Il libro di Christopher Lasch fu pubblicato nel
1995, quando il grande intellettuale americano era già morto da un anno, e si
presenta come un fondamentale atto di accusa di quel “tradimento della democrazia”, che reca come sottotitolo. Attacca
con il piglio di chi si sta separando dalla vita, e può dire tutto, quelle élite
che si sono ridotte a separarsi radicalmente dal resto della società e ormai
“hanno una visione essenzialmente turistica del mondo”. Più o meno nello stesso
anno Richard Rorty, che gli sopravviverà per un decennio abbondante, aveva
scritto qualcosa di molto simile, in “Una
sinistra per il prossimo secolo”, nel quale accusava il “ceto cosmopolita” di non avere alcun senso
di comunanza con il resto della società. Gente che si sente a suo agio solo nei
jet, mentre vanno da un posto all’altro [1],
e che giudica la middle class come “tecnologicamente arretrata, politicamente
reazionaria, repressiva nella morale sessuale, retriva nei gusti culturali”. Un
ceto, quindi, la cui cifra distintiva è l’arroganza ed il senso di superiorità.
L’attacco, per Lasch
come per Rorty, è proprio alle élite
culturali, più che a quelle economiche che saranno in particolare attaccate
da un altro grande vecchio che ci ha lasciato in quegli anni, Ralf Dahrendorf [2].
Quelle classi intellettuali che si estraniano dagli aspetti materiali della
vita e dal mondo della produzione, con la quale sono connessi solo per via del
consumo, vivendo alla fine solo in un mondo di “astrazioni ed immagini”.
Christopher Lasch è
stato uno storico ed un sociologo di formazione marxista ma poi orientatosi ad
una critica sempre più aspra del “progressismo” [3],
e alla critica del ‘narcisismo’ [4],
senza dismettere, ma anzi approfondendo la sua critica al liberalismo, riprendendo
temi populisti e un’attenzione alle strutture tradizionali della società
(famiglia inclusa). Per questo motivo è diventato con il tempo il bersaglio di
feroci critiche da parte di quella cultura del ‘politicamente corretto’ che, a partire dai college e dalle
università negli anni sessanta si era estesa negli ambienti culturali
anglosassoni. Negli anni sessanta Lasch era peraltro molto impegnato nel campo
socialista, sulla linea di autori come C. Wright Mills, Dwight MacDonald, e
poi si avvicinò alla Scuola di Francoforte, dalla quale transitò in direzione
di una critica sempre più radicale dell’illuminismo (sulla linea di Benjamin e
di Adorno). Influenze intellettuali sono anche riconoscibili in Jacques Ellul,
Lewis Mumford, Henry George.
La domanda che Lasch si
pone in questa sua ultima opera, scritta con l’aiuto della figlia mentre la
malattia terminava il suo corso, è se “la democrazia ha un futuro”. Se i
problemi strettamente connessi del declino dell’industria manifatturiera, della
contrazione della classe media, della crescita della povertà, dell’impennata
della criminalità, del traffico di droga e del degrado delle città, gli
lasceranno ancora spazio. Come Dahrendorf, Lasch accusa le “classi
privilegiate” di essersi separate e di essere andate a costituire una nuova
élite formata “non soltanto dai manager delle grandi aziende, ma da tutte
quelle professioni che producono e manipolano l’informazione – la linfa vitale
del mercato globale” e che nel tempo sono diventate sempre più cosmopolite e
mobili. La necessità di spostarsi, come requisito per fare carriera, è infatti il
fattore che determina l’insorgente “mentalità turistica” e che allontana dalla
democrazia. Precisamente da quella unità di base della democrazia che sono le
comunità capaci di autogoverno (e non gli individui).
Per Lasch, alla fine, è
proprio il declino di queste comunità a mettere in discussione il futuro della
democrazia.
Le élite culturali [5]
hanno alla fine perso fiducia nei valori dell’occidente, rifugiandosi in nuovi
movimenti (come il femminismo, i movimenti LGBT, etc…) che “non hanno nulla in
comune tra di loro” e in effetti hanno una sola “rivendicazione coerente”, che
è “l’annessione nelle strutture dominanti”. In altre parole, per Lasch, hanno
perso la prospettiva della trasformazione rivoluzionaria delle relazioni
sociali, in favore di una liberale richiesta di integrazione.
Si tratta di una
trasformazione singolare, il baricentro della critica si è spostato verso
quelli che chiama “i liberali delle classi medio-alte” che proprio non riescono
a capire come mai i loro valori così giusti e corretti non siano condivisi
dalle masse (probabilmente distratte da necessità triviali). Ne segue che “al
tempo stesso arroganti e insicure, le nuove élite, in particolare le classi
professionali, guardano alle masse con una mescolanza di disprezzo ed
apprensione” (p.30). E con questo atteggiamento di disprezzo ed apprensione
guardano anche tutto ciò che si oppone al progresso: ai valori familiari, al
patriottismo, alla religione, ma anche al razzismo, alla omofobia, …
Dal punto di vista
sociologico quel che avviene, anzi quel che è avvenuto, è una separazione tra
le “classi creative”, gli analisti simbolici, celebrati da tutta una
letteratura degli anni ottanta e novanta[6],
che è in una relazione molto forte sia con il declino dello Stato Nazionale,
sia con quello della classe media e delle democrazia. C’è tutta una letteratura[7],
negli anni in cui esce questo libro, che infatti valorizza, in perfetta
continuità con la letteratura del management[8],
la creatività e l’antiautoritarismo implicato in questa rivoluzione nel mondo
del lavoro. Scrive, ad esempio, Castells: “Nonostante i formidabili ostacoli
posti da management autoritario e capitalismo di sfruttamento, le tecnologie
dell’informazione richiedono maggiore libertà per i lavoratori meglio informati
affinché possano mantenere appieno la promessa del loro potenziale di
produttività. Il networker, il lavoratore in rete, è l’agente necessario
dell’impresa a rete resa possibile dalle nuove tecnologie dell’informazione”[9].
Si arriva per questa via al tecnoentusiasmo sui generis espresso nel fortunato
libro di Negri e Hardt, “Impero”[10]
nel quale la stessa lotta di classe, sostanzialmente abbandonata, diventa qualche
cosa di fantasmatico, condotta molecolarmente nei singoli rapporti individuali
(più in senso di ‘lotta per diritti’ che in quello di emancipazione del ‘noi
sociale’ collettivo[11]),
forse ‘fabbrica’ per ‘fabbrica’[12]
e non attraverso il faticoso lavoro di organizzazione, mediazione, confronto e
attraversamento delle istituzioni, contrapposizione, scontro. Più volte Negri
scrive, che in attesa della nuova ‘orda nomade’, di barbari che dovranno
evacuare, l’Impero non ha una
applicazione concreta, e del resto all’avvio chiarisce l’obiettivo di unire
liberalismo e socialismo[13].
Hardt e Negri sostengono che quindi si sta materializzando “l’Impero”, che questo è determinato
dalla “irresistibile e irreversibile globalizzazione” la quale genera ‘una
nuova forma di sovranità’. Questa nuova forma, che è l’impero, comporta
l’insorgere di organismi sovranazionali e nazionali tutti uniti da “un’unica
logica di potere”. Ma questa logica “non ha nulla a che vedere con
l’imperialismo” e non ha alcun centro; si tratta invece di un apparato
decentralizzato e deterritorializzante. Un apparato che nasce anche grazie alla
buona costituzione degli Stati Uniti, che sono nativamente post-statuali, per
così dire, e che determina “un ordine che
sospendendo la storia, cristallizza l’ordine attuale per l’eternità”[14],
cioè si trova “al di fuori della storia o al suo fine”[15].
Tutto ciò ha un’aria
familiare, a ben vedere, si tratta di un
travestimento di un mito. Come sostiene Lloyd Warner già nel 1954, è
infatti questa mobilità, questa promessa, ad essere il carattere distintivo del
sogno americano e la ‘grazia salvifica’ di un mondo altrimenti ordinato
gerarchicamente. Un mito sfidato dalla realtà di una società sempre più duale e
sempre più bloccata, nella quale alti livelli di istruzione, di connessione e
di capacità sono riservati a coloro che possono trovarseli in eredità. Tutto
ciò deriva dal semplice fatto che, come dice causticamente Lasch, “ai nostri
giorni, si sa, l’unica misura dell’eguaglianza è il denaro”.
Ora, poiché la
democrazia, invece, “merita di sopravvivere”, per il nostro bisogna prestare
attenzione alle sue radici, che si trovano nel “movimento populista” (americano),
cui anche la forza dell’originario movimento per i diritti civili si ancorava.
Martin Luter King è riletto a questo proposito nel suo rifiuto di fare delle
vittime dell’oppressione una posizione morale privilegiata. I neri dovevano
assumere la responsabilità del proprio destino e dell’accesso ad uno “sviluppo
stabile ed equilibrato del carattere” (Dewey), in una tradizione che viene
fatta risalire a Emerson, Whitman, Brownson, Hawthorne, Royce, Cooley. La
democrazia è quindi molto più, ed esige molto più, del solo egoismo illuminato
e della apertura mentale e tolleranza, ha bisogno di un’etica spiritualmente
più stimolante.
Come scrive, “dal punto
di vista di quanti sono ossessivamente concentrati sul problema del razzismo e
del fanatismo ideologico, la democrazia può significare una cosa soltanto, la
difesa di quella che definiscono ‘diversità culturale’. Ma ci sono dei problemi
ben più importanti che i sostenitori della democrazia dovrebbero risolvere: la
crisi della competenza, la diffusione di un’apatia e di un cinismo soffocanti,
la paralisi morale di chi mette sopra qualsiasi valore quello dell’apertura”[16].
Questo atteggiamento di
cinismo e di paralisi morale è proprio figlio del liberalismo, precisamente di
due suoi caratteri centrali: la fede nel
progresso e il credo che uno stato
liberale può esimere dall’obbligo della virtù civica. Questi due assunti
sono peraltro in stretta connessione logica con il capitalismo. Uno dei punti
di riferimento intellettuale di questa tendenza dominante (oltre agli ovvi
Milton Friedman e Robert Nozick) è John Rawls, che è “il primo esponente di un
liberalismo socialdemocratico che concepisce gli esseri umani come pure
astrazioni, come totalmente assorbiti dalla massimizzazione dei propri
guadagni”[17].
Invece è assolutamente
necessario un sottofondo di moralità civica condivisa, che Lasch trova anche
nella socializzazione primaria data dalla famiglia e da costumi, consuetudini e
abitudini invalse (termini di riferimento del comunitarismo, con il quale pure
polemizza). Ma non trova nella ‘compassione’, e nel riconoscimento di una posizione
morale privilegiata alle varie minoranze. Ciò che bisogna capire al riguardo è
che “una compassione malintesa degrada tanto le vittime, ridotte ad oggetto di
pietà, quanto i loro aspiranti benefattori, che trovano più facile compatire i
propri concittadini che proporre loro degli standard impersonali, il
raggiungimento dei quali darebbe loro pieno titolo al rispetto. Noi abbiamo
pietà di chi soffre, ma riserviamo il rispetto a chi rifiuta di sfruttare le
proprie sofferenze per suscitare pietà. Rispettiamo coloro che sono disposti ad
assumere la responsabilità delle proprie azioni.”[18]
Oggi, sostiene Lasch, “la compassione è diventata il volto umano del
disprezzo”, è espressione di una “doppia morale” e di una posizione autoassunta
di superiorità da parte di chi si arroga l’incarico di occuparsi degli altri.
L’accusa è diretta
verso il degrado dello stile di vita comunitario, che implicava un certo grado
di controllo sociale, ma anche la capacità di assumere la responsabilità e
adattarsi alle norme del vivere civile. Associazioni volontarie e di vicinato,
vita di quartiere, un settore pubblico vigoroso, sono sfidati da una economia
urbana che continua a deteriorarsi a causa di molti fattori, tra i quali la
fuga all’estero dell’industria produttiva che apre un vuoto non colpato
completamente da finanzia, comunicazioni, turismo e industria
dell’intrattenimento. La terziarizzazione, in altre parole, incoraggia uno
stile di vita edonistico e concentrato su di sé, e la speculazione immobiliare
può solo aggravare la cosa.
Sono posti anche sotto
critica il degrado della pubblica istruzione, orientata ad abilità specifiche,
invece che alla formazione intellettuale e quindi come cittadini consapevoli[19],
il crollo della capacità di discutere e della politica[20],
lo “pseudoradicalismo” accademico, dove una educazione adeguata è diventata un
privilegio da ricchi, mentre una verbosità sovraccarica nasconde il carrierismo
dietro uno spesso schermo distraente[21],
finendo per costituire una “classe colta”, che in effetti non minaccia alcun
ordine costituito, mentre dà l’impressione di rifiutarlo in blocco (ma
limitandosi ad un ben gesto estetico, senza alcuna prassi possibile).
Da tutto ciò deriva un
liberalismo ossessionato dai diritti delle donne, delle minoranze, dei gay, … e
dove la “giustizia sociale” è divenuta solo, proprio non per caso, un
riferimento per terapie “volte a distruggere gli effetti malsani degli atteggiamenti
‘patriarcali’ e ‘autoritari’ e a impedire a chiunque di ‘dare la colpa alla
vittima’”[22]. Una
critica sulla quale è tornato di recente Mark Lilla, in “L’identità
non è di sinistra”.
Oggi, l’atteggiamento
delle classi che si sono separate, e che sentono la propria superiorità insieme
alla vocazione a soccorrere compassionevolmente le vittime (purché non siano in
maggioranza, purché sia deboli e siano rigorosamente minoranze) è, insomma, quello
di chi “fissa impavidamente lo sguardo
nella luce, senza distogliere gli occhi”[23].
Una classe che si sente “disillusa ma
impavida”, orgogliosa della propria emancipazione intellettuale a tal punto
da percepirsi al vertice di un processo di apprendimento morale fatto di
continua perdita di “illusioni” e di incremento di autocoscienza critica. Ma un’autocoscienza
che in sostanza si nutre della disillusione (come dice Lasch “la disillusione è il prezzo del progresso”).
La disillusione, “si potrebbe dire, è la forma caratteristica
dell’orgoglio moderno”.
[1]
- Lo stesso esempio è in entrambi.
[2] - Si veda, in particolare, “Dopo
la democrazia”, del 1999, in cui il sociologo anglo-tedesco prende atto
della preminenza di quel “misterioso network che chiamiamo mercato”, al di
fuori del processo democratico. Anche lui mette sotto il fuoco dell’analisi
l’emergere di una “nuova classe globale”, legata da interessi che oltrepassano
i confini nazionali e che sono estranei a qualsiasi patriottismo. Queste nuove
classi, determinate dalla connessione e dalle tecnologie dell’informazione,
percepiscono confusamente le istituzioni tradizionali come ostacolo allo
sviluppo a loro favorevole, e dunque operano per aggirarle o distruggerle. Un gruppo, sostiene Dahrendorf, che è “un
pericolo per la democrazia”, in quanto naturalmente la elude, non ne
capisce il motivo, ne sente le regole come limiti, non la inquadra nei suoi
valori, il merito, la velocità, la connessione, il successo. Questa classe
globale è, cioè, strutturalmente ineguale. E soprattutto non ha bisogno di
nessuno, per loro gli sconnessi non servono, i poveri (delle tre “C”, Concetti, Competenze, Connessioni) non
sono necessari.
[3]
- Fondamentale il suo “Il paradiso in terra.
Il progresso e la sua critica”, del 1991.
[4]
- Si veda, “La cultura del narcisismo”,
1979, e “L’io minimo”, 1984.
[5] - Proprio in
quanto si sono allontanate dalle comunità e si sono isolate in una torre fatta
di astrazione e quindi “si sono ribellate”.
[6]
- L’autore cita l’influente tentativo di razionalizzazione di Robert Reich
attraverso la categoria di “analisti simbolici”, contrapposti ai “routine
production worker” ed i “in-person servers” (addetti alle persone). I primi
sono circa il 20% della forza lavoro, e sono in crescita di ricchezza e
privilegi, mentre i secondi e terzi rappresentano l’80% e stanno perdendo.
[7]
- Potrebbe essere citato il lavoro di Manuel Castells e la sua “società della
rete”, con il suo passaggio dall’industrialismo all’informazionalismo.
Prendiamo, ad esempio, questo brano: “la maturazione della rivoluzione della
tecnologia dell’informazione negli anni novanta ha trasformato il processo
lavorativo, introducendo nuove forme di divisione sociale e tecnica del lavoro.
Ci sono voluti tutti gli anni ottanta per la completa penetrazione nel
manifatturiero dei macchinari basati sulla microelettronica, ed è stato solo
negli anni novanta che i computer in rete si sono diffusi a tutte le attività
di elaborazione informazioni al centro del cosiddetto settore dei servizi. A
metà degli anni novanta, il nuovo paradigma informazionale, associato all’emergere
dell’impresa a rete, era ben insediato e pronto allo sviluppo” (“La nascita della società in rete”, 1996,
p.278)
[8]
- Ad esempio, Daniel Goleman, “Lo spirito
creativo”, 1992 (ed it. Rizzoli, 1999); Daniel Goleman “Lavorare con intelligenza creativa”, 1995,
(ed. or. BUR, 1998); Thomas Stewart, “Il
capitale intellettuale”, 1997 (ed.or. Ponte alle Grazie, 1997).
[9]
- Manuel Castells, op.cit. p.279
[10]
- Antonio Negri, Michael Hardt, “Impero”,
2000.
[11]
- Il cui concetto è riletto come forma di oppressione patriarcale e
logocentrica.
[12] _ Che in questo
caso potrebbe significare anche ‘tastiera’ per ‘tastiera’, dato che l’operaio
diventa ‘sociale’.
[13]
- Cercando di porsi, non si sa come, “allo stesso livello della sua totalità”,
dell’impero che è molto significativamente dichiarato come “fine della storia”.
[14]
- ivi, p.16
[15]
- Allora che si fa se si è alla fine della storia, e per definizione nulla può
accadere dopo? Che “all’interno e contro” si deve riorganizzare e riordinare un
“controimpero”. Ma un “contro impero” per il quale “non abbiamo nessun modello”
(ivi .p.380) e in cui “i conflitti sociali che costituiscono il politico si
fronteggiano direttamente senza alcuna mediazione di sorta”. E’ infatti la
“moltitudine” ad essere caratterizzata da essere direttamente e senza alcuna
mediazione contro l’Impero. Un non-soggetto che incorpora una teleologia
“teurgica”, che usa tecnologia e produzione per la sua gioia. Nozioni che
sarebbero riprese “dalla costituzione degli Stati Uniti, … cioè le sue nozioni
di una sconfinata frontiera della libertà e le sue definizioni di una
spazialità e temporalità aperte, esaltate dal potere costituente”
[16]
- Lasch, cit, p.79
[17]
- Ivi. P. 88, una critica che riecheggia quella di Michael Sandel in “Il liberalismo e i limiti della giustizia”.
[18]
- p.90
[19]
- p.119
[20]
- p.133
[21]
- p.149
[22]
- p.170
[23]
- p. 193


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