Il noto sociologo Luca Ricolfi scrive questo libro nel 2017, ad evidente ridosso degli
sconvolgenti eventi del 2016 (la Brexit, l’elezione di Trump e la fine di Renzi
in rapida successione) e si interroga, quando ancora non è arrivato l’evento
del crollo simultaneo dei partiti della ‘seconda repubblica’, con conseguente
allontanamento dal potere, sulle ragioni per le quali la sinistra non riesce
più a stabilire una relazione con quel ‘popolo’ che ormai in tutto l’occidente
sembra essenzialmente alla ricerca di protezione dall’incertezza economica, dal
terrorismo, dall’immigrazione, esprimendo un bisogno di rassicurazione ed
articolandolo con richieste e linguaggio al quale la sinistra non è pronta.
Il libro è piuttosto ambizioso e parte da un’ampia
ricostruzione, non sempre condivisibile, dell’intero arco delle trasformazioni
del quadro economico internazionale degli ultimi quaranta anni, iscrivendo la
parabola della sinistra in questo quadro. All’avvio compie anche un’utile
ricostruzione delle definizioni di ‘destra’ e ‘sinistra’ presenti in
letteratura distinguendo quelle per le quali uno dei termini rappresenta il
‘bene’ e l’altro, simmetricamente, il ‘male’ da quelle, e sono la minoranza, in
cui invece la definizione è simmetrica.
Il cuore dell’argomento di Ricolfi, in continuità con
i suoi libri precedenti sulla sindrome di Berlusconi, è che la sinistra,
identificandosi con il bene, il progresso, la modernità, si sente superiore e
disprezza la posizione avversa, identificata con i vizi simmetrici ed il male.
La sinistra ha, insomma, il ‘complesso dei migliori’ e questo la rende
antipatica ai più. A partire in particolare dagli anni novanta, quelli
dell’opposizione a Berlusconi, la sinistra è caratterizzata da “indifferenza ai fatti, distanza dal senso
comune, infatuazione per il politicamente corretto, sentimento di superiorità
morale”, dalla convinzione di essere, insomma, “la parte migliore del paese”.
Questo sentimento, si è allargato soprattutto nei
cosiddetti “ceti medi riflessivi”,
che non vivono alcun dramma esistenziale e sociale, e che in tale modo
risolvono il senso di colpa e rafforzano l’autostima. Una simile tesi viene
anche ripresa, ma per gli USA e la Svezia, dall’antropologo Jonathan Friedman
in “Politicamente
corretto”. Si definisce in questo modo una forma di comunicazione sociale
che utilizza una logica “associativa” (in base alla quale se esprimi una data
proposizione, ad esempio sull’immigrazione auspicandone il controllo, allora devi necessariamente avere anche una
specifica identità, ad esempio razzista), o in termini più tecnici la valenza
“indessicale” prevale sul contenuto semantico, il contesto sul contenuto. Una
affermazione diventa ‘vera’ o ‘falsa’ non in riferimento a fatti del mondo ma
alla posizione rispetto al mondo morale, a seconda che sia buona o cattiva. In
un certo senso, ed in forma inconsapevole, si tratta dell’utilizzo politico
della morale per controllare la comunicazione, censurandone i poteri
all’origine in tempi di grande incertezza, quando le chiavi per capire il mondo
“grande e terribile” si sono fatte complesse ed inattingibili. È una reazione a
due fatti congiunti: la caduta dei quadri di riferimento culturali ed
ideologici (che consentivano di semplificare il mondo) e la perdita del senso
di sé che ne deriva. Come scrive Friedman si tratta sostanzialmente de “la moralizzazione dell'universo sociale e la
dicotomizzazione tra ciò che si può dire e ciò che non si può dire”. Di
fatto questa selezione ex ante dei temi giudicati sensibili esplica un potente
controllo sociale fondato sulla vergogna. E manifesta un potente effetto
egemonico, generalizzando questioni locali per trasformarle in verità
autoevidenti, tra queste il nuovo centro dell’identità ‘corretta’, il multiculturalismo, il globalismo ed il progressismo. La
prima cosa che ti viene detto è ciò che ‘avanza’
e ciò che ‘arretra’.
Una delle conseguenze (alla quale inclina anche
Ricolfi) è di considerare liberale come sinonimo di progressista e socialista
di reazionario.
Ma questo atteggiamento ha di fatto allontanato la
sinistra dal suo vecchio ‘popolo’, che richiede invece protezione e si rifugia
nei movimenti che si definiscono ‘populisti’-; movimenti che Ricolfi individua
come di ‘destra’, se osteggiano la mobilità delle persone, e di ‘sinistra’ se
quella delle merci e dei capitali. Una domanda comunque, quella di protezione,
che è legittima ma che la sinistra, “imbottita di politicamente corretto e
prigioniera del totem dell’accoglienza” non può in alcun modo riconoscere.
Non può perché ogni singolo pagherebbe molto caro l’accettarlo,
nel contesto della nuova cultura del ‘politicamente corretto’, che è un
contesto di insicurezza, ovvero di transizione egemonica delle élite, l’identificazione narcisistica diventa
infatti la principale forma di agire
sociale. Per cui il solo non essere sicuri, ad esempio, dell’inevitabilità
di un mondo trans-nazionale come approdo finale della storia significa essere
reazionari. Mettere in questione l’implicita visione della storia come di un
binario rettilineo verso il “Bene”, significa volere il medioevo e il ritorno
all’aratro trascinato dai buoi. Non ammettere che lo Stato Nazionale sia in sé
obsoleto, essere fascista, o almeno un antiquato conservatore.
Attraverso questa nuova polarizzazione avviene
qualcosa di importante: si apre una frattura politica diversa da quella
tradizione ‘destra’/’sinistra’, una frattura che si organizza su
‘apertura’/’chiusura’.
Le definizioni che l’autore ricostruisce della
polarità tradizionale destra/sinistra, sono quelle di Giovanni Sartori, Michele
Serra, Alfio Mastropaolo, Paolo Flores d’Arcais, e di Alan de Benoiste, tutte
asimmetriche e polarizzanti. Quindi la definizione in chiave di differenza
antropologica di Lakoff (padre severo vs genitore premuroso), e di Veneziani
(comunitari vs liberal). Ma ci sono anche etica dell’onore vs etica della
generosità, radicamento vs emancipazione, egoismo vs altruismo, interessi
particolari vs generali, individuali vs collettivi, conservazione vs progresso,
autorità vs ragione, diversità vs omologazione.
Quindi c’è il famosissimo schema di Bobbio che
riconduce la sinistra alla eguaglianza e la destra alla disuguaglianza,
evitando accuratamente di riportarla alla libertà.
E poi ci sono gli schemi simmetrici, dove non c’è una
parte buona ed una cattiva. Quello che viene descritto meglio è quello di
Hayek, che propone uno schema tripolare in “Perché
non sono un conservatore”. Secondo l’austriaco il nucleo della posizione
liberale è la fiducia nella libertà individuale e nell’evoluzione spontanea
della società, e quindi la sfiducia conseguente nei poteri del governo. I
‘socialisti’ sono l’opposto. Ma entrambi sono avversari di un nemico comune, i
‘conservatori’. ‘Liberali’ e ‘socialisti’ in effetti tirano in direzioni
opposte, ma vogliono entrambi il cambiamento. La coppia che li distingue è
quindi ‘eguaglianza’ vs ‘libertà’.
Bobbio non accetta la tripartizione di Hayek, e
neppure la cita, perché cerca di costruire una posizione che unisca liberalismo
e socialismo (che per l’austriaco è impossibile).
Se questo era l’assetto tradizionale, con la sinistra
che tendeva all’eguaglianza, all’intervento pubblico ed alla protezione dei
deboli, cosa è cambiato? La cosa per Ricolfi inizia con la fine dell’età
dell’oro, il ‘trentennio glorioso’, ricondotta all’analisi di O’Connor sulla ‘crisi
fiscale dello Stato’, preso nella tenaglia tra uno Stato Sociale cresciuto
troppo e un settore industriale il cui incremento di produttività rallenta.
Insomma, pieno impiego e welfare si rafforzano, fanno esplodere le lotte salariali
e, nella lettura tradizionale dell’autore “non possono che sottrarre risorse
all’accumulazione e alla crescita” (per via della riduzione degli
investimenti). Una lettura mainstream (e non sarà l’unica) alla quale si
aggiunge lo shock esterno determinato dalla interruzione della convertibilità
del dollaro in oro nel 1971 e la formazione dell’Opec nel 1973 (due eventi
connessi). Le due cose insieme, anzi le tre, lasciano partire le spinte
inflazionistiche e le politiche monetarie determinano la stagnazione. Parte la
stagflazione. Ma per diversi anni il welfare continua ad espandersi e
‘sacrifica la crescita’ (ancora una lettura mainstream, in altra lettura contrasta
il rallentamento sostenendo la domanda che è la vera ragione degli investimenti).
Il finanziamento di questa espansione si ha o dalla spesa in deficit, o dalla
riduzione degli investimenti pubblici o dall’aumento della pressione fiscale
(l’uno e l’altro paese assumono una ricetta diversa in proposito). Il deficit
pubblico quintuplica, ma il debito rispetto al Pil no, qui la spiegazione di
Ricolfi, che non è un economista, soffre di problemi di logica e di
contabilità, ma passim (p.73). Per un’altra
spiegazione di tipo keynesiano, si veda Hyman Minsky, “Keynes
e l’instabilità del capitalismo”.
Si arriva alla svola liberista, avviata da Jimmy
Carter, che nomina Volker, il quale innalzando i tassi a livelli draconiani
interrompe l’inflazione e porta il mondo sulla strada della recessione. In modo
del tutto intenzionale con questa manovra aumenta la disoccupazione e spezza la
forza dei sindacati, raffreddando le domande salariali; si interrompe la corsa
al welfare e la recessione porta i prezzi lontani dall’inflazione. Una lettura
diversa di questi processi in Wolfgang Streeck, “Tempo
guadagnato”, o sul piano delle trasformazioni sociali del mondo del
lavoro, Richard Sennett, “La
cultura del nuovo capitalismo”, “L’uomo
flessibile” e Bauman “Individualmente
insieme” e “Il
demone della paura”.
Liberalizzazioni e deregolazioni avviano la fiammata
liberista. Segue la crescita della finanza e la crisi terminale dell’Urss. Tra
il 1989 ed il 1991 nasce il WTO e comincia la fase della ‘globalizzazione’
sotto il controllo dell’unico egemone rimasto. Con questo processo si saldano
tra di loro due idee di fondo: “che con la caduta del comunismo finisce la
Storia, secondo la celebre tesi di Fukuyama (1992), perché da allora in poi il
capitalismo non avrebbe più avuto rivali. E che i successi del capitalismo
anglo-americano indicavano a tutti i paesi la via da seguire, quella di una
crescente liberalizzazione delle transazioni economiche, con conseguente
integrazione delle economie in tutto il mondo” (p.84). Si veda Dani Rodrik “La
globalizzazione intelligente”, e per una lettura non economica Giovanni
Arrighi “Il
lungo XX secolo”.
Si tratta di un nuovo paradigma il cui entusiasmo
contagia profondamente la sinistra, ma si tratta essenzialmente di un modello
basato sugli squilibri.
Sotto la crescita globale, come molti cominciano a
segnalare, si muovono profondi forze che scavano condizioni di crescente
ineguaglianza (vedi ad esempio, Stiglitz, “Il
prezzo della disuguaglianza”, Branko Milanovic “Mondi
divisi”, ed ovviamente Thomas Piketty “Il
capitale del XXI secolo”) ed impoverimento dei ceti medi e
medio-inferiori. Si finisce secondo alcuni ad accumulare in occidente una
decisiva carenza di domanda aggregata e in oriente un eccesso di riserve
prudenziali (tesi, ad esempio, di Stiglitz, in “La
globalizzazione e i suoi oppositori”). Secondo altri un eccesso di
debiti nella parte pubblica, o in alcuni casi privata (per una lettura molto
buona di parte liberale si veda Raghuram Rajan “Terremoti
finanziari”).
La sinistra, in particolare la cosiddetta ‘terza
via’ segue la seconda tesi e tiene ferma la necessità di
finanziarizzazione e globalizzazione. La ragione è che “la globalizzazione,
nella misura in cui è essenzialmente un processo di caduta delle barriere, che
progressivamente accorcia tutte le distanze fra paesi e persone, entra
automaticamente in sintonia con tutti i più grandi sogni della sinistra: il
cosmopolitismo, l’apertura delle frontiere, la circolazione delle idee (ed
internet), l’uscita dei paesi arretrati dalla povertà, la diffusione della
democrazia, l’avanzamento dei diritti umani (anche a costo di usare la forza)”
(p.102). Ma queste stesse forze mettono a dura prova le economie avanzate (si
veda anche nel contesto europeo, Wofgang Streeck, “L’ascesa
dello Stato di consolidamento europeo”).
Questo è il
cortocircuito primario, lo snodo.
Si ha un mondo che è cambiato, in cui nuove tecnologie
connettono ed avvicinano tutto, dove intere aree sono deindustrializzate.
In questo modo si arriva alla lunga crisi aperta nel
2007. Tutte le basi si erodono e rendono “terribilmente inattuali la destra e
la sinistra”. Ciò perché “alla loro concorde volontà di aprire le frontiere a
tutti i livelli – merci, capitali, persone, informazioni – si deve il trionfo
della globalizzazione, ma a entrambe la globalizzazione ha fatto mancare la
terra sotto i piedi”. Si veda Joseph Stiglitz, “Bancarotta”,
Paul Krugman “Il
ritorno dell’economia della depressione”,
Si entra quindi nella fase della “rivolta dei popoli”
(o, come dice Spannaus, “la rivolta degli elettori”).
Cioè si entra in una fase nella quale si afferma la forma populista, per i quali il sistema
sociale, lungi dal non esistere come per i liberali, è una comunità, ma è visto
come unità in qualche modo organica. Chi è con il popolo è in una unità, mentre
chi non vi è è semplicemente fuori; uno schema dentro/fuori, o popolo/élite,
che non segue quello della lotta di classe. Secondo la schematizzazione di Ricolfi
(che è piuttosto sommaria) questa visione necessariamente comunitaria ed
organica prova diffidenza per gli altri popoli e la tendenza a “lasciare che
ogni popolo viva e si organizza a proprio modo, senza subire brutali interventi
da parte di altri popoli” (p.116). Si veda per una visione in parte diversa
Ernesto Laclau, “La
ragione populista”.
Dopo aver enunciato il principio di una sorta di
autodeterminazione, in sé non nuovo e non incompatibile con lo scontro
egemonico interno tra classi e interessi.
Si tratta per l’autore di una matrice romantica, che
fa risalire all’allievo di Durkheim, Marcel Mauss (di cui abbiamo letto il “Saggio
sul dono” e “La
nozione di persona”), e Karl
Polanyi (di cui abbiamo letto “La
grande trasformazione”), ma anche a Marshal Sahlins (“Un
grosso sbaglio. L’idea occidentale di natura umana”). Come dice, “per
certi versi a Durkheim e Marx”. Una visione che fa risalire la coesione alla
relazioni tra le persone e che si oppone all’illuminismo (almeno gli ultimi due
si sarebbero abbastanza indispettiti di questo giudizio).
Con questa radice culturale, descritta davvero
sommariamente, Ricolfi individua nel populismo una fase di riapparizione
(1071-84), una fase di proliferazione (1985-2007) ed una fase di sfondamento
(2008-16). Durante questa, ma anche in America latina durante le precedenti, si
forma un populismo di sinistra, il cui più rilevante esempio è Podemos. A suo
parere la spinta viene da paura e richiesta di protezione.
Questo è il sommario quadro nel quale l’autore radica
la sua tesi secondo la quale, ormai:
1-
I ceti popolari
non votano più a sinistra,
2-
La sinistra
raccoglie i ceti medi urbani,
3-
Il popolo
preferisce i populisti.
I temi sui quali si forma la divaricazione sono,
quindi:
a-
L’immigrazione
b-
La globalizzazione
c-
L’Unione Europea
d-
Il terrorismo
Purtroppo la sinistra vede tutti questi temi, salvo
l’ultimo, come opportunità o come soluzioni, e non come problemi o minacce. In conseguenza, da brava figlia degli anni novanta,
finisce per essere:
-
derisoria
-
sprezzante
-
supponente
Invece “per vedere il problema la sinistra dovrebbe
rivoluzionare il suo racconto degli ultimi decenni, rinunciando all’immagine
che ha di se stessa” (p.164).
In fondo è tutto logico, perché tutti i temi indicati sono effettivamente delle soluzioni per alcuni
mentre sono dei problemi per altri, la richiesta di protezione dei
danneggiati, quindi, non è ascoltata perché viene da altri. Ormai la sinistra ha come suo popolo quelli che si
avvantaggiano di questi fenomeni ed è estranea a quelli che ne sono
danneggiati, con le parole dell’autore: “non vede la richiesta di protezione
perché non è del suo popolo”.
La constituency della sinistra, infatti, “è formata
dai lavoratori dipendenti istruiti, occupati nella PA, nei servizi privati e
nelle grandi fabbriche”, uniti ai professionisti della cultura, cioè a ‘ceti
medi riflessivi’ o ‘società delle garanzie’.
Avendo abbandonato anzi gli strati inferiori, ma
pensandosi ancora come compassionevole verso gli ultimi (una posizione ormai
più morale-religiosa che altro), ha in qualche modo paradossale bisogno dei
migranti per fingere ancora di rivolgersi a degli ultimi. Una posizione intrisa
di politicamente corretto che la porta a vivere in universi incomunicanti.
Ma il ‘politicamente
corretto’, in questa condizione di perdita di identità, è molto importante,
perché è una potente fonte di autostima e di prestigio sociale, in pratica
senza costare nulla.
In sostanza, se la vecchia ‘società dei due terzi’
finisce per diventare, se va bene, società dell’un terzo, con due parti del
corpo sociale risospinte in basso e spaventate, allora il conflitto si sposta e
si avvia la rivolta dei popoli.
Una rivolta nella quale il divario tra sinistra e
popolo la spingerà a margine della scena (ed il libro è scritto prima del marzo
2018). Come dice, “là dove, invece, globalizzazione, immigrazione e terrorismo
dovessero lacerare in modo profondo il tessuto della vita sociale, tutto fa
pensare che solo le forze populiste saranno in grado di rappresentare la marea
montante della domanda di protezione, e che la loro risposta non potrà che essere
qualche tipo di ristabilimento dell’autorità degli Stati nazionali”. Secondo l’autore
il divorzio tra queste forze e il “popolo” è ormai irreversibile, gli strati
periferici si sono staccati e hanno come riferimento queste nuove forze.
Il quadro che disegna al fine Ricolfi è di un futuro
prossimo nel quale ‘destra’ e ‘sinistra’ saranno solo aggettivazioni della
frattura principale che si istituisce tra ‘populisti ‘ (di ‘destra’ e
‘sinistra’) e le forze ‘dell’apertura’, che vogliono continuare il percorso
della globalizzazione.
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