‘Crisi’ è un sostantivo femminile che viene dal latino crisis,
e dal greco κρίσις, e significa ‘decisione’, ‘scelta’, in economia indica una
fase (in un ciclo) nella quale uno squilibrio fondamentale determina
l’incapacità di utilizzare tutti i fattori idonei alla produzione di beni e di
servizi che la società esprime. Keynes, in “Un’analisi
economica della disoccupazione” [1] ha
scritto che “un boom è generato da un eccesso di investimento rispetto al
risparmio e una crisi da un eccesso di risparmio rispetto all’investimento”. Se
è così è dai primi anni settanta che siamo in crisi; da allora l’insieme dei
capitali distolti dall’investimento in beni produttivi, in favore di forme di
impiego puramente finanziario è infatti sempre cresciuta. La finanziarizzazione
è, del resto, il segno più palese ed evidente del nostro tempo, e lo è da
decenni. Per i marxisti ortodossi la crisi è una conseguenza della caduta
tendenziale del saggio di profitto, che prevale sui diversi fattori ed
escamotage che possono essere messi in opera per alleviarla. Per i keynesiani è
l’effetto di una carenza di domanda globale, a sua volta causata dalla ineguaglianza
e dalla concentrazione dei redditi sulla parte alta della scala sociale [2].
Più in generale si può dire che, al di là del meccanismo
scatenante particolare, l’instabilità del capitalismo, che determina le crisi, è
causata dalla presenza di due mercati
(merci e moneta)[3]
e da una programmazione intrinseca orientata alla mera accumulazione di segni
monetari[4].
‘Globalizzazione’, invece, è un termine invalso da alcuni anni a significare il fenomeno di riduzione delle regolazioni nazionali, incremento del commercio internazionale su un piano di maggiore parità, vorticoso movimento di capitali tra le principali città globali mondiali sede di ‘piazze finanziarie’.
La tesi che vorremmo sostenere è che il fenomeno esteriore della globalizzazione è solo l’effetto di una
molteplice crisi che non trova soluzione. Questa crisi ha preso direttamente avvio
dall’esaurimento della soluzione che alle tensioni scatenate dal capitalismo
competitivo primo ottocentesco[5] era
stata trovata nel dopoguerra, e da allora procede per trasformazioni continue
che coinvolgono tutti gli assetti di potenza modificandosi continuamente[6].
Ci sono un gran numero di interpretazioni del termine e di
ricostruzioni della meccanica degli eventi che l'ha scatenata di nuovo[7], dopo il
parziale disciplinamento degli spiriti animali più distruttivi creato a Bretton
Woods[8]. A
partire da quel momento l’equilibrio di crescita all’ombra dell’egemone era proseguito,
per una larga serie di fattori[9], per
alcuni decenni nel quadro necessario della diarchia USA/Urss, fino a che, al
punto culminante di una crisi egemonica dalle molte
facce[10], Nixon riaprì il vaso di Pandora della finanza,
sganciando la generazione di moneta dall'ancoraggio reale all'oro. Con questa
mossa, anche senza avvedersene, confermò la legittimità di ciò che già accadeva
da qualche anno con i cosiddetti ‘eurodollari’[11], la generazione di moneta attraverso aperture di credito
incrociate dal nulla, la moneta ‘fiat’[12] che era sempre esistita, ma sempre controllata ed
inibita dalla moneta legale dello stato. In questo momento l'enorme massa di
denaro in movimento, amplificata dall'aumento del costo delle materie prime[13], fa saltare del tutto i fragili equilibri del mondo di
prima, già sotto pressione insopportabile da parte delle pressioni dei
lavoratori e delle lotte sociali del ventennio precedente[14]. La spinta a ridisciplinare i desideri di controllo del
proprio destino e di partecipazione alla produzione di ricchezza delle classi
subalterne, fattasi incompatibile con i profitti, avvia quindi una gigantesca
stagione di deregolazione nella quale l'Europa (Inghilterra, Francia, poi
Germania, e infine Italia) è in prima fila. Deregolazione della finanza, quindi
del lavoro e infine delle merci. La deregolazione procede simmetricamente alla
perdita di peso delle organizzazioni del lavoro e insieme al sorgere ed
applicarsi di tecnologie che consentono organizzazioni a rete orizzontale,
apparentemente meno gerarchiche e standardizzazioni su una scala che, insieme
al movimento dei capitali, fa diventare possibile costruire reti logistiche
lunghissime ma non per questo inefficienti. E' la stagione degli investimenti
diretti all'estero che spezzano le reni al potere dei sindacati e costringono
il lavoro ad accettare una riduzione della ripartizione di base della ricchezza
di oltre dieci punti[15].
Al termine di una lunga
agonia interviene a questo punto il fattore cruciale di accelerazione: la dissoluzione pacifica dell'impero
sovietico. La parte est viene assorbita in pochi convulsi mesi dall'Europa,
ritornata improvvisamente ad egemonia tedesca (mentre i francesi, come loro
solito, si illudono di dominarla), e tutti i movimenti socialisti occidentali
ripiegano in disordine. Si forma l'Unione Europea[16] sotto questo segno, la ‘fine della storia’[17] ed il trionfo del
modello anglosassone di capitalismo (anche se nelle stanze di dietro gli abili
tedeschi inseriscono copiose dosi di Ordoliberalismo). Viene blindata in questo
modo un’area di mercato competitivo nel quale non può trovare posto la
redistribuzione e i meccanismi di compromesso sociale e politico del
capitalismo latino[18].
Insomma, sotto il
benevolo controllo americano, ed all'ombra delle numerosissime basi militari,
sembra a molti che la storia complessa del novecento sia davvero finita e resti
solo la promessa di arricchirsi da raccogliere però individuo per individuo, l’uno contro l’altro. Una società dei
consumi, felice di competere nella quale il migliore potrà sempre trovare la
propria strada. Una società che si incardina su un potentissimo e pervasivo
dispositivo nascosto che fa leva su bisogni e desideri dei singoli,
chiedendogli di pensarsi come potenza in atto non come produttori, e quindi
collettivamente[19], ma come consumatori e
capaci di piacere e desiderio individuale. Questa promessa di vita e di energia individuale produce un immaginario
irresistibile che però ha un rovescio: il dominio e lo sfruttamento di coloro
la quale potenza resta in attesa, spesso per sempre, e che devono essere
sfruttati perché quella di pochi passi ‘in atto’. Dimenticando la linea di
ombra[20], la società generata
dalla competizione senza freni, fatta sistema, della mondializzazione
neoliberale finisce quindi per costruire una narrazione avvincente,
accompagnata dallo spettacolo multiforme della tecnica, che prevale sulle
trascendenze alternative e concorrenti: sulla teologia politico-economica del
marxismo, nelle sue diverse forme, e sulla teologia politico-sociale del
cristianesimo.
Al passaggio di
millennio, però, viene compiuto quel che la storia si incaricherà di indicare
come un errore incomprensibile, una hyubris guidata dall'orientamento a corto
termine che la finanza ed il sistema delle imprese giganti che ha preso il
centro della scena ha connaturato: nell'Uruguay
Round viene ammessa la Cina, con un trattamento di favore, e sono abbattute
quasi tutte le barriere. Da allora tutte le produzioni a basso, e via via
maggiore, valore aggiunto si spostano in oriente, i prezzi delle merci
precipitano ma insieme e per lo stesso meccanismo, come due lati di una
medaglia, lo fa anche il potere di acquisto delle classi basse e via via
superiori.
Si apre un vuoto nel centro dell'occidente, al quale i paesi
tradizionalmente volti all'esportazione (Germania e Giappone in primis)
rispondono allargando ancora i loro squilibri commerciali che comunque erano
usciti dall’equilibrio precedente già dalla caduta di Brandt[21]. In un lungo
concatenamento di effetti e cause intrecciati come una catena di acciaio il
vuoto si propaga, e rende necessario un sempre più affannoso inseguimento con
nuove espansioni di valore fittizio fatte gocciolare a compensare l'incapacità
di troppi di ottenere ciò che il sogno del consumo (che legittima l'esistente)
promette[22]. Si arriva quindi alla
parossistica coltivazione di ‘bolle’ l'ultima delle quali è quella immobiliare,
e si arriva, con l'inesorabile meccanismo descritto da Minsky al crac del 2007[23].
Da allora seguono
dieci anni di ristrutturazione e di tentativi continui di far continuare il
business che si è rotto, scaricandone i costi su chiunque altro. Ma insieme, da
allora, si comincia a vedere le forze relative della Cina e la ripresa della
Russia promettere ormai che non potrà più riprendere il vecchio gioco di
dominio solitario e quindi la globalizzazione ‘felice’ degli anni novanta [24].
Guardando
dal punto di osservazione delle società occidentali, intorno a questi fenomeni che
tendiamo a riassumere nel termine ‘globalizzazione’ ha in sostanza preso
forma un nuovo compromesso sociale a rapporti di forza
invertiti, rispetto a quello del “welfare state” novecentesco. Nel contesto di
un’impostazione economica essenzialmente deflattiva, si è creata la condizione (di
potere normativa e tecnologica) per un enorme allargamento della base
produttiva, con il coinvolgimento di centinaia di milioni di nuovi lavoratori,
che ha prodotto effetti molteplici sia sulla distribuzione sociale sia sui
costi dei beni industriali e quindi sul consumo. A partire dagli anni settanta,
e via via più velocemente, sono calati i prezzi relativi dei beni industriali
di massa e questo, malgrado l’erosione del reddito della parte attiva della
popolazione, ha creato a lungo sia una sensazione crescente di ricchezza diffusa
sia il fenomeno sociale e culturale del “consumismo”. Dunque le condizioni per
la creazione di un consenso su nuove basi: sul consumo anziché sul
lavoro.
Ma questo continuo
accelerare della instabilità, disperatamente tamponata, nello sforzo di sacrificare
altri e conservare la propria potenza, con ricette opposte nei principali
centri del capitale occidentale[25] si è presento sulla
scena approfondendo ininterrottamente per
dieci anni il vuoto nel quale l’occidente tra precipitando. Insieme alla spirale
di perdita di capacità di acquisto, sovrapproduzione, tensione deflattiva,
erosione dei margini di profittabilità, ricerca di soluzioni a breve termine
comprimendo i costi, caduta della produttività, rinvio degli investimenti, e
via dicendo, inizia però alla fine a venire meno il consenso sul quale il
neoliberismo aveva vinto la sua battaglia contro le promesse di salvezza
alternative: la crescita della felicità
attraverso il consumo.
La globalizzazione è
stata, insomma, un continuo inseguire la crisi per stare un passo avanti, ma
ormai questa ci ha raggiunti.
Sarà necessario che la
storia, che sembrava finita, riprenda il suo cammino e la soluzione tampone
trovata per strada per rimediare all’esaurimento dell’equilibrio sociale
keynesiano venga superata.
[1] - John Maynard
Keynes, “Un’analisi economica della disoccupazione”, intervento alla Harris Foundation,
1931, in Come uscire dalla Crisi,
Laterza,1983, p.44.
[2] - Il meccanismo
di trascinamento è che le classi alte hanno una propensione al consumo
inferiore. Dunque se la stessa somma è distribuita in alto, la quota
risparmiata è maggiore e le somme tesaurizzate tendono a non circolare
abbastanza. A sua volta, la riduzione dei consumi inibisce gli investimenti
produttivi, per assenza di domanda dei beni da produrre, e quindi tende ad
aumentare gli impieghi meramente speculativi.
[3] - Si veda Amato e
Fantacci, “Fine
della finanza”, Donzelli, 2009.
[4] - Anziché di
ricchezza reale, qualunque cosa la società possa intendere con questo termine.
In altre parole, il capitalismo è autoprogrammato per generare valore solo per
chi è incluso nel suo circuito autoreferente. Il meccanismo di trasformazione
della natura in ‘merce’, e del suo consumo attraverso il realizzo del suo
‘valore’, attraverso il quale si determina il ‘capitale’ è orientato non al
consumo, ovvero alla creazione di ‘ricchezza’, ma all’accumulazione di altro
‘capitale’. Il ‘capitale’ è quella forma del valore che per esistere deve
accrescersi costantemente senza altro scopo che la propria esistenza. Ciò
genera un ‘sistema automatico’ che non è affatto dotato di volontà, e non è un
macrosoggetto (essendo, anzi, il luogo della concorrenza), ma è portatore di
una logica immanente. Bisogna prestare attenzione ad un elemento importante:
non è affatto la finanza ad essere la parte ‘cattiva’ e l’industria quella
‘buona’, la crescita di questa, anche se ha andamento ‘tumorale’, è causata
dalla carenza di sbocchi della prima. La congestione dei capitali da
valorizzare nell’economia reale è il motore iniziale. E quindi la necessità
intrinseca, direi definitoria, del capitale di valorizzarsi a qualsiasi costo,
necessità che cammina sulle gambe di tutti gli operatori, in qualunque
posizione siano nel sistema.
[5] - E che furono oggetto delle analisi di
Marx e di Engels, mentre la soluzione lo fu delle analisi di Polanyi sul piano
sociale Cfr. Karl Polanyi, “La
grande trasformazione”, 1944.
[6] - Dunque la
globalizzazione va vista anche come effetto e fenomeno connesso con la “grande partita”
in corso per l’egemonia nel mondo, nella transizione tra logiche
“territorialiste” e “capitaliste” (Arrighi).
[7] - La
globalizzazione non è un fenomeno esclusivo del tardo ventesimo secolo, e non è
neppure una irresistibile e tendenza della storia, che apprende la strada
dell’armonia universale, è molto più un movimento ciclico determinato dal gioco
del potere. Si tratta, come è avvenuto a scale diverse con i grandi imperi del
passato proto-capitalista e in epoca moderna con la fase imperiale del dominio
inglese (dopo la sconfitta di Napoleone via via consolidatosi nella sostanza
entro il XIX secolo) dell’effetto e della forma che prende la capacità di un
modo di produzione egemone, sostenuto dalla forza anche militare e comunque
economica, di costringere ogni altro alla compatibilità. Momenti di predominio
che, per loro natura, non possono durare in eterno, le condizioni che lo
rendono possibile tramontano, e i sistemi alternativi, resi subalterni e
costretti ad aprirsi, per questo, apprendono, alzando il livello del confronto.
[8] - Cfr, per una
descrizione parziale dei problemi che dovettero essere affrontati nella
Conferenza di Bretton Woods, condotta sotto stretto controllo americano e con
l’agenda seminascosta di consolidarne il dominio morbido sul mondo che la
guerra rendeva evidente, davanti alla necessità di ridisegnare gli assetti del
mondo e garantire la rimozione delle cause della tragica doppia guerra civile
europea (identificati negli squilibri di capitale e nelle guerre commerciali
derivanti) si veda … Keynes
[9] - Il relativo
dominio industriale e quindi commerciale degli USA, nel campo occidentale, e
quello dell’Urss, nel relativo campo, determina le condizioni per un
capitalismo a competizione temperata e sufficientemente minacciato dall’esempio
sovietico da non poter forzare la mano alle forze sociali organizzate del
lavoro. In un quadro di aspra conflittualità il capitale si trova inibito dalla
sua principale fonte di forza, la mobilità (arrestata dagli accordi presi), e
d’altra parte a partire dagli anni cinquanta si trova ad essere ancorato al
dollaro, un dinamico squilibrio si istituisce tra la tendenza della
competizione intercapitalistica, sia entro sia tra sistemi di regolazione
intrecciati, ad erodere il saggio di profitto e le controforze determinate dal
capitale pubblico, che fornisce beni sottratti alla logica di mercato, sia
dalla intensificazione della produttività per via tecnologica e sociale, sia,
infine, dalla espansione dei consumi e quindi dei mercati. Fino a che questo meccanismo
resta in ascesa se ne giovano sia i lavoratori, che vedono crescere il proprio
reddito disponibile e i beni pubblici disponibili (reddito indiretto) sia il
capitale, che guadagna in estensione quel che perde in intensità dello
sfruttamento. Si tratta, sotto molti profili di quel che Minsky (1975) chiama
“keynesismo privatizzato” che coltiva gli elementi destabilizzanti nascosti in
particolare nell’intrinseca instabilità della moneta finanziaria.
[10] - Con la
necessaria sintesi, una crisi competitiva, dato che l’industria americana non
aveva più lo schiacciante predominio che aveva determinato l’esito della crisi
delle due guerre, ed era sfidata da potenze industriali emergenti di vario
rango, tra le quali il Giappone, la Germania, la stessa Italia, e le prime
“tigri asiatiche”. Ma anche una crisi militare (con i costi di protezione che
esplodono ed i costi delle due guerre semiperse di Corea e Vietnam ad erodere
anche il prestigio). Ciò che accade in quegli anni è che il progetto del
dopoguerra, creare mercati per l’industria USA, facendo ripartire i consumi del
mondo al contempo creando delle aree forti, ma subalterne, anche in prospettiva
antisovietica, dei guardiani del faro, nella Germania e nel Giappone, incontra
i suoi limiti. Il piano egemonico statunitense prevedeva, per restare in
equilibrio, che l’eccedenza commerciale venisse reinvestita nelle aree captive
(Europa e Giappone), facendo leva sui paesi d’ordine (Germania e Francia nel
caso europeo). Mentre l’industria centroeuropea doveva trovare sbocco in
particolare nell’aurea comunitaria, l’industria giapponese vede il sostegno
direttamente del mercato americano e delle guerre d’area, come stimolo
aggiuntivo. Ma la guerra del Vietnam finisce per costare quasi 300 miliardi di
dollari complessivi, e crearono condizioni di inflazione che in cinque anni
erosero di due punti il potere di acquisto degli americani e di diciassette i
profitti medi delle imprese. Contemporaneamente la “grande società” di Lyndon
Johnson presentò il suo conto e il governo federale dovette far lievitare
enormemente il debito pubblico. Al 1971 le passività americane erano di 70
miliardi di dollari, a fronte di riserve d’oro di 12. Una enorme quantità di
dollari inonda i mercati mondiali e genera pressioni inflazionistiche
secondarie in Francia, Inghilterra e via dicendo. Ciò perché le regole del
cambio fisso costringono i paesi europei, a loro volta, a fare espansione
monetaria. In sostanza gli europei accusano gli Stati Uniti di esportare
inflazione per finanziare il loro welfare (ai fini di garantirsi stabilità
interna) e la guerra. L’ “esorbitante privilegio” di poter stampare dollari
senza apparenti vincoli, mostrava il suo rovescio. Quando gli Stati Uniti
passano da paese che esporta eccedenze, a paese che accumula deficit, quel
vincolo comincia ad esportare instabilità. Allora, nel 1967 l’Inghilterra viola
le regole e deflaziona la sterlina del 14%, costringendo gli USA ad impegnare
il 20% delle riserve per mantenere il prezzo del dollaro rispetto all’oro (35
dollari per oncia), nel 1970 Paul Volcker, nominato sottosegretario al Tesoro,
propone la soluzione di sospendere la convertibilità. Nel agosto 1970 la
Francia e l’Inghilterra chiedono la conversione delle loro riserve in moneta ed
il piano di Volcker, in risposta, scatta.
[13] - L’enorme
aumento del costo delle materia prime, che provoca una serie devastante di
effetti a catena, facendo aumentare i costi di produzione, l’inflazione, è un
effetto della rottura di Bretton Woods nelle condizioni di grave squilibrio
nella quale avviene. L’oro passa da 35 a 455 dollari l’oncia nel 1979, il
dollaro perde il 35% del valore rispetto al marco ed il 20% sullo Yen ed il
franco, il petrolio, influenzato da un cartello difensivo dei produttori, passa
da 3 $ al barile a 30, dopo la guerra del Kippur, e via dicendo (tutte le
materie aumentano, bauxite, rame, ferro, argento, …). L’effetto complessivo è
che il resto del mondo finisce per finanziare il deficit americano,
redistribuendo per via finanziaria le eccedenze nel mercato americano. I flussi
di capitale invertono la loro direzione. Ma è necessario, dal punto di vista
americano anche contenere la competizione che l’industria estera fa a quella
americana, e a tale fine l’incremento dei fattori produttivi (dato che gli USA
hanno ingenti risorse di materie prime) sono una buona strada.
[16] - Per una lettura
del dibattito di ratifica del Trattato di Maastricht, si veda. https://tempofertile.blogspot.com/2014/04/dicembre-1991-novembre-1993-il-trattato.html
[17] - Il riferimento
è al famoso libro di Fukuyama, “La fine
della storia”.
[18] - Per un
confronto con spessore storico tra il capitalismo latino e quello anglosassone,
a volte definito, protestante, si veda Luigino Bruni “Il
mercato e il dono”.
[19] - Quello lo
pensava il marxismo,
[20] - Nella
distorsione prospettica per la quale ognuno, equivocando la natura sociale di
ogni possibile potere e di ogni possibile piacere e consumo, si pensa
vincitore, quando è tanto più probabile non esserlo.
[21] - Cfr. D’Angelillo,
“La
Germania e la crisi europea”.
[22] - E’ quel che
Wolfgang Streeck, in “Tempo
guadagnato” chiama, con felice formula, ‘comprare tempo’.
Cfr.
[23] - Vedi Hyman
Minsky, su “Keynes
e l’instabilità del capitalismo”, 1975. Sulla crisi del 2008 si
può vedere Raghuran Rajan, “Terremoti
finanziari”, da una prospettiva liberale, Joseph Stiglitz, “Il
prezzo della disuguaglianza” (o il successivo “Bancarotta”),
ma anche Paul Krugman “Il
ritorno dell’economia della depressione”, da una prospettiva
keynesiana, e autori come Lohoff, (ad esempio in “Crisi”,
o “Terremoto”)
da un punto di vista marxista.
[24] - Che,
naturalmente, ‘felice’ è stata solo per chi riusciva a posizionarsi nei pressi
dei flussi di capitali caldi che attraversavano il mondo e sembravano non avere
limiti.
[25] - In Usa con
un’espansione monetaria imponente e tempestiva, accompagnata da estensioni di
protezione e garanzie esclusivamente estese alla parte finanziaria
dell’economia (di cui è riconosciuta la centralità sistemica e il potere
reale), insieme ad una costante intensificazione dello sfruttamento, in Europa
con l’insorgere di una economia duale, con un ‘core’ dedito all’esportazione ed
all’accumulo di attivi finanziari, riciclati nei mercati in espansione, ed una
periferia costretta ad una brutale austerità per dare priorità al servizio del
debito nei confronti del centro. Cfr. Streeck “l’ascesa
dello Stato di consolidamento europeo”.
[26]
- L’intero equilibrio, e tutte le politiche postkeynesiane, sul piano del
consenso sono inconsapevolmente appoggiate sulla pacificazione sociale creata
dalle politiche welfariste. L’attuale “Rivolta
degli elettori”, come efficacemente scrive Spannaus, e quindi
l’intera perdita di stabilità politica dell’occidente, in modo singolarmente
simile alla crisi descritta da Polanyi, è invece causata dall’erosione insopportabile
per le biografie concrete di troppi della sicurezza esistenziale che era stata
prodotta (e delle classi medie che la incarnavano). Le politiche liberiste,
concentrate sulla riduzione della ‘minaccia’ della burocratizzazione e dei
sistemi di regolazione, sentiti come oppressivi, e quindi operanti per via di
deregolazione e disgregazione dei corpi intermedi protettivi della società
(inclusa la stessa democrazia rappresentativa, a ben vedere, cfr, ad esempio
Peter Mair, “Governare
il vuoto”) hanno insomma distrutto la base sociale del loro
consenso. Promettendo felicità hanno portato incertezza ed angoscia.

Nessun commento:
Posta un commento