L’ultimo capitolo
dell’ultimo libro del filosofo marxista Domenico Losurdo, scomparso questo
anno, su “Il
marxismo occidentale” si pone una domanda di straordinaria
difficoltà, ma di grande rilevanza in questa fase nella quale l’ultima versione
del capitalismo sta mostrando tutta la sua ferocia e capacità di creare
continuamente nuovi e creativi modi per creare periferie da sottoporre a
saccheggio e isole di sfruttamento coloniale in ogni luogo, anche entro le ex
opulente società del ‘primo mondo’.
Il punto di partenza di
Losurdo nel suo libro è che la storia del novecento è andata in modo ben
diverso da quanto il modello astratto di Marx ed Engels prevedevano in ultima
analisi perché la dialettica interna alla società borghese è stata
neutralizzata dalla forza maggiore che spingeva il capitalismo alla espansione
coloniale. Spinta che ancora si manifesta e che, anzi, si manifesta ovunque
sempre più forte. La contraddizione tra l’espansione delle forze produttive e
la sua appropriazione limitata, che avrebbe dovuto portare al socialismo, è
rimasta senza effetti. Al contrario il marxismo occidentale ha ovunque perso la
propria capacità emancipativa, riducendosi o ad un generico progressismo (che
si accontenta del tempo che chiamerà del “futuro in atto”, ovvero della
capacità del capitalismo borghese di dissolvere i rapporti sociali
tradizionali, sostituendoli con rapporti “razionalizzati”, ovvero rapporti sociali tra cose), o ad un
altrettanto generico messianesimo (che salta direttamente, e in modo meramente
enunciativo, dal “futuro in atto”, che rigetta solo nominalmente, al “futuro
remoto”, avvolto nella nebbia dell’utopia). Ciò che ha squalificato la
prospettiva marxista occidentale, e quindi la sua carica emancipativa, è il
rifiuto di fatto della transizione reale, ovvero del tempo nel quale si crea un
“futuro prossimo”. Ovvero il tempo nel quale lo Stato non va dissolto ma usato,
in cui le classi esistono e bisogna farci i conti (anche con le necessarie
alleanze), in cui la pressione esterna richiede di organizzare le forze.
E’ su questa linea che,
sostiene Losurdo, il marxismo occidentale, che è morto, si è divaricato
drasticamente dal marxismo orientale (in particolare cinese), che è del tutto
vivo ma viene considerato un traditore dagli utopisti e un ritardatario dai progressisti
(che sono anche implicitamente e inconsapevolmente imperialisti).
Per comprendere come
ciò è successo e come l’incomprensione della forza allo sfruttamento coloniale
paralizza il ‘marxismo occidentale’, prigioniero della sua carica utopica
messianica, bisogna fare un passo indietro.
Lo schema di pensiero
dei due pensatori secondo l’autore “si dispiega in quattro tempi tra loro ben
distinti”:
1 - il primo. Nel 1844, scrivendo la “Questione
ebraica” il nordamerica è individuato come il paese nel quale si è di fatto
già compiuta “l’emancipazione politica”, soprattutto perché la discriminazione
censitaria, ferocemente presente nella Germania semifeudale del suo tempo, è
stata abolita (tra i bianchi) ed il diritto di voto è divenuto universale tra i
maschi adulti anche se nullatenenti. Cioè, come scrive successivamente nei
Grundisse, sono stati cancellati “i rapporti di dipendenza personale” per legge
e con l’avvento completo della società capitalistica, superata quella feudale
si è instituita “l’indipendenza personale fondata sulla dipendenza personale”.
È un passaggio giustamente famoso (“Lineamenti
fondamentali di critica dell’economia politica”, 75, p.88) nel quale è
descritto un modello di civilizzazione a quattro stadi ed una meccanica di
passaggio tra questi:
nel
capitalismo “la dipendenza reciproca e universale degli individui indifferenti
gli uni agli altri costituisce la loro connessione sociale. Questa connessione
sociale è espressa nel valore di scambio,
ed è soltanto in esso che per ogni individuo la propria attività o il proprio
prodotto diviene infine un’attività e un prodotto per esso; l’individuo deve
produrre un prodotto universale – il valore
di scambio – o, se lo si considera per se isolatamente e individualizzato, denaro. D’altro canto il potere che ogni
individuo esercita sull’attività degli altri o sulle ricchezze sociali, esiste
in esso in quanto possessore di valori di scambio, di denaro. Esso porta con sé, in tasca, il proprio potere sociale,
così come la propria connessione con la società. L’attività, quale che sia la
sua forma fenomenica individuale, e il prodotto dell’attività, quale che sia la
sua natura particolare, è il valore di scambio, ossia un’entità universale in
cui ogni individualità, particolarità è negata e cancellata”.
Questo è lo stato nel
quale si ritrova l’individuo nello stadio borghese capitalista, ovvero nel
secondo stadio, ma come era prima (nel primo stadio)?
“Questa è
effettivamente una situazione molto diversa da quella in cui l’individuo, o
l’individuo naturalmente o storicamente ampliatosi in famiglia, in tribù (più
tardi in comunità), di riproduce direttamente su basi naturali, o in cui la sua
attività produttiva e la sua partecipazione alla produzione vengono ad essere
assegnate secondo una determinata forma del lavoro e del prodotto, e il suo
rapporto con altri è appunto così determinato”.
Oggi, invece:
“Il
carattere sociale dell’attività, così come la forma sociale del prodotto e la
partecipazione dell’individuo alla produzione, qui appare come qualcosa di
estraneo, di oggettivo di fronte agli individui; non come loro rapporto
reciproco, bensì come loro subordinazione a rapporti che sussistono
indipendentemente da loro e che sorgono dallo scontro tra individuo
indifferenti gli uni agli altri. Lo scambio generale delle attività e dei
prodotti, divenuto condizione di esistenza per ogni singolo individuo, la loro
connessione reciproca, si presenta loro come estraneo, indipendente, come una
cosa. Nel valore di scambio la relazione
sociale tra persone è trasformata in un rapporto sociale tra cose; la
capacità personale in una capacità delle cose”.
Da qui si arriva al
punto determinante, i due stadi sono messi a confronto ed il secondo
rappresenta comunque un progresso, ed aprono finalmente al terzo:
“Strappate
questo potere sociale alla cosa e dovrete darlo alle persone sulle persone. I
rapporti di dipendenza personale (dapprima in modo del tutto naturale) sono le prime forme sociali, nelle quali la
produttività umana si sviluppa solo in forma ristretta e in punti isolati.
L’indipendenza personale basata sulla dipendenza materiale è la seconda grande forma in cui si realizza per la prima volta un
sistema del ricambio sociale generale, dei rapporti universali, dei bisogni
universali e delle capacità universali. La
libera individualità, fondata sullo sviluppo universale degli individui e sulla
subordinazione della loro produttività collettiva, sociale, come loro
patrimonio sociale, è il terzo stadio. Il
secondo crea le condizioni del terzo”.
E quindi (ivi, 77,
p.91) il superamento del secondo stadio deriva dalle falle in esso incorporate:
“Ma
all’interno della società borghese fondata sul valore di scambio si generano
rapporti di traffico e di produzione che sono altrettante mine per farla
saltare. (Una massa di forme antitetiche dell’unità sociale, il cui carattere
antitetico tuttavia non può mai essere fatto esplodere mediante una quieta metamorfosi.
D’altro canto, se nella società così com’è non trovassimo già nascoste le
condizioni materiali di produzione e i rapporti di traffico a esse
corrispondenti, adeguati a una società senza classi, tutti i tentativi di farla
saltare sarebbero donchisciotteschi).”
In definitiva il primo tempo è quello del capitalismo in
atto, la fase successiva al mondo precapitalista (nel quale la potenza del valore di scambio si attuava tra unità
sociali e non tra individui). Losurdo lo chiama “il futuro in atto”.
2 - il secondo. È il tempo del “futuro
prossimo”, la transizione all’insegna della “dittatura rivoluzionaria del
proletariato”, che ipotizza nel ben più successivo “Critica del programma di Gotha”. Un momento che vedeva vicino ed
anzi, come scriveva già all’epoca dei Grundisse (1857) incorporato nel “futuro
in atto”. Ma la transizione richiede di usare la macchina dello Stato e
richiede l’esercizio del potere, che necessità di disporre ed accumulare la
necessaria forza. E’ la fase sulla quale si è di fatto concentrata la critica
corrosiva delle tradizioni post-strutturaliste continentali e delle coeve
tendenze libertarie anglosassoni.
3 - Il terzo. Viene, infine, il tempo del comunismo, una società immaginata
nella quale ogni contraddizione è risolta nel pieno sviluppo delle forze
produttive e nella piena razionalità di queste, e quindi nella quale ogni
conflitto è risolto che, per questo, può fare a meno dello Stato in quanto
tale. Il “futuro remoto”, è, per
Losurdo, quindi essenzialmente un “futuro utopico”.
Questo era lo schema,
ma, come detto, le cose sono andate diversamente: lungi dall’attivare una
dialettica spontanea tra il “futuro in atto” e il “futuro prossimo”, che
portasse infallibilmente infine al “futuro remoto”, si è verificato che la
“tendenza all’espansionismo coloniale propria del capitalismo” è stata più
forte della resistenza attiva delle forze rivolte alla liberazione. Queste si
sono quindi accontentate o di restare nel “futuro in atto”, valutandolo come
progressivo, o di rifugiarsi oniricamente nel “futuro remoto”, rigettando ogni
possibile transizione come tradimento e pervertimento della purezza del sogno.
Sulla base di questa
sistematica lettura, portata avanti con un appassionata ricostruzione della
storia secolare del colonialismo e delle lotte di liberazione coloniale, a
partire dalla rivolta di Santo Domingo/Haiti di Touissant Loverture
(che avvia il ciclo delle rivoluzioni settecentesche e viene selvaggiamente
repressa dalla Francia di Napoleone con l’aiuto di un embargo e blocco navale
promosso dalla democraticissima America di Jefferson), Losurdo sostiene che di fatto è storicamente avvenuto che siano
stati i paesi di orientamento socialista fuori dell’occidente a portare avanti
l’emancipazione che Marx invece attribuiva all’azione della borghesia. Questi paesi, a volte sconfitti, a
volte resistenti, si sono assumenti il compito di rischiarare e superare il
“futuro in atto” dal quale le società borghesi non sono mai uscite. Per farlo i
paesi ex coloniali hanno dovuto agire con lo Stato e rafforzandolo, al fine di
non essere schiacciate dalla potenza dell’imperialismo. Il libro è al riguardo
ricchissimo di esempi.
In altre parole questi
paesi molto spesso, a causa dell’avverse condizioni e dell’oggettiva difficoltà,
si sono arrestate sulla soglia dello sviluppo post-capitalistico in senso
stretto, in qualche punto intermedio tra il “futuro in atto” e il “futuro
prossimo” (ovvero nell’avvio del sentiero di transizione). Ma una cultura tutta
orientata al “futuro remoto” del marxismo occidentale, ha sempre visto questi
tentativi di sopravvivere e di fare il possibile come scivolamenti e tradimenti
e molto spesso li ha osteggiati. Basti guardare l’atteggiamento verso il
cosiddetto “populismo” sudamericano, che è normalmente orientato a sinistra e,
pur non essendo talvolta di ispirazione marxista, opera in difficili condizioni
di ineguaglianza cercando di difendere il punto di vista dei ceti popolari,
riducendola.
Talvolta è capitato che
i paesi sotto il giogo del colonialismo, una volta liberati, e ottenuta la
capacità di autodeterminarsi si siano per anni concentrati sul recupero della
distanza e la creazione di una economia in grado di competere (evitando di
restare ai più bassi livelli di specializzazione, come fornitori di materie
prime e di persone), dunque sia siano impegnati a raggiungere lo stadio del “futuro
in atto”. Nei termini della tassonomia qui presentata, sono rimasti catturati
tra il “futuro in atto” e l’avvio, anche disomogeneo e costretto in condizioni
materiali difficili (e competitive) del “futuro prossimo”.
Nei termini di Losurdo di
fatto ci sono stati “due marxismi all’insegna di due ben diverse temporalità:
il futuro in atto e gli inizi del futuro prossimo per quanto riguarda il
marxismo orientale; la fase più avanzata del futuro prossimo e il futuro remoto e utopico per quanto
riguarda il marxismo occidentale” (p.183).
Losurdo vede il
problema nel messianismo inconsapevole del marxismo occidentale ed in questo
restare bloccati nel pensiero tra “futuro
prossimo” e “remoto”, quando bisognerebbe
trovare la strada per passare realmente tra
quello in “atto” a quello “prossimo”.
Del resto anche Marx,
nel passo che abbiamo già citato scrive (“Grundisse”):
“Ma
all’interno della società borghese fondata sul valore di scambio si generano
rapporti di traffico e di produzione che sono altrettante mine per farla
saltare. (Una massa di forme antitetiche dell’unità sociale, il cui carattere antitetico tuttavia non
può mai essere fatto esplodere mediante una quieta metamorfosi.”
Occorre trovare nella
concretezza della situazione la strada per far esplodere le contraddizioni che
pure esistono.
Le condizioni per la
rinascita del marxismo sono dunque di fare
finalmente i conti con il messianismo, che si radica in occidente nella
tradizione ebraico-cristiana e, influenzando profondamente i padri fondatori
focalizza tutta l’attenzione sul futuro postcapitalistico immaginato (“remoto”,
spesso con tinte fortemente utopiche). Un problema che, come visto, anche Marx
ed Engels vedono, ed a fronte del quale forniscono due, e ben diverse,
definizioni di “comunismo”: una che rinvia appunto al futuro remoto, in chiave
utopica, che pensa una società in grado di lasciarsi alle spalle la divisione e
l’antagonismo di classe (e del lavoro); un’altra che emerge ad esempi dalla “Ideologia tedesca”, e parla invece di
“movimento reale che abolisce lo
stato di cose presente”.
La seconda condizione per
far rinascere il marxismo occidentale è di riuscire a gettare un ponte tra ciò
che deve essere compiuto realmente,
per abolire lo stato delle cose presenti,
nel tempo del “futuro in atto”, e ciò che deve essere immaginato per la ‘fase
più avanzata’, il tempo del “futuro remoto”. Se, come dice l’autore, “tale
compito viene ignorato o disdegnato, non tardano a manifestarsi la
superficialità e la saccenteria che amano contrapporre la poesia del futuro
remoto ovvero della prospettiva di lunga durata alla prosa dei compiti
immediati” (p.183). Sulla questione altamente difficile dell’Europa ne abbiamo
un vasto campionario.
È facilissimo infatti per
tutti sognare il “libero sviluppo di ognuno” del “Manifesto del Partito Comunista”, magari per condannare proprio i
tentativi, necessariamente imperfetti perché vincolati dal reale, di “abolire
lo stato di cose presenti”; quindi di fatto combattendo il movimento reale “in
nome delle proprie fantasie e dei propri sogni” ed esprimendo il disdegno sul
futuro “in atto” e “prossimo”, in nome di un futuro “remoto” necessariamente
“utopico”. In tal modo, con questo atteggiamento che è “del tutto estraneo a
Marx ed Engels”, il problema è che di fatto si “priva il marxismo di ogni reale
carica emancipativa”.
In effetti lo si
assimila ad una religione, come (inconsapevolmente)
è per molti.
Ciò che bisogna fare,
per superare questo stallo, è riprendere la lezione hegeliana che vede l’universale sempre in forma concreta e
determinata, e la filosofia come “il proprio tempo appreso con il pensiero”.
Un movimento che
necessita sempre di un certo attrito e fatica con il reale.
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