ormai irreversibile, gli strati periferici si sono staccati e hanno come riferimento queste nuove forze.


Il quadro che disegna al fine Ricolfi è di un futuro prossimo nel quale ‘destra’ e ‘sinistra’ saranno solo aggettivazioni della frattura principale che si istituisce tra ‘populisti ‘ (di ‘destra’ e ‘sinistra’) e le forze ‘dell’apertura’, che vogliono continuare il percorso della globalizzazione.

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