L’immigrazione è il problema davanti al quale il
pluridecennale progetto di unificazione del mercato e, in misura selettiva e
minore delle istituzioni europee, rischia di fermarsi e di fare passi indietro
che potrebbero, se non razionalmente gestiti e politicamente digeriti, essere
rovinosi.
Si tratta di un tema sul quale siamo tornati più
volte, ma la cui grande complessità mette in gioco costantemente, come se si
allargassero dei cerchi nell’acqua, sfondi sempre più larghi e comprensivi. Si
confrontano due posizioni principali: quella di chi, per ragioni morali o di
interesse, sostiene la necessità di consentire che le frontiere restino o
diventino permeabili e siano attraversate da tutti coloro che sono attratti
dalla capacità di inserimento (vera o presunta) nel nostro mercato del lavoro;
quella che, per ragioni diverse, percepisce l’urgenza di offrire immediata
protezione a chi subisce di fatto la concorrenza delle nuove forze che si
immettono sul mercato del lavoro e si candidano ad essere fruitori del welfare.
La prima posizione chiede più apertura, la seconda la totale o parziale
chiusura delle frontiere.
La posizione che qui si prova ad articolare fornisce
le ragioni e spiega il meccanismo attraverso il quale una crescente
immigrazione, governata dal mercato, aggrava una condizione sottostante e
preesistente di deprivazione e di esclusione che colpisce i cittadini e
lavoratori tutti. Di fronte a questa lettura propone di spostare lo sguardo,
dalla immigrazione e dal problema dell’integrazione dei nuovi venuti al
problema, più ampio, di creare le condizioni perché non sia il mercato a
socializzare gli individui ma che questa funzione sia assunta, apertamente e
coscientemente, dalla funzione pubblica come recita in più punti la nostra
Costituzione.
Nel testo sono anticipate molte possibili obiezioni a
questa linea politica, che implica un profondo ribaltamento della logica e
dello stato delle cose presenti, a partire dalla priorità riconosciuta ai
Trattati europei rispetto alla nostra Costituzione. Altre potranno essere
avanzate, e naturalmente occorrerebbe entrare nel merito di molte cose, ma
occorre designare una direzione. Questa non può essere meramente reattiva,
rivolta a toccare solo i fenomeni di superficie, o, peggio, di attenuarli quel
tanto che basta da superare le tensioni, salvando la funzionalizzazione al
mercato, ed alla sua logica distorta, dell’insieme della dinamica.
È necessario definire una strategia sociale e
politica, e quindi solo da ultimo economica, che ricomprenda l’immigrazione
come caso particolare, per quanto severo, di una crisi di scopo molto più ampia
della nostra civiltà. In estrema sintesi ciò che va posto è il tema della
concorrenza come ordinatore fondamentale della nostra civiltà, spostandolo in
direzione della protezione dei lavoratori tutti a salvaguardia dell’equità nei
rapporti tra le persone e della creazione di una società ben ordinata.
Programma
Inizieremo al massimo grado di generalità ed
astrazione (1) individuando alcune tensioni
sistemiche nel contesto dell’economia interconnessa e fortemente
finanziarizzata che ha fatto seguito al dopoguerra retto dal Compromesso di
Bretton Woods. Queste latenze sono esplose nel 2008, dando seguito ad un
decennio abbondante di profonda ristrutturazione che ha esasperato tutte quelle
tendenze già visibili nel decennio precedente senza risolvere nessuno dei suoi
problemi. Il capitalismo sta procedendo a disgregare il mondo e inizia a
rivoltarsi contro la stabilità del sistema e le élite che se ne giovano.
Quindi sarà individuato l’obiettivo che bisogna porsi (2) per ‘scendere dalle nuvole
verbali’ facendosi carico di dire il vero senza ridurre la tensione a superare
lo stato delle cose presenti, nella misura in cui sono causa dei danni che
vediamo, della diffusa desocializzazione dalla quale deriva l’imbarbarimento
del clima sociale e politico.
Diventa necessario (3) individuare, ancora ad alto
livello, il meccanismo che opera per
rendere l’immigrazione funzionale all’indebolimento del lavoro, o meglio alla
sua subordinazione strutturale alle esigenze della valorizzazione. Da questa
osservazione scaturisce la necessità di indebolire, o porre sotto accusa, le
‘quattro libertà’ sulle quali è incardinato, sin dall’Atto Unico e dal Libro
Bianco della Commissione Delors il progetto di governance multilivello europea.
Sia pure brevemente (4) introdurremo alcuni dati sulla problematica e la sua
entità, con riferimento esclusivo all’Italia evidenziando le aree di
concentrazione dove gli impatti sono più significativi.
Con l’aiuto di alcune letture (5) individueremo quindi
i termini della questione sociale posta dall’immigrazione e il suo
funzionamento.
Più in dettaglio (6) focalizzeremo il meccanismo di
attrazione endogeno della nuova immigrazione, provocato dalle enclave (o
“diaspore”) e le controverse relazioni tra omogeneità culturale e attitudine a
sostenere il welfare.
Ne deriva (7) che la vera questione, quella più
radicale, non è l’immigrazione ed i suoi effetti diretti, ma l’emancipazione
della classe produttiva tutta e la riduzione della inclusione sociale ad
inclusione affidata al mercato. Solo riprendere sotto la responsabilità
collettiva e pubblica il fondamentale risultato dell’inclusione sociale degli
individui per via di corretta socializzazione e adeguata capacitazione si può
ottenere una società ben ordinata nella quale è possibile una vita buona e
perciò giusta. Per comprenderlo meglio sarà necessario focalizzare l’intreccio
di due ‘economie politiche’, rivolte rispettivamente all’immigrazione ed alla
emigrazione. Una complessiva economia che corrompe
in basso, gestisce in mezzo e sfrutta in alto.
L’unico modo per conservare una società accogliente ed
aperta è che questa lo sia per tutti.
Ma questo significa che non si può affidare ai meccanismi
del mercato ed alla concorrenza senza freni il compito di sedurre, sradicare ed
importare, come fossero merci, persone da tutto il mondo e socializzarle solo e
nella misura in cui servono allo scopo di farne utensili in macchine
produttive, respingendo il resto dell’umano che portano come scarto.
La soluzione (8) è il potenziamento, radicale e drastico,
dell’offerta dei servizi sociali e del welfare. La vera soluzione è questa, non sono i muri. Ma bisogna capirsi
bene: nessuno può essere accolto se viene subito affidato alla socializzazione
di mercato, perché questa scaricherà sempre su di noi tutto ciò che per esso
non ha valore. Lo scaricherà nelle nostre periferie e nelle aree di abbandono.
Il problema dell’immigrazione, è in realtà il problema di una socializzazione distorta guidata dal
mercato.
Ma questo porta (9) a dover affrontare importanti conseguenze,
occorre recuperare la capacità della
società, nella sua espressione politica, di riprendere in mano il suo destino.
Ottenere ciò è necessario prima di accogliere e
per poterlo fare integralmente. Dunque puntare ad una società inclusiva, che è
quel che vogliamo, significa necessariamente ottenere la piena occupazione ed
un società nella quale ognuno si sente protetto e riconosciuto per il
contributo che può dare.
Infine (10) è necessario muoversi verso questo
obiettivo con una chiara e consapevole strategia
di transizione, che rimette il lavoro al suo posto come veicolo primario di
socializzazione e che passa per un sistematico potenziamento delle capacità dei
nostri territori di sostenere una vita dignitosa, della pubblica
amministrazione di far fronte ai bisogni dei cittadini e del lavoro di non
sottrarsi a chi lo desidera.
Ed inserire questa strategia entro un ripensamento
delle strutture più estrattive della mondializzazione, superando “free trade” e
piena mobilità dei capitali e libertà di spostare gli investimenti, ma anche tagliare
le lunghe catene del debito che intrappolano il mondo e costringono in
posizione coloniale più di metà dello stesso.
Un grande programma necessario.
Touissant Louverture |
1-
Tensioni
sistemiche
Il paese è stremato, dopo decenni di espansione della
logica autoreferente del mercato, e una sbornia durata quasi venti anni di
crescente sostituzione della produzione di ricchezza che è sempre sociale con
le pratiche cieche della finanza; nel 2008 è entrata in una fase di drammatica
ristrutturazione che ad oggi dura da dieci anni. La ricerca parossistica della
liquidità ad ogni costo e per qualsiasi cosa in modo che di tutto si possa fare
mercato ha portato infine al crack che tanti
si sono affannati a considerare sino all’ultimo impossibile. Amato
e Fantacci mostrano molto bene la logica interna di questo
squilibrio strutturale, a tesaurizzazione dissimmetrica, ispirata da desiderio
di potenza e di dominio di ristrette élite e dei loro corifei. Le lunghe catene
del debito, mai onorato e costantemente tenuto liquido per farne merce di
secondo ordine, che attraversano il mondo connettendo tutto e rendendo tutto
prigioniero di relazioni pericolose. L’incertezza connaturata allo squilibrio
del sistema che si è manifestata fragorosamente nel 2008, ma è sempre stata sopra
le nostre teste.
Il mondo, del resto, attraversa la stessa crisi di
rigetto nei confronti della forza disgregante del mercato capitalistico che,
come un angelo che attraversa la storia distrugge in un turbine il mondo al suo
passaggio, spostando ciò che è fermo, connettendo ciò che è separato e
separando ciò che è connesso. L’angelo del mercato vive in un eterno presente,
del futuro non si cura ed il passato non gli interessa, ogni cosa incorpora e rende
oggetto. Ovunque siamo stati convinti, da interessati cantori, che una
modernità fattasi liquida, senza punti di riferimenti stabili, creasse comunque
opportunità nuove e consentisse innovazione. Da tempo abbiamo dovuto constatare
che la promessa era un inganno ed ha allungato le sue catene su di noi.
In tutto il mondo sono cresciuti invece pochissimi
vincenti, connessi, ottimisti, pieni di energia e di vitalità, e legioni intere
di perdenti, o di probabili tali, di semi-perdenti, di persone che ‘se la
cavano’ ma temono la prossima curva[1].
Come ha scritto di recente Spannaus, è cominciata allora la “Rivolta
degli elettori”, ovvero di quei cittadini che si sentono messi
da parte. Nel 2016 abbiamo avuto la Brexit, Trump, le elezioni francesi, il
referendum italiano, nel 2017 le elezioni tedesche sembrano aver dato un poco
di sollievo, ma nel 2018 è arrivata la bomba
italiana.
L’Italia è una
crisi dentro la crisi, si tratta del
solo luogo in cui due diversi ‘populismi’ si sono alleati contro tutti i
partiti del vecchio centro politico (quelli più di sinistra e quelli più di
destra) e li hanno spazzati via. Il paese dove, quasi senza accorgersene
entrambi pongono sotto accusa l’economia selvaggia dell’ultimo trentennio
attraverso le sue necessarie conseguenze.
Il paese soffre anche l'incapsulamento delle prassi democratiche,
costituzionalmente costituite e fondate sulla sostanza normativa accumulata nel
corso del novecento, in una struttura conforme al mercato nella quale il locale
ed il nazionale sono embricati strettamente nel sopranazionale[2] e
quindi sono insieme finalizzati a proteggere e garantire i profitti a
prescindere dai loro effetti sulla socialità e sulle biografie. Questo è
l'avversario da sconfiggere in questa fase[3].
2-
2- Obiettivi
2- Obiettivi
Lo scopo di questa ritrovata autonomia deve essere di
giungere ad una economia civile,
incorporata nella società e per questo sociale, che non sia guidata dal mercato[4]. Una
posizione discendente da questi principi e dalla necessità di “scendere dalle nuvole verbali”, come
diceva Marx dei francesi di Guesde (nella lettera a Sorge nel 1880), facendosi
carico della realtà.
Comprendere e farsi carico significa anche
riconoscere, dire il vero
sull’ineguale disagio che si somma a condizioni già intollerabili.
Ne “Il
cespuglio inestricabile”, in sintesi, era stato sostenuto che il
tema dell’immigrazione/emigrazione[5] è
solo un rilevantissimo frammento di un problema molto più grande di necessaria
ridefinizione del modello di sviluppo e geopolitico, del modo di produzione del sistema-mondo contemporaneo, e quindi di
riassetto del posizionamento del paese nella competizione e cooperazione
internazionale. Un tema fortemente presente nel discorso della Wagenknecht e di
Aufstehen,
non a caso insieme ed intrecciato alla questione sociale.
Bisogna venire quindi a discutere:
-
con il progetto europeo di integrazione subalterna delle periferie rispetto
ad un ‘core’ che è essenzialmente rappresentato dal network
finanziario-industriale nordico e dai suoi clientes connessi da una rete
logistica e funzionale polarizzata,
-
di politiche industriali e commerciali integrate a politiche di regolazione finanziaria,
-
della regolazione dei flussi di tutti
gli aspiranti lavoratori entro un mercato del lavoro visto dinamicamente.
L’obiettivo generale dovrebbe essere di
attivare gradualmente le condizioni di scarsità invertite che
attivino una dinamica ascendente esattamente opposta a quella in essere:
competizione tra capitali per acquisire lavoro, aumento della produttività,
cioè del saggio estrazione di valore, per via di investimenti, spostamento del
paese su segmenti di valore superiori.
In altre parole, bisogna porre la questione della concorrenza determinata dalla domanda di
lavoro gestita dal capitale a livello decentrato (attraendo disperati per
ridurre la forza contrattuale del lavoro autoctono) e spostare l'agenda della discussione sull'equità nei rapporti delle
persone e quindi sulla protezione dei lavoratori tutti, attraverso la riduzione
della concorrenza tra di loro.
3-
Il meccanismo
In un mondo ideale, o almeno parzialmente tale, in cui
dalla famiglia che si fa tenere il giardino o chiede servizi domestici (o di
cura), all'azienda agricola e di trasformazione, all'industria artigiana
e su per la filiera (senza dimenticare la logistica), chi venisse scoperto
a ridurre i diritti delle persone in base all'etnia o lo stato civile pagasse
sanzioni severissime, fino al sequestro dell'azienda ed a conseguenze penali,
il problema di regolare in modo forte l'immigrazione
ex ante calerebbe di molto. Anche in quel caso, ovviamente, una volta
giunti dalle parti del pieno impiego l'importazione di nuovi lavoratori tornerebbe
ad essere, per i datori una efficace alternativa all'aumento dei salari, ma la
dinamica tenderebbe a prodursi verso l'alto, e andrebbe quindi regolata, invece
che come ora sempre più verso il basso.
Ma fino a che non si vince questa battaglia non si può
continuare a consentire che le tensioni del sistema si scarichino sempre sui
lavoratori (italiani o non). Al sistema indefinitamente flessibile richiesto
dal capitale mobile occorre opporre in altre parole degli elementi di rigidità
che rifiutano la logica della
valorizzazione a qualsiasi costo.
In altre parole, il meccanismo che va depotenziato è
quello per il quale se nei settori in cui le produzioni sono rivolte a mercati
globali[6],
si riesce a garantire la piena mobilità dei fattori produttivi capitale e
conoscenza, si ottiene per ciò stesso che questi possano andare
sistematicamente a rintracciare quelle condizioni locali di relativa abbondanza
del fattore mancante (lavoro ed ambiente) in modo che il loro saggio di
sfruttamento sia massimo. Ciò a fronte del ricatto di non collocarsi lì ma
andare dal secondo migliore e via dicendo. Il fattore meno mobile è in decisiva
posizione di svantaggio.
L’immigrazione, dunque la resa in condizione mobile anche del
lavoro, adempie la stessa funzione;
a questo punto il capitale può generare ovunque le desiderate condizioni di
inflazione (e quindi debolezza) del fattore mancante.
Dunque senza riuscire a toccare tutte quattro le cosiddette
“libertà” alla base dei Trattati Europei è difficile produrre una soluzione.
Ovvero sono tutte e quattro le “libertà” da rimettere in questione. O meglio è
il concetto stesso di libertà da
mettere in questione: sottraendolo all'anemica e astratta definizione liberale,
come ad una logica semplicemente funzionale.
Qui la questione, cioè, non è affatto di chiudere frontiere, ma di garantire l’equilibrio dei mercati senza che
questo viva della sistematica svalutazione di un fattore produttivo. Ed in
particolare del lavoro, che non è solo un fattore produttivo ma in modo
inseparabile (Polanyi)
è vita.
E' chiaro che tutto questo è del tutto incompatibile, assolutamente incompatibile, con il
sistema attuale di esasperata e disperata competizione e di tendenziale
deflazione dei prezzi delle merci di base e dei servizi[7]. I
prezzi dei servizi di cura, di molti servizi, di ristoranti, bar, negozi in
alcuni casi, grande distribuzione, logistica, produzione di cibo, etc.
aumenterebbero, ci sarebbe un possibile impatto negativo sui settori più deboli
e sulle aziende poco remunerative, tendendo a metterle fuori mercato,
soprattutto in quanto esposte alla concorrenza estera attraverso l'importazione
di merci e la mobilità di capitale. Dunque, come diremo alla fine, bisognerebbe
contestualmente limitare la mobilità di capitale (in uscita) e di merci (in
ingresso), riportandoci più vicini all'assetto dei trenta gloriosi. Ci sarebbe
anche da vincere la resistenza di coloro i quali dell'attuale assetto si
giovano. Si tratta di una potente coalizione sociale che va dall’industria
monopolistica e/o internazionalizzata, in particolare se opera nei settori a
minore valore aggiunto (cantieristica, trasformazione prodotti food, …) alle
industrie, anche artigiane, a minore internazionalizzazione e compresse nel
mercato interno in via di restringimento (edilizia), o nei servizi anche alle
persone e famiglie e nel commercio.
4-
I termini del
problema
A grandi linee solo il 10% degli addetti
dell’industria sono extracomunitari, mentre ben il 20% degli addetti al settore
edile, alberghi e ristorazione e una grande presenza nel settore dei servizi
personali (dove sono quali il 40% degli addetti e nel quale lavorano circa il
25% degli stranieri).
Secondo i dati
del Ministero del Lavoro la popolazione straniera in Italia è aumentata in sei
anni di quasi il 40%, per circa 1,4 milioni di persone. Nel 2017 l’VIII
Rapporto Annuale “Gli stranieri nel
mercato del lavoro in Italia” conferma che “la forza lavoro UE ed Extra UE
ha controbilanciato, fino al 2015, la contrazione occupazionale che ha
investito la componente italiana”, dal 2015 fino al 2017 il tasso di
assorbimento degli italiani ha preso a sopravanzare quello degli stranieri nel
loro insieme. Questi trend, pur positivi, sono trainati tuttavia
dall’incremento solo del lavoro a termine e quindi precario. Insomma, cresce
ancora e sempre il lavoro debole, con “una forte espansione del lavoro
intermittente e il netto aumento della somministrazione”. Questo in termini
assoluti, in termini percentuali, invece, “nel recente periodo l’incremento
tendenziale degli occupati comunitari è stato pari a +0,1% a fronte di un +1,3%
degli extracomunitari, così come la variazione positiva delle assunzioni nel
primo caso è stata dell’1,6% e nel secondo del 13,7%. Parallelamente la contrazione
dei disoccupati Extra UE (-3,6% rispetto al 2016) è stata più netta di quella
rilevata per gli UE (- 0,5%)”. Inoltre la retribuzione media annua dei
dipendenti extracomunitari (regolarmente registrati) è inferiore a quella dei
lavoratori comunitari del 35%. Il Rapporto ammette quel che appare ovvio, ma è
negato da alcuni: “salari di riserva più contenuti e una segregazione
professionale schiacciata su profili a bassa qualificazione, nel complesso
garantiscono una più ampia appetibilità della forza lavoro immigrata”. Infine
illustra una evidenza che spiega molta parte della tensione che si registra su
questo tema: la disuniforme concentrazione. “Esistono sistemi datoriali
comunali nei quali il fabbisogno di manodopera, ovvero il flusso di assunzioni
registrato, è esclusivamente legato alla componente straniera; ci sono
specifiche comunità il cui lavoro ha una forte connotazione microgeografica e
la cui presenza in alcune aree è rarefatta, mentre in altre, di contro, è
densamente localizzata. I dati presentati mostrano sovente piccole o
piccolissime realtà sub-provinciali, mercati del lavoro molecolari in cui la
presenza di cittadini stranieri – e delle loro famiglie – è elevata”.
5-
La questione
sociale
Per comprendere meglio la natura del problema occorre per
prima cosa operare uno spostamento di attenzione, le problematiche connesse con
il flusso di immigrazione governato dal mercato non sono solo economiche, ma principalmente sociali. L’economista
Paul Collier, uno specialista certamente non accusabile di marxismo, in “Exodus”,
condivide la stessa visione della sua collega Sahra Wagenknecht: come nel
commercio internazionale lo scambio tra chi offre lavoro e chi lo acquista determina
sempre dei vincitori e dei vinti. Nel caso i primi sono normalmente i datori di
lavoro (industriali e borghesi che acquistano lavoro disciplinabile ed a basso
costo), e nei casi migliori gli immigrati, mentre chi perde sono i ceti deboli
che entrano in oggettiva competizione sia per i salari, sia per le case, sia
per il welfare. Di analoga opinione è Joseph Stiglitz, che nella Postfazione
al suo libro “L’euro” ricorda
opportunamente come “c’è più di un fondo di verità” nell’accusare la
liberalizzazione del commercio e l’immigrazione di aver avuto “un ruolo
importante”. Non si è trattato dell’unico fattore (ad esempio conta anche l’avanzamento
tecnologico), ma commercio e
immigrazione sono questioni di scelte. Potevano essere prese scelte diverse, e
anche lasciando la liberalizzazione dei commerci e dei flussi potevano essere
messe in campo politiche di adattamento volte a ridurne gli effetti, ma in modo
molto significativo le stesse forze che hanno chiesto a gran voce la caduta di
ogni barriera si sono opposte a salari minimi, incremento del welfare, politiche
industriali e della ricerca, formazione pubblica. Per attuarle bisognava
infatti rinforzare l’azione pubblica e aumentare la tassazione sui vincitori
(cioè ciò che è scritto in ogni manuale universitario di commercio
internazionale), ma lo scopo era esattamente l’opposto.
Per quanto riguarda l’immigrazione il premio nobel americano riconosce che si tratta di
un tema intriso di emotività e sensi di colpa, ma “da un punto di vista
strettamente economico” la cosa è molto chiara e semplice: “con curve discendenti
della domanda (il caso abituale), un incremento dell’offerta porta normalmente
a un prezzo di equilibrio più basso. Sui mercati del lavoro questo significa
che un afflusso di lavoratori dequalificati porta a una diminuzione dei salari.
e quando i salari non possono scendere oltre, o non vengono diminuiti, ne
consegue una maggiore disoccupazione” (p.347).
Questo fenomeno è ovviamente più forte dove già c’è
disoccupazione.
Le eccezioni sono quando un flusso di lavoratori molto
qualificati induce, concentrandosi magari in qualche “hub dell’innovazione” un
incremento della produttività e questa trascina verso l’alto i salari. potrebbe
essere il caso di alcuni casi di studio molto famosi, come l’emigrazione da
Cuba (paese ad altissima scolarizzazione) concentrata in un’area relativamente
ristretta nella quale preesistevano reti di accoglienza e socializzazione
potenti. Oppure un flusso di rifugiati ricchi, con i beni al seguito, che può
indurre un incremento della domanda di beni, e quindi effetti a cascata sulla
produzione ed i salari. Certo, in questo caso, potrebbero esseri pesanti
effetti collaterali sul mercato immobiliare, e in generale sull’inflazione dei
beni bersaglio della spesa, rendendoli inaccessibili ai lavoratori locali.
A parte queste eccezioni, in Europa, si vede un flusso
crescente di rifugiati che porterà effetti distributivi importanti e di segno
opposto:
- “per i lavoratori in termini di riduzione dei salari e
crescita della disoccupazione”,
- Per le aziende festeggiando “i vantaggi procurati
dall’abbassamento del costo del lavoro” (è quel che si intende quando si
festeggia un incremento della “competitività”).
Dunque le cose sono piuttosto semplici, per Stiglitz:
“l’onere ricade tutto sulle spalle di chi è meno equipaggiato a sostenerlo”
(p.348).
Non si tratta di un fenomeno nuovo, perché è
esattamente quel che è già accaduto con l’“idraulico polacco”, cioè con
l’allargamento ad Est. In quel caso non c’è stata gestione e la pressione sui
lavoratori, come ovviamente voluto, è cresciuta “per creare un mercato
occupazionale più docile, in cui finalmente i sindacati non avrebbero più
creato problemi”. Tutto ciò è perfettamente coerente con l’agenda neoliberista
“che, secondo molti, è al servizio delle multinazionali”.
Anche per l’immigrazione, come per l’Euro, insomma, i
fautori hanno sopravvalutato i vantaggi e sottostimato gli effetti distributivi
e le conseguenze.
Non è neppure vero che in un paese che offre almeno
“una parvenza di servizi egualitari” nel complesso ci sia un vantaggio: anche
qui è l’opposto. E comunque se ci fosse davvero una somma di vantaggi (per i
più forti) maggiore dei costi concentrati sulle classi sociali più deboli,
allora bisognerebbe effettivamente risarcirle. Ovvero bisognerebbe tralasciare
le favole sull’austerità, aumentare significativamente la spesa pubblica
sociale e la tassazione sui ceti e classi che se ne avvantaggiano (come anche,
come vedremo, attuare trasferimenti tra zone beneficiate e danneggiate). Invece
si fa altro, si favorisce l’immigrazione proprio mentre si aumenta l’austerità,
si contraggono le spese sociali e si riducono le tasse per finanziarla.
D’altra parte si dice che ci siano vantaggi anche per
i paesi dai quali gli immigrati partono, ovvero dai paesi colpiti dalle nostre
inique politiche commerciali: anche qui Stiglitz è di altra opinione.
Quando in un paese le persone di maggior talento, o semplicemente le più
intraprendenti, partono si ha una sorta di “svuotamento” dell’economia locale.
A causa di un meccanismo simile ma opposto a quello dell’alta immigrazione
negli “hub”, il mercato del lavoro si indebolisce, le imprese si ricollocano su
segmenti più poveri con concorrenza più alta e i salari medi scendono. Potrebbe
anche aumentare anche la disoccupazione. Inoltre ci sono effetti di
rafforzamento sull’indebolimento della capacità fiscale, dunque sulla spesa
pubblica e quindi sul tenore dell’ambiente locale. Quando 7500 medici greci
sono emigrati in Germania il paese mediterraneo ha perso sia gli investimenti
in capitale umano compiuti sulla loro formazione, sia le capacità della propria
sanità.
Le rimesse (che in genere diminuiscono man mano che
l’immigrato si integra, costringendo la famiglia di provenienza a reiterare il processo) non sono sufficienti a
bilanciare questi effetti negativi.
Dunque l’insieme di questi meccanismi, e questa è la
cosa veramente importante, produce percorsi autorafforzanti “di divergenza
anziché di convergenza” (p.350). Si ottiene una sempre maggiore polarizzazione
e la crescita delle ineguaglianze, che colpiscono sia i paesi di provenienza
sia di destinazione. E nella quale “gli unici a uscirne sicuramente vincitori
sono i migranti stessi e le aziende che sfruttano il loro lavoro a un costo
inferiore”, ma la loro vittoria è a spese dei cittadini che restano nei paesi
di partenza e di quelli tra i più deboli di quelli di destinazione.
Questa competizione è strutturalmente richiesta
dall’assetto istituzionale contemporaneo che demanda interamente o quasi al
mercato la socializzazione delle persone.
6-
Il meccanismo
delle diaspore e la questione dell’omogeneità
Ma emigrare
costa e richiede organizzazioni, sia durante il viaggio sia, e soprattutto,
una volta giunti a destinazione. Rivestono quindi importanza cruciale e
strategica le “diaspore”. In sostanza è necessaria per ridurre il costo
economico, sociale e personale, la presenza di una comunità locale strettamente
coesa di concittadini, culturalmente compatibili, che determina un enorme
abbattimento dei costi di emigrazione sopportati, ma rischia anche allo stesso
momento di ostacolare l’integrazione. Le ‘diaspore’, quindi, sono decisive nel
far accelerare il fenomeno e nell’allontanare il possibile punto di equilibrio
e stabilizzazione. Con le parole di Collier: “il tasso migratorio è determinato
dall’ampiezza del divario di reddito, dal livello di reddito nei paesi di
origine e dalle dimensioni della diaspora” (p.32). Sotto questo profilo la
dimensione del flusso dell’immigrazione dipende dal divario di reddito e dallo
stock di migranti precedente che non si è integrato. In particolare la
dimensione dello stock non integrato (ovvero della ‘diaspora’) dipende dalla
trasmissione interpersonale della cultura e degli obblighi. Chiaramente il
perimetro delle diaspore è fluido e continuamente attraversato da persone che
arrivano e da persone che, integrandosi, ne escono.
Ci sono tre semplici conclusioni:
1-
L’immigrazione
dipende dalle dimensioni della diaspora (che, in sostanza, la attrae),
2-
L’immigrazione
alimenta la diaspora, mentre l’integrazione la diminuisce,
3-
L’indice di
integrazione (percentuale di chi esce dalla diaspora ogni anno) dipende dalla
dimensione, quanto più grande è la diaspora quanto più piccolo è l’indice.
Come sostiene anche Robert Putnam (che non è un autore
conservatore), inoltre, ma anche molti altri (ad esempio Tony Judt) l’immigrazione
riduce il capitale sociale della popolazione autoctona, la mutua considerazione
e la propensione a tenere conto dell’equità. Dunque in effetti, per una serie
di ragioni tecniche e di psicologia sociale, più sale la diversità, più è
probabile che peggiori l’erogazione dei beni pubblici. Si tratta di un effetto
del quale è difficile individuare la direzione causale, ma che sembra ad analisi
empiriche condotte sul caso svedese in particolare più forte quanto
più (1) avviene in modo rapido e (2) i servizi sono già deboli e si è in
presenza di elevata disuguaglianza e quindi polarizzazione e segregazione.
L’assenza delle condizioni (2) sembra neutralizzare l’effetto desocializzante e
di erosione della coesione sociale dell’immigrazione. Ovviamente fino a che la
rapidità e densità dell’immigrazione, che tende ad accelerare quanto minore è
l’integrazione, non sopravanza l’offerta di servizi di socializzazione.
Il problema è così tratteggiato.
Contrariamente alla normale intuizione infatti: “dato
un certo divario di reddito tra i paesi di origine e il paese ospitante, più il
paese d’origine è culturalmente distante dal paese ospitante, più alto sarà il
tasso migratorio nel tempo” (C. p.85), quindi anche più alti i costi sociali
connessi alla perdita di fiducia.
In altre parole, come sostiene Paolo Borioni (in
conversazioni private), “ciò corrisponde all’epoca presente: erosione della
eguaglianza che già di per se erode il senso e il consenso delle élite
politiche (non tanto ma anche del welfare in questo caso) cui/specie se si
aggiunge l’immigrazione che moltiplica il dissenso verso ambedue”. Cioè, sempre
Borioni, “l’omogeneità/identità è un fattore ma non è il più importante.
Il punto centrale è che integrare persone nuove con esigenze nuove necessita di
1) spazi di crescita, mentre il regime attuale europeo nega la domanda interna
quale spazio di crescita, a partire da salario e welfare; 2) politiche di
welfare, istruzione e abitative e infrastrutturali. Il punto è: in passato
queste esistevano in maniera soddisfacente di fronte a sfide minori. Oggi
esistono in modo minore di fronte a sfide crescenti, di cui la maggiore
tendenziale diseguaglianza e l'immigrazione sono le maggiori”.
7-
La questione
sociale e l’economia politica dell’immigrazione
Quindi la vera questione qui non è l’immigrazione, o
la sicurezza, è la questione sociale.
Bisogna scendere dalle ‘nuvole
verbali’ al terreno della realtà. Puntare all’emancipazione della
classe produttiva, subalterna nel sistema di produzione dominato dalla cieca
valorizzazione del valore (la formula è del Gruppo
Krisis) che coinvolge tutti gli esseri umani, senza distinzione di
sesso, razza, cultura e provenienza.
Bisogna porre
argini alla tendenza distruttiva del sistema mondo del capitalismo
contemporaneo a non lasciare ovunque alcuna alternativa praticabile alla
dissoluzione dell’individuo nell’ordine economico retto dal mercato.
Ovvero alla concorrenza come principio inaggirabile di
ogni ordine umano-non-più-umano. A tutti i processi che riducono l’inclusione sociale a inclusione di mercato.
Produrre nuovamente una società ben-ordinata ed orientata ad una vita buona e perciò
giusta, nella quale si può e si deve accogliere tutti coloro i quali sono in
effettivo rischio per la vita o libertà.
La dinamica delle emigrazioni ed immigrazioni
determina, infatti, una complessiva ‘economia
politica’ caratterizzata da importanti fenomeni di corruzione degli assetti
sociali e culturali, di gestione come oggetti d’uso dei corpi estratti, e di
potenziamento dello sfruttamento a causa dei normali meccanismi di creazione
del valore di scambio. Non bisogna leggere questo fenomeno come
razionalizzazione, ma come un progressivo allargamento dello spazio dominato e
controllato dal mercato, e per esso dalla finanza, nell’intreccio di due
“economie politiche” reciprocamente rimandantesi.
La prima, l’“economia
politica dell’immigrazione”, la nostra, che fa scaturire una insaziabile e
crescente spinta estrattiva e insieme di trasformazione (spingendo l’uomo a
ripensarsi come ‘forza lavoro’, adattandosi alla relativa disciplina) che via
via incorpora ‘risorse’ (umane) per fornire risposta ad una domanda di lavoro
debole e disciplinato, insaziabilmente prodotta dall’attuale economia
interconnessa e finanziarizzata nella quale tutti sono sempre in
concorrenza con tutti sotto il pungolo del capitale mobile e continuamente
valorizzante. È essenziale in questo senso che il meccanismo del recupero di
margini di valorizzazione, attraverso la riduzione costante dei costi (in
primis del costo più ‘inutile’, quello del lavoro), sia sempre in movimento;
sia sempre un poco più veloce del paese vicino. Quindi è essenziale che il
lavoro sia un poco più debole, un poco più disciplinato, giorno dopo giorno,
anche a costo di espellere e sostituire chi non abbia la possibilità materiale
di piegarsi, o non voglia. Il ricatto davanti al quale ci troviamo tutti è
semplicemente che l’unica alternativa, in condizione di piena mobilità dei
capitali, è che ad andarsene siano invece i processi produttivi. Dunque non
resta che importare forza lavoro sempre più debole, per rendere debole quella
che c’è, o lasciare tutti a casa. L’effetto di questa dinamica, trascinata
dalla valorizzazione differenziale nella metrica della finanza che mette in
contatto e costringe alla competizione il mondo intero, è che è nelle aree del
lavoro debole che si concentra, in diretto contatto con coloro i quali sono
sfidati e pungolati a ‘maggiore efficienza’ (che normalmente significa minori
compensi a parità di lavoro produttivo), l’attrazione di ‘forza lavoro’
sostitutiva. Il processo è strutturalmente simile per i lavoratori-raccoglitori
dei pomodori nelle piane pugliesi, o campane, per i lavoratori-manifatturieri
nei cantieri navali o nelle fabbriche e fabbrichette in subappalto disseminati
nelle nostre periferie industriali, per i lavoratori-domestici che sono nelle
nostre case e per i lavoratori-professional che sono messi in competizione con
le piattaforme Ha dunque ragione chi dice che il problema è nel rapporto
di forza con il capitale, ma nello stesso momento ha torto: perché nel dirlo
non si fa carico davvero della materialità del problema nei luoghi in cui si determina.
Questa dinamica di attrazione differenziale,
ulteriormente accentuata dal meccanismo stesso dell’attrazione (influenzato dal
percorso, come dicono gli economisti, e quindi dalla preesistenza di reti di
relazione, strutture sociali di accoglienza, “diaspore”) che tende ad
accrescere la presenza dove è già maggiore, esercita obiettivamente una
pressione al disciplinamento che è letto come oggettivamente violento (anche se
la fonte non è nei corpi dei concorrenti per il lavoro debole ma in ciò che lo
rende tale). Nessuno può riaprire una relazione sentimentale con le classi
popolari se non comprende questa dinamica, se si limita intellettualisticamente
a qualificare come brutti, sporchi e cattivi, e razzisti, coloro che se ne
sentono vittime.
Ma a questa si affianca ed è intrecciata
strutturalmente la “economia politica
dell’emigrazione”, la “ricostruzione/riordinamento” si affianca alla
“distruzione/spopolamento”. Perché le persone che sono ‘aspirate’ in occidente
dalla domanda di lavoro debole, alimentano anche il trasferimento di poveri
surplus monetari che insieme alla trasformazione dei pochi settori produttivi
in industria da esportazione estranea al tessuto locale e dipendente dai
capitali esteri, attraggono e corrompono, disgregandole, aree ancora relativamente
esterne al circuito della valorizzazione, contribuendo a “monetizzarle”, ovvero
a ricondurle entro il circuito astratto e impersonale del capitale e della sua
logica. In qualche misura questo paradosso è stato oggetto di analisi della
tradizione marxista sin dal suo avvio, e delle esitazioni dei suoi padri ed è
al centro della riflessione della Wagenknecht.
Questo processo va infatti inteso come
“razionalizzazione”, ed alfine giudicato una sia pure dura necessità (come
inclinava a pensare il vecchio Engels)? Oppure come un non necessario
sacrificio, un calice che potrebbe anche passare, se si avesse il tempo di
prendere il proprio percorso (come inclinava a pensare il vecchio Marx, ma non
il giovane)? Ha ragione lo zapatista e neo-anarchico Marcos o il post-marxista
Negri?
In altre parole, questa ‘economia’ che corrompe in basso, gestisce in mezzo e
sfrutta in alto è senza alternative, perché in fondo coerente con la
direzione della Storia? O è solo coerente con i “campi sentimentali” dei
millennials (e dei loro profeti), che individualisticamente vedono la mobilità
attraverso le frontiere come liberazione?
La risposta è che si può conservare una società aperta
ed accogliente, amichevole e inclusiva, ma ad un’unica condizione: questa lo deve essere verso tutti.
Non si può affidare ai meccanismi del mercato, alla
concorrenza senza freni e senza cuore, il compito di sedurre, sradicare ed
espiantare, importare come fossero merci persone da tutto il mondo e
socializzarle solo nella misura e per gli scopi di farne utensili
intercambiabili dentro macchine produttive.
8-
La soluzione, il
potenziamento
La soluzione passa quindi per un potenziamento
drastico dell’offerta di servizi sociali. In altre parole, è il welfare la soluzione, non i muri, ma ciò significa che nessuno
può essere accolto se viene affidato alla socializzazione di mercato, perché
questa troverà sempre il modo di scaricare su di noi i costi; e lo sta facendo.
Passando sul piano delle soluzioni pratiche, da una
parte, come scrive Laurent Joffrin nello speciale “Immigration
l’embarras des gauches européennes”, nel suo editoriale:
“non esiste che una sola politica moralmente e politicamente accettabile: la regolamentazione umana dell’immigrazione.
[cosa che] Suppone che venga mantenuta chiaramente la distinzione tra
rifugiati, destinati all’accoglienza e migranti economici, di cui l’entrata
deve essere subordinata alle possibilità di impiego e alla capacità di
accoglienza”. Ma ciò, d’altra parte, nell’articolazione di una via di mezzo tra
l’aspra difesa dei confini e la pulizia delle enclave già create, che vuole la
destra, e l’insostenibile e incoerente richiesta di dissolverli (con
conseguenze che nessuno può valutare, in primo luogo chi la propone), “presuppone che siano disponibili i mezzi
necessari per organizzare l’integrazione dei nuovi arrivati”.
Questa proposta di Joffrin è quindi insufficiente: in
condizioni di scarsità e di ripiego costante della funzione pubblica e dello
Stato Provvidenza che aveva reso possibile accettare ingenti flussi in passato,
senza provocare le conseguenze odierne, bisogna che siano disponibili i mezzi
necessari per integrare tutti.
Bisogna, cioè, che le condizioni di scarsità siano
rimosse. Non esiste altra soluzione al problema dell’immigrazione, che è in realtà il problema di una
socializzazione distorta guidata dal mercato.
Per accogliere
devo socializzare.
Per socializzare devo consentire ad ognuno di disporre
delle necessarie risorse, di avere un fondo di consumi pubblici al quale
accedere e che garantiscono la sua dignità e capacità. Servono tre fonti di
capacità:
1-
Capacità materiali,
garantite da investimenti pubblici e privati;
2-
Capacità di ricezione culturale, possibilità di diventare davvero ‘italiani con il
trattino’ (Walzer),
non solo cittadini rispettosi delle leggi e capaci di comprenderle;
3-
Capacità di contribuire alla nazione, di assumerne i doveri e diritti.
Dal punto di vista del meccanismo macroeconomico
bisogna creare le condizioni per invertire la tendenza a deflazionare i salari
anche usando la costante espansione guidata dal mercato della forza lavoro
debole. Da un mercato che nelle attuali condizioni sceglie liberamente chi includere e chi espellere. Mercato che quando sceglie di espellere, e quindi
desocializzare, i lavoratori stanziali e convinti di avere un legittimo diritto
alla partecipazione alla vita comune provoca la loro reazione morale.
Non è questa una questione facile da aggirare, e non è
una questione nuova nella storia del movimento dei lavoratori, nella sua
drammatica complessità è stata affrontata da Marx, ad
esempio nel 1870, da Engels già nella sua opera
giovanile, come racconta Joffrin da Jaurès nella Sezione Francese
dell’Internazionale Operaia, nata dalla fusione con l’ala radicale di Guesde, o
il PCF di Marchais ancora negli anni settanta.
9-
Le conseguenze
Ciò porta al vero problema connesso con la questione
sociale, che è il cuore della questione degli immigrati: la capacità della società, nella sua espressione politica, di
riprendere in mano il suo destino. A ben vedere significa rimettere in
questione la mondializzazione dei capitali, delle merci e dei servizi, e di
quella particolare merce che è la forza-lavoro.
Non abbiamo bisogno che il mercato attragga
forza-lavoro, lasciando gli uomini che la portano come sottoprodotto, come scarto,
nelle nostre strade e campagne. Abbiamo
il dovere di orientare il mercato, come dice l’articolo 42 della nostra
Costituzione, alla sua funzione sociale. Economia civile e processo di
inclusione sociale come fatto politico totale.
Nessuno deve essere remunerato meno di un lavoratore
normale, perché tutti sono lavoratori normali. Ciò deve significare:
-
sanzioni severissime
per chi scarica sulla società il peso di cui non vuole assumere la
responsabilità. Chi lo fa si pone fuori della società e viene meno ai suoi
doveri verso di essa.
-
Progressiva inclusione nei diritti di cittadini e immediato accesso ai
servizi universalisti (istruzione, salute),
-
Presa in carico delle dotazioni necessarie per garantire l’inclusione sociale piena,
per tutti e sempre.
Il punto cruciale è che bisogna garantire queste
condizioni prima di accogliere e per
accogliere come persone integralmente riconosciute e valorizzate immigrati
che altrimenti attraverso il mercato sarebbero solo forza-lavoro e scarti
abbandonati nelle nostre strade.
Puntare ad una società inclusiva significa puntare
alla piena occupazione e ad una società in cui ognuno si sente protetto e
riconosciuto per il contributo che può dare.
10- La strategia di transizione
Occorre, però, come è evidente una strategia di transizione. Bisogna
rimettere il
lavoro al suo posto, come veicolo primario di socializzazione. Ciò
significa, almeno:
-
avviare un
programma straordinario di riqualificazione delle periferie, di case popolari,
di offerte convenzionate, di controllo indiretto dei prezzi degli affitti
(operando sul 20-30% di alloggi inutilizzati nelle nostre città) impedendo che
la dinamica
della rendita concentri il disagio;
-
Potenziare la
capacità operativa della Pubblica Amministrazione, in tutti i settori
dell’accoglienza e dei servizi ai cittadini, attraverso un grande piano di
assunzioni stabili nell’istruzione di sostegno, nella sanità distribuita e di
prossimità, nei servizi sociali;
-
Avviare un
programma straordinario di “lavoro di
ultima istanza”.
Lo scopo del programma straordinario deve essere
alzare di un gradino le condizioni del lavoro, capacitando e potenziando la
forza negoziale dei lavoratori e insieme integrando i non integrati.
Tutto ciò è
incompatibile con lo stato delle cose presenti.
Quindi occorre affrontarlo in modo più ampio, entro un
progetto di società diverso, che superi lo stato delle cose presenti e non si
lasci guidare dagli spiriti animali ed irrazionali del capitalismo.
Impegnare un grande campo di battaglia:
1-
Regolare il
commercio in modo che dal “free trade”, si passi al “fair trade”, come propone Dani Rodrik in questo altro articolo,
nel quale chiarisce che il commercio internazionale non è un rapporto di
mercato, ma una ‘istituzione globale’ (come il lavoro) che riconfigura i
rapporti complessivi accordi incorporati negli assetti istituzionali e sociali.
2-
Ostacolare la mobilità dei capitali, per ridurre brutalità e complessità delle
catene produttive transnazionali che aspirano sempre più lavoro subalterno come
effetto indiretto della loro costitutiva spinta agli “iperprofitti” (cioè a
profitti a qualsiasi costo e senza freni, nel tempo corto o istantaneo, senza
sostenibilità, della finanza e dei servizi ad essa funzionali) e della logica
organizzativa che questa determina, inducendo una continua espansione del
campo di ciò che può essere “finanziarizzato”, che di fatto smembrano la realtà
sociale, promuovendo una estrema disuguaglianza.
3-
Revocare le politiche
predatorie ed imperiali, che supportano sistematicamente
l’insediamento di catene lunghe di sfruttamento e la valorizzazione del
capitale mobile.
Grande programma, ma necessario.
[1] -I
libri di Milanovic ne sono ottima testimonianza, sia “Mondi
divisi”, del 2005, “Chi
ha e chi non ha”, del 2011, sia “Ingiustizia
globale”, del 2016
[3] - A
margine giova ricordare che è il progetto europeo ‘realmente esistente’ ad
essere il punto di maggiore espressione di questo ambiente normativo che si è
sviluppato adattivamente a cavallo tra i due millenni. Esso si lascia
interpretare in modo più coerente come neutralizzazione
democratica ben riuscita, quindi è ben lungi dall'essere incompleto.
[4] - per
un discorso generale si veda ad esempio Jean-Claude Michéa, “Il
vicolo cieco dell’economia”, e, da un’altra prospettiva, Luigino
Bruni, “Il
mercato e il dono”
[6] - dunque
in cui le merci, ovunque prodotte, possono essere vendute su ogni mercato alle
stesse condizioni
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