Il
libro[1] del 2021 di Enzo Traverso
reca come sottotitolo “1789-1989: un’altra storia”, ed è un’ampia ed
interessante ricostruzione della logica e della pratica storica dell’età
rivoluzionaria nel ciclo aperto dalla Rivoluzione francese e concluso (in
occidente) con il crollo dell’Urss. La rivoluzione viene vista come improvvisa
interruzione del continuum storico, secondo una nota formula di Walter
Benjamin, ed inseguita sia nelle sue determinazioni teoriche, sia nella pratica
vicenda e nei protagonisti.
Rivoluzione
e leggi storiche
Contrariamente
a molte interpretazioni il testo valorizza quell’interpretazione della
rivoluzione non determinista che si può ritrovare anche in Marx, nel quale,
secondo Traverso se ne trovano anzi due, a combattere una silenziosa
battaglia: una determinista ed una non determinista.
La
prima è esemplificata nel notissimo passo di “Per la critica dell’economia
politica”:
“a un dato punto del loro sviluppo,
le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i
rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (che ne sono
soltanto l’espressione giuridica) dentro i quali tali forze per l’innanzi s’erano
mosse. Questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze produttive, si
convertono in loro catene. E allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale. Con
il cambiamento della base economica si sconvolge più o meno rapidamente tutta
la gigantesca sovrastruttura”[2].
La
seconda si focalizza invece sull’azione e la lotta di classe. Questa concezione
è più presente nelle opere politiche che non in quelle economiche (le quali prediligono
una narrazione oggettivante e “scientifica”): la storia non è più il risultato
necessario di un naturawuchsig (processo naturale), ma l’esito di un’azione collettiva,
quindi anche di passioni, utopie e impulsi altruisti mescolati ad interessi
anche di parte. Un’esemplificazione si trova nella “Sacra famiglia”:
“La storia non fa niente,
essa ‘non possiede alcuna enorme ricchezza’, ‘non combatte nessuna lotta!’ E’
piuttosto l’uomo, l’uomo reale, vivente, che fa tutto, possiede e
combatte tutto; non è la ‘storia’ che si serve dell’uomo come mezzo per attuare
i propri fini, come se essa fosse una persona particolare; essa non è altro
che l’attività dell’uomo che persegue i propri fini”[3].
La
storia è, in altre parole, un processo di produzione di soggettività e le lotte
di classe non possono essere spiegate (né nella loro genesi, né, tantomeno,
negli esiti che normalmente prendono la propria via) solo tramite semplici
spiegazioni economiche o strutturali. Esse, piuttosto, manifestano l’irrompere
violento delle masse in una struttura non immutabile.
Come
correttamente scrive Traverso:
“tutte le rivoluzioni trascendono le
loro cause e seguono dinamiche singolari che cambiano il corso ‘naturale’ delle
cose. Sono invenzioni umane che non possiedono un carattere ineluttabile; costruiscono
una memoria collettiva che si districa dentro una costellazione di fatti significativi.
Pensare che appartengano al tempo regolare e cumulativo di una storia lineare è
stato uno dei maggiori fraintendimenti della cultura di sinistra del Novecento,
troppo spesso gravata dal retaggio dell’evoluzionismo e da una ingenua idea del
progresso”[4].
Tuttavia,
occorre fare attenzione, avere due concezioni del momento rivoluzionario, che
combattono una silenziosa battaglia ha il suo vantaggio: da una parte si evita
il rischio di uno scolastico determinismo, che induce alla passiva attesa, dall’altra,
però, si evita il rischio del volontarismo e spontaneismo, che induce all’azione
cieca. Bisogna sapere che le ‘fasi rivoluzionarie’ non possono essere scelte, e
dipendono dall’accumulo di circostanze, ma anche che esse possono restare
sterili se non sono attivate dall’azione collettiva politicamente orientata da
un progetto. Alcuni anni prima della Rivoluzione francese un’immane rivolta
scosse la Russia profonda, un enorme esercito di contadini, manovali e cosacchi
mosse verso Mosca. Emel'jan Ivanovič Pugačëv, un cosacco del Don, con
esperienze militari nella Guerra dei sette anni, si proclamò Zar, con il nome
di Pietro III, e costituì un suo esercito con gerarchia e forme identiche a
quello ufficiale. Durante una rivolta che durò iniziò nel 1773 conquistò quindi
quasi tutto il territorio tra il Volga e gli Urali, l’anno dopo fu sconfitto. Non
fu una rivoluzione, anzi consolidò il potere dello Zar, perché non aveva alcun
progetto e non mobilitava la maggior parte della società russa. Nelle aree che
ne furono colpite esistevano evidentemente alcune condizioni, ma queste non erano
mature e la direzione politica non era consapevole. Per una rivoluzione che
cambi lo stato delle cose sono necessarie entrambe.
La
trattazione prende avvio dalla nota frase di Marx in “Le lotte di classe in
Francia”, che vede le rivoluzioni come “le locomotive della storia”. Questa
fortunata metafora si connette, nel contesto in cui fu scritta, all’enorme
capacità evocativa del treno come simbolo di energia e progresso alla metà del
XIX secolo. L’autore de “Il Manifesto del Partito Comunista” condivideva
questo spirito enfatico; la triade del secolo ‘ferro-vapore-telegrafo’
struttura letteralmente il suo mondo mentale e la sua visione del mutamento
storico, e non potrebbe essere che così. Siamo tutti figli del nostro tempo. La
prima linea Manchester-Londra era stata inaugurata nel 1830, per 56 chilometri,
mentre la Napoli-Portici, prima linea italiana, nel 1839 per 7,5 chilometri. In
pochi anni di enorme accelerazione a metà del secolo le linee ferroviarie passarono
da 100 a 6.000 miglia e il traffico passeggeri esplose letteralmente. La nuova
fusione tra capitale agrario e nuova borghesia mostrò un tipo umano che, come
scrive un interprete, sembrava “una razza pervasa da una qualche energia
demoniaca”[5]. Negli Usa,
contemporaneamente, l’epopea della ferrovia determinò il destino della nazione.
Questo contesto è presente nei famosissimi passi del “Manifesto”, per il
quale la borghesia e l’industria moderna hanno creato il mercato mondiale il
quale ha dato, per sua parte:
“un immenso sviluppo al commercio, alla
navigazione, alle comunicazioni via terra. Quello sviluppo, a sua volta, ha
reagito all’espansione dell’industria; e in quella stessa misura in cui sono
andate estendendo l’industria, il commercio, la navigazione, le ferrovie, anche
la borghesia si è sviluppata, ha aumentato i suoi capitali e sospinto nel
retroscena tutte le classi, che erano un’eredità del medioevo”[6].
Infine
l’epoca della borghesia, si legge, “ha semplificato i contrasti tra le classi”,
avviando la separazione in due sole grandi classi in lotta. Un’epoca, bisogna
notare, che ha preso avvio a partire dai borghigiani medioevali, grazie alla
scoperta dell’America ed al mercato delle Indie orientali e della Cina, quindi
alla colonizzazione dell’America ed alla crescita nel XVI secolo degli scambi
con le colonie che diedero impulso ai commerci, infine alla crescita delle merci
ed all’industria. Tutte cose che “in pari tempo favorirono il rapido sviluppo
dell’elemento rivoluzionario in seno alla società feudale che si andava
sfasciando”. Seguendo la linea di ricostruzione determinista, qui Marx ed Engels
continuano affermando che fu in questa fase che “l’organizzazione feudale o
corporativa” della produzione di merci “non bastò più ai bisogni” che crescevano,
con l’acquisizione di nuovi mercati (anzi, il testo in modo molto significativo
dice “con il crescere” dei nuovi mercati, riproducendo nella scelta lessicale
un residuo naturalistico-determinista). In una frase immediatamente successiva
si manifesta in pieno lo spirito del tempo, letteralmente ipnotizzato dallo spettacolo
delle sempre più enormi fabbriche, e dalla cornucopia di prodotti che da esse
emerge:
“La grande industria ha creato quel
mercato mondiale che la scoperta dell’America aveva preparato. Il mercato
mondiale ha dato un immenso sviluppo al commercio, alla navigazione, alle
comunicazioni via terra. Quello sviluppo alla sua volta, ha reagito sull’espansione
dell’industria e in quella stessa misura in cui si sono andate estendendo l’industria,
il commercio, navigazione, le ferrovie, anche la borghesia si è sviluppata, ha
aumentato i suoi capitali e sospinto nel retroscena tutte le classi, che erano
un’eredità del medioevo”[7].
Malgrado
la descrizione sia correttamente circolare, l’incipit dà in questo brano l’impressione
che il primo motore sia l’industria e che il ‘mercato mondiale’ sia una pura
creazione di essa, il resto sia solo ‘preparazione’. Ma c’è un problema: la
scoperta dell’America precede di circa trecento anni la comparsa dell’industria
di massa in Inghilterra, e il mercato coloniale era indubbiamente mondiale, infine
il commercio si era già enormemente moltiplicato con la navigazione. Probabilmente
la descrizione più coerente con i fatti dovrebbe essere quindi rovesciata: è piuttosto
la creazione in punta di lancia del ‘mercato mondiale’ che, costringendo i
porti ad aprirsi e ad accettare le merci occidentali a caro prezzo, al contempo
vendendo le proprie a prezzo stabilito dall’acquirente, crea le condizioni di
accumulazione e di sbocco per ampliare la produzione. Se prima della produzione
è necessario avere chi la compra (almeno potenzialmente), garantendo la remunerazione
del capitale, allora è questa certezza ad aver fatto da motore. Non è la
superiore civilizzazione, la scienza, la tecnica, le ‘invenzioni’, ad aver
aperto al mondo occidentale il dominio, ma è la superiore organizzazione
militare, le armi sviluppate in cento guerre, ad averlo imposto.
L’idea
di progresso e di modernizzazione, malgrado siano presenti anche elementi
romantici nella complessa costituzione marxiana, trascina qui la concezione
della rivoluzione verso una connotazione fortemente teleologica. La locomotiva
corre su binari preesistenti, verso una direzione nota. Quindi la rivoluzione
non è altro che una corsa verso il progresso, anzi un’accelerazione[8]. È quello che Koselleck
chiama “un residuo inconscio e secolarizzato di aspirazioni escatologiche”[9]. Per essa Giustizia e
Redenzione non appartengono più alla sfera religiosa, all’oltremondo, ma, senza
attendere la morte, gli uomini devono lottare per conquistare il regno di Dio
sulla terra. Ma, e qui il Marx politico, questa auto-emancipazione umana non
cade dall’alto, essa deve essere fondata su un progetto di cambiamento sociale
e politico, deve essere generata da un’azione rivoluzionaria cosciente. Anche qui
c’è una tensione irrisolta tra un’apertura costruttivista (che spesso critica
nei ‘socialisti utopisti’) ed una sorta di determinismo proto-positivista ed
evoluzionista. Contribuisce a tenere insieme la posizione un’idea della
neutralità della tecnica che poté essere messa in dubbio solo dopo lo
spettacolo delle trincee della Grande guerra.
Il
primo attacco determinato venne da Rosa Luxemburg, che nel suo “L’accumulazione
del capitale”[10], dedicò due capitoli alla
distruzione delle economie rurali come conseguenza della industrializzazione in
Europa. I titoli di alcuni paragrafi siano di esempio: “la riproduzione del
capitale ed il suo ambiente” (pp. 341 e seg.), “la lotta contro l’economia
naturale” (pp. 363 e seg.), “la lotta contro l’economia contadina” (pp. 393 e
seg.) e soprattutto “il militarismo come campo di accumulazione del capitale”
(pp. 455 e seg.). Il ragionamento che Rosa affida a pagine composte
furiosamente tra settembre e dicembre del 1912 muove dalla rilettura critica del
II libro de “Il Capitale”, e dalla pratica dell’imperialismo che di lì a
pochissimo sfocerà nella guerra. Il problema nasce quando dalla “riproduzione semplice”[11] del capitale (ovvero la
capacità di rigenerarsi eguale a prima) si passa a voler spiegare la sua crescita
(l’aumento complessivo della massa di capitale in un sistema economico). La spiegazione
di Marx, per la quale nella “riproduzione allargata” i capitalisti risparmiano
qualcosa (non lo consumano), ma lo investono in nuovo capitale variabile e
costante (es. assumono più lavoratori e comprano macchine) per espandere la
produzione non soddisfa Luxemburg. Nell’ipotesi marxiana è questione di
proporzioni da rispettare. L’obiezione è che questo può accadere solo in
condizioni artificiali (ovvero in una completa pianificazione ex ante, che
conservi sempre l’equilibrio in ogni passaggio) ma non accade nella realtà
capitalista. Perché l’accumulazione può avvenire solo dopo che i
capitalisti hanno venduto le merci, ed il plusvalore è incorporato in esse ma
va realizzato. Quindi dove sono gli acquirenti? Chi potrà comprare la parte del
plusvalore che non è consumo, ma capitale fisso senza precipitare in crisi da
sovrapproduzione? La messa al lavoro di nuovi operai (e in generale
lavoratori), sia nel settore della produzione per il consumo sia in quella per i
fattori di produzione, potrebbe chiudere le equazioni, ma ogni capitalista (e
quindi il totale di essi) spende per produrre e riceve credito solo se ha una
richiesta, non lo fa per generarla.
In
altri termini, quale crescita che ecceda la lenta crescita naturale della
popolazione è possibile in un sistema capitalistico che produce per vendere e
per valorizzare il capitale e per nessuna altra ragione? Se si resta entro uno
schema che vede solo capitalisti ed operai non c’è soluzione, ma esiste anche
un ‘altro’, e questo sono i paesi ‘non capitalistici’ e strati ‘non
capitalistici’ della popolazione interna. Da qui può venire la domanda
aggiuntiva che rende necessaria la produzione e, di qui, l’ampliamento del
capitale. Si tratta di assorbire via via il “non capitalistico” che sta intorno
al nucleo dell’economia capitalistica (ad es. assorbire ed incorporare il
lavoro dei contadini di sussistenza cinese, o africani, quello delle donne, di
coloro che ancora lavorano secondo una logica ‘del dono’, etc.). ma il
capitalismo, mentre vive e si espande nel suo contorno ‘non-capitalistico’ allo
stesso momento lo distrugge. Di qui nasce anche una lotta spietata tra i paesi ‘capitalisti’
(ovvero tra i loro capitali, in effetti) per assicurarsi il controllo esclusivo
dei ‘bacini’ non-capitalistici che rappresentano il loro potenziale di
crescita. Se non fosse così si sarebbe davanti ad una “giostra che gira su se
stessa nel vuoto”[12]; si avrebbe produzione di
merci per amore della produzione, che giro dopo giro restituisce il medesimo, “dal
punto di vista del capitale un assurdo completo”. Solo se si trovano acquirenti
i cui denari non sono presi dai capitalisti medesimi questi alla fine del giro
di giostra si troveranno più denaro in tasca.
“Gira e rigira, finché si rimane
fissi all’ipotesi che nella società non esistano strati al di fuori dei
capitalisti e dei lavoratori, riesce impossibile ai capitalisti come classe di
smaltire le loro merci eccedenti per trasformare il plusvalore in denaro e così
accumulare capitale.
[…] fin dall’inizio si svolse fra la
produzione capitalistica e il suo ambiente non-capitalistico un rapporto di
scambio, in cui il capitale trovò la possibilità sia di realizzare il proprio
plusvalore ai fini di una ulteriore capitalizzazione in denaro, sia di
rifornirsi di tutte le merci necessarie per l’allargamento della sua
produzione, sia infine di assorbire nuove forze-lavoro proletarizzate mediante
la decomposizione violente di forme di produzione non-capitalistiche.
Ma questo non è che il nudo
contenuto economico del rapporto. Il suo manifestarsi concreto nella realtà
costituisce il processo storico dello sviluppo del capitalismo sull’arena
mondiale in tutto il suo variopinto e mobile atteggiarsi”[13].
Quindi,
contrariamente alla visione lineare (rovesciata) del Marx ed Engels del “Manifesto”,
il “primo atto di nascita storico-mondiale del capitalismo” è, nei paesi
transoceanici, il “soggiogamento e la distruzione delle comunità tradizionali”,
l’erosione dei rapporti primitivi dell’economia naturale serve a trasformare
gli abitanti in acquirenti (e non già questo in quello), e “nello stesso tempo
accelera la propria accumulazione appropriandosi direttamente di masse di
materie prime e di ricchezze tesaurizzate dai popoli soggetti”.
Tuttavia,
malgrado i suoi notevoli meriti, anche la teoria di Rosa Luxemburg resta in
qualche modo connessa con il mito della rivoluzione al termine del pieno
sviluppo delle forze produttive.
Se,
infatti,
“L’imperialismo è l’espressione
politica del processo di accumulazione del capitale nella sua lotta di
concorrenza intorno ai residui di ambienti non-capitalistici non ancora posti
sotto sequestro. […] con quanta maggiore energia, potenza d’urto e
sistematicità l’imperialismo opera all’erosione delle civiltà
non-capitalistiche, tanto più rapidamente toglie il terreno sotto i piedi all’accumulazione
del capitale. L’imperialismo è tanto un metodo storico per prolungare l’esistenza
del capitale, quanto il più sicuro mezzo per affrettarne obiettivamente la fine”[14].
Questa
fiducia in ultima analisi nell’accelerazione dello sviluppo tecnico e
macchinico, dell’insieme di fenomeni produttivi e di accumulazione, che Rosa
chiama “imperialismo”, viene messa radicalmente in questione da Walter Benjamin.
Il quale, per Traverso, propone un materialismo storico radicalmente
antipositivista che prescinde completamente dalla idea di “progresso”. Famosa e
richiamata la sua fulminante formula:
“Marx dice che le rivoluzioni sono
la locomotiva della storia universale. Ma forse le cose stanno in modo del
tutto diverso. Forse le rivoluzioni sono il ricorso al freno di emergenza da
parte del genere umano in viaggio su questo treno”[15].
Insomma,
la rivoluzione non è la spinta ad accelerare il treno in corsa verso un futuro
dato, ma è il tentativo, fallibile e solo possibile, di interrompere un
movimento che sta dispiegando una logica interna la quale porta alla catastrofe
(oggi, nell’era nucleare e della crisi ambientale, possiamo immaginarne alcune
forme), e quindi di dare avvio ad un nuovo tempo.
Rivoluzione
e libertà
Si
può dire che né il tempo né tanto meno la forma delle rivoluzioni possono
essere previste e queste sono anche degli atti autoritari. La rivoluzione
sostituisce al “luogo vuoto” del corpo sovrano democratico, nel quale “il
popolo” compare solo come etichetta e la relativa sovranità come ossimoro, un
momento straordinario in cui questo si presenta davanti alla scena come corpo
pieno e concreto. Corpo in rivolta, ovviamente. In cui, in altre parole,
il concetto aporetico di “popolo” e del suo corpo sovrano si fa presenza nei
luoghi pubblici concreti per un attimo, che cambia la direzione della storia, smettendo
di essere solo metafora irrapresentabile. La moltitudine di corpi che trovano,
per breve tempo, unità nell’azione rivoluzionaria esiste, in altri termini,
solo fino a che combatte, ma esistendo se pure per poco cambia la direzione di
tutto. Ne è efficace rappresentazione “Ottobre” di Ejzenstein nel 1927[16]. Al contempo se esiste è perché
sta costituendo un potere, non appena questo compare esso torna corpi
disciplinati. Questa dialettica non è aggirabile e rappresenta la grandezza e
la tragedia di ogni rivoluzione.
Ad
esempio, nella tragica e grande vicenda della rivoluzione haitiana, che segue
alla Rivoluzione francese venendone sia stimolata come combattuta, l’immane
energia scaturita dalle contraddizioni dell’ordine coloniale bianco e dall’emancipazione
parziale decretata nel 1791, è sia mobilitata sia temuta e controllata a fatica
dalle élite rivoluzionarie che via via si affermano. Partita da una
insurrezione di schiavi a Nord di Saint-Domingue il 21 agosto 1791 e
intrecciata con la rivolta dei liberi di colore, produce prima l’emersione di
Touissant Loeverture e poi, in eventi che si susseguono frenetici, invasioni
(francesi, inglesi, spagnole), lotte intestine tra signori della guerra,
tradimenti, momenti di consolidamento, tentativi di ‘rimettere al lavoro’ le
piantagioni; quindi segue una violentissima guerra di indipendenza che è anche
la prima sconfitta di Napoleone tra il 1802 ed il 1806, progetti di genocidio
francesi e sanguinose repliche dei leader rivoluzionari neri; infine la prima Dichiarazione
di indipendenza che preveda l’assoluta emancipazione, la successiva separazione
in stati ostili e la finale trasformazione in una società contadina per gran
parte di sussistenza e con forme di autogoverno distribuite (i lakous[17]), un Codice Rurale avanzato
e una piccola classe media di commercianti[18].
Traverso
ricorda in proposito la vicenda della liberazione della donna e dei rapporti
tra i sessi nella prima fase della Rivoluzione Russa, quando nel Codice di
Famiglia del 1918 viene promossa la libertà illimitata delle donne e la loro
indipendenza assoluta. Nel 1919 la famiglia è anzi vista come un ‘fardello’ e
una forma di ‘servitù della gleba’ (delle donne) e vengono promosse politiche
volte all’educazione collettiva dei bambini e la socializzazione dei lavori
domestici. Ancora nel 1981 Angela Davis, in “Donne, razza e classe”, lo
vede come un modello. Nella visione bolscevica la liberazione della donna non
può essere separata dalla lotta per l’affermazione del socialismo. Ma quando l’onda
rivoluzionaria declinerà, e bisognerà ricreare un ordine per stabilizzare uno
Stato sotto pressione esterna, avverrà un “termidoro sessuale”, e negli anni Trenta
verrà ripristinata la priorità della famiglia e anche lo status di reato di
aborto ed omosessualità. Autrici come Aleksandra Kollontaj[19] verranno emarginate (ma
in quel caso non punite). Al contempo i corpi saranno rimessi al lavoro, il
taylorismo ricomparirà in una forma ancora più autoritaria, seguendo un’idea ‘rivoluzionaria’
di autocostrizione, fondata su un ‘uomo nuovo’.
Se
è vero che né il tempo, né la forma delle rivoluzioni può essere prevista, anzi
che essa prende sempre di sorpresa è pure da considerare che esse sono, al loro
sorgere, espressione assoluta democratica. In esse i corpi delle moltitudini
emergono infatti in primo piano, superano e travolgono le forme costituite di
rappresentanza (le quali normalmente li neutralizzano come ‘corpo sovrano’,
proprio mentre gli danno una forma ordinata), e prendono nelle proprie dirette
mani il potere costituente. Ma questo potere, nato necessariamente dalla
violenza, perché affermatosi contro una resistenza della vecchia oppressione
(la quale ha accumulato nel tempo l’energia che l’abbatte), è al contempo
repressivo. Al contempo significa proprio allo stesso tempo. In alternativa
la rivoluzione si consuma in una jacquerie (ovvero, solo in una jacquerie).
La forza destituente deve mutarsi in una forma di sovranità perché il ciclo
della rivoluzione si compia. Come dice l’autore, “la tradizione rivoluzionaria
è la contraddizione insolubile tra un momento estatico di autoliberazione e la
sua inevitabile trasformazione in azione organizzata”[20].
Qui
le cose si complicano, se per Robespierre “la rivoluzione è la guerra della
libertà contro i suoi nemici”, e per De Maistre “la libertà è l’azione di
essere liberi sotto il comando divino. Liberamente schiavi”[21], mentre persino Mussolini
rivendica per il fascismo di essere per la libertà (dello Stato), senza “inutili
ciancie”, quale è quella della rivoluzione? È questione di chi la guarda.
La libertà dei possidenti, quella difesa dal liberalismo di Locke e da tutta la
sua tradizione, è ben altra cosa di quella degli schiavi, di chi non ha nulla e
dei colonizzati. Quindi la tensione che informa la rivoluzione è quella tra la libertà
data e la liberazione dalle catene. Catene che possono essere anche
invisibili, come Marcuse ne “L’uomo a una dimensione”[22] propone di considerare lo
stesso “principio del piacere”. Oppure che devono essere conquistate con
pratiche continue, e senza mai successo, di resistenza ad un potere ubiquo e
costitutivo degli stessi soggetti, come vorrebbe Foucault. La rimozione del momento
della liberazione, in favore di quello della ‘libertà’ (o la sua dissoluzione
in un gioco di specchi e rimandi), è proprio di un’avversaria manifesta della ‘rivoluzione’
come Hannah Arendt che in “Sulla rivoluzione”[23] esalta la ‘rivoluzione’
americana, svalutando quella francese, e mostra sovrana indifferenza per quelle
anticoloniali. Come lo riassume l’autore, per lei “la libertà non significa l’emancipazione
dall’oppressione economica o sociale; significa un insieme di cittadini liberi
fluttuanti in un vuoto sociale”[24].
Infine,
la libertà, o meglio la liberazione, può essere il “balzo di tigre” di
Benjamin, alieno da ogni causalità determinista e dall’ideologia del progresso.
Un balzo pieno di rischi, ma anche di avvenire, che certamente viene visto in
modo ben diverso se si è tra gli eterni vincitori o tra i tanti vinti.
Rivoluzione
e rivoluzionari
Protagonisti
di queste eruzioni della storia, o loro preparatori, sono un tipo particolare di
declasseé, animatori di una bohémienne quelli che chiama l’”intellettuale
rivoluzionario”. Ovvero coloro che non solo hanno prodotto, o difeso, teorie
nuove, critiche e sovversive, ma hanno anche scelto una condotta di vita e un
impegno politico che miravano a metterle in pratica. Ne fanno parte Bakunin,
Marx e Luxemburg, non figure come Adorno (che non era rivoluzionario) o
Garibaldi (che non era intellettuale). Benjamin si trova a metà strada, un pensatore
radicale senza una dimora politica e con pochi legami accademici.
Questa
figura ha delle date di inizio e fine, sono il 1848 ed il 1945. Dopo l’ultima
data molti trovano un confortevole rifugio nell’università e si trasformano;
prima essa non era ricettiva, essendo il luogo piuttosto della reazione, e
dunque gli intellettuali che non volevano parteciparvi erano costretti a stare
in uno scomodo stato di marginalità (anche economica), che, però, facilitava lo
sviluppo di pensieri radicali. Ma c’è dell’altro:
“Gli intellettuali rivoluzionari erano
attori cosmopoliti in un’epoca di acceso nazionalismo. Il loro rapporto con il
potere economico e politico era paragonabile a quello della Bohème e dell’avanguardia
estetica con l’accademismo e le sue istituzioni, era un rapporto radicalmente
conflittuale”[25].
In
un certo senso i due idealtipi sono Gramsci e Keynes, il primo concentrato su come
far cadere l’ordine dello stato borghese, il secondo su come stabilizzarlo
(avendo piena consapevolezza del rischio che correva). Il primo un intellettuale
marginale, il secondo un autorevole e prestigioso professore universitario e
consulente del Governo.
Nei
diversi contesti nazionali in Francia i ‘rivoluzionari’ si mobilitano intorno
all’Affaire Dreyfus e sulla base di un forte spirito cosmopolita, in Germania
sono contro la Repubblica di Weimar, in Russia sono una confraternita che viene
dall’aristocrazia (Bakunin, Hertzen, Kropotkin) o dalla classe media (Zasulic,
il fratello di Lenin). Tutti quanti sono comunque quasi sempre un gruppo di “declassati”,
bohemienne e marginali. Si tratta di un contesto al quale già con Marx (che,
tuttavia personalmente era indubbiamente un declassato marginale) e con Engels,
e di qui con il marxismo che si istituzionalizza, si guarda con sospetto: “tutta
la massa confusa, decomposta, fluttuante, che i francesi chiamano ‘la bohème’”[26].
Nel
“Manifesto” è presente questa analisi:
“Infine, nei periodi in cui la lotta
di classe si avvicina al momento decisivo, il processo di dissolvimento in
senso alla classe dominante, in seno a tutta la vecchia società, assume un
carattere così violento, così aspro, che una piccola parte della classe
dominante si stacca da essa per unirsi alla classe rivoluzionaria, a quella classe
che ha l’avvenire nelle sue mani. Perciò, come già un tempo una parte della
nobiltà passò alla borghesia, così ora una parte della borghesia passa al
proletariato, e segnatamente una parte degli ideologi borghesi che sono giunti
a comprendere teoricamente il movimento storico nel suo insieme”[27].
Questa
visione è in qualche modo confermata sia da Kautsky sia da Lenin, che in questo
sono in accordo. Se il socialismo è riorganizzazione della vita umana secondo
principi di progresso economico, tecnico e scientifico, allora solo gli
intellettuali borghesi (come li chiama Kautsky) possono “importare dall’esterno”
la lotta di classe al proletariato. Questa non è affatto “qualcosa che sorge
spontaneamente” nel proletariato, scrive nel 1901. Lenin lo riprende nel più
famoso “Che fare?”[28], quando afferma che con
le sue sole forze la classe operaia non può mettere in questione l’intera
struttura dei rapporti sociali. Nel paragrafo “Inizio dell’ascesa del
movimento spontaneo”, Lenin introduce una importante distinzione: quella
tra “disperazione” e “lotta [di classe]”. Ne abbiamo fatto cenno con la tragica
vicenda di Pugačëv, il problema per Lenin è se, con riferimento specifico alle
sollevazioni del 1896 si possa parlare di spontaneità e in che termini, e se
sia sufficiente la forma embrionale della coscienza che queste
manifestavano. Quindi se sentire la “necessità di una resistenza collettiva” e
l’interruzione della “sottomissione servile all’autorità” sia una
manifestazione di sola “disperazione e di vendetta”, o sia invece già una “lotta”[29]. La risposta è che quando
gli scioperi cominciano a mostrare “bagliori di coscienza” più numerosi, e si
pongono quindi rivendicazioni precise, si programmano in funzione del momento
più favorevole, si discutono e confrontano altre esperienze, … allora essi “rappresentano
già degli embrioni – ma soltanto degli embrioni – di lotta di classe”. Sono tuttavia
solo embrioni perché:
“presi in sé, questi scioperi costituivano
una lotta tradunionista, ma non ancora socialdemocratica; annunciavano il
risveglio dell’antagonismo fra operai e padroni; ma gli operai non avevano e
non potevano ancora avere la coscienza dell’irriducibile antagonismo fra i loro
interessi e tutto l’ordinamento politico e sociale contemporaneo, cioè la
coscienza socialdemocratica”[30].
E
gli operai questa coscienza che supera lo stato delle cose presenti non
potevano averla perché “essa poteva essere loro apportata soltanto dall’esterno.
La storia di tutti i paesi attesta che la classe operaia con le sue sole forze
è in grado di elaborare soltanto una coscienza tradunionista”. Infatti “la
dottrina del socialismo è sorta da quelle teorie filosofiche, storiche,
economiche che furono elaborate dai rappresentanti colti delle classi
possidenti, gli intellettuali”. Di seguito, nel criticare quello che chiama “spontaneismo”
ed “economicismo”, Lenin cita Kautsky nel progetto di un programma del partito
socialdemocratico austriaco.
Rivoluzioni,
l’ottobre e le altre
Inquadrata
questa importante questione il testo di Traverso prosegue con un’interessante
serie di “mappe” e ritratti. Le prime sono due: l’occidente ed il mondo
coloniale.
L’occidente
ha
come tratto distintivo della personalità rivoluzionaria, per lo più costituita
da intellettuali declassati (come ricorda anche Michels, il quale entrando all’Università
si sposta su posizioni reazionarie) che negano il proprio status, il
cosmopolitismo. Le figure esemplari raccontate sono gli ‘ebrei non ebrei’ come
Korsch, la componente vicina alle posizioni comuniste della Scuola di Francoforte
prima della guida di Horkheimer (Pollock, Marcuse, Grossman) o le femministe
radicali come Claude Cahun, Clara Zetkin, ed altre.
Il
mondo coloniale vede invece figure come Nath Roy in India
e Ho Chi Min, in America Latina Mariategui e il suo “indigenismo rivoluzionario”,
James ed i suoi “Giacobini neri”[31]. Si distingue tra “cosmopoliti
radicati” (i più efficaci, spesso ascesi al potere) come Ho Chi Min, i “rivoluzionari
tellurici” (ovvero non cosmopoliti e strettamente radicati nella terra) come
Stalin e Mao Tze Tung, e gli “internazionalisti sradicati” come Guevara.
Poi
ci sono quelli che comunisti non sono ma che fanno la strada insieme (almeno
per un tratto), i più famosi, Brecht, Webb, Esenin, Maritain. Si tratta di
intellettuali che nella fase di scontro diretto e spietato tra fascismo e
comunismo scelgono di essere contro il primo. E ci sono quelli che per
disciplina alla lotta si adeguano, come Lukacs. Poi ci sono i processi di
Mosca, che segnano molte biografie.
Il
comunismo è stato inserito profondamente nel percorso rivoluzionario che parte
dalle “rivoluzioni atlantiche”, tra il 1776 (americana) e il 1804 (Haiti)
passando per il 1789 (francese), e che poi passa la metà del secolo successivo
in un’ondata internazionale che vede i moti europei del 1848, la rivolta di
Taiping in Cina nel 1850, la ribellione indiana del 1857 e, forse, la guerra
civile americana del 1861, infine si allarga un cinquantennio dopo alle
rivoluzioni euroasiatiche della Russia (1905-17), in Iran nl 1905-11, dei
Giovani Turchi nel 1908, il movimento di Sun Yat-Set in Cina nel 1911 con la
catena di eventi che porta alla Guerra di Liberazione e alla vittoria del PCC
nel 1949, la Rivoluzione Messicana nel 1910-17. Alla fine, nel Novecento ci sono
state essenzialmente rivoluzioni comuniste in Occidente (di successo in Russia
o fallite in Italia, Germania, Spagna) e rivoluzioni anticoloniali nel Sud del
mondo. Fu un’epoca di grandi speranze nelle quali le ideologie egualitarie e
rivolte contro i privilegi furono concreta opportunità per i marginali e
disperati del mondo. Grandi nomi come Brisset, Danton, Robespierre, Touissant
Loeverture, Mazzini, Garibaldi, Pancho Villa, Zapata, Mao Tze Tung, Zhu De,
Zhou Enlai, Fidel Castro, Ernesto ‘Che’ Guevara, Kwame Nkrumah, Patrice
Lumumba, Thomas Sankara, e, i più noti, Lenin, Trockji, Stalin, Bucharin, per
dirne alcuni, non sarebbero stati possibili nel loro bene e male senza questa
speranza e questa passione.
Li
ricorderò attraverso le ultime parole di Danton, davanti al Tribunale
rivoluzionario che egli stesso, quando era al potere aveva istituito:
“Non ci sarebbe stata alcuna Rivoluzione senza di me, non ci sarebbe
Una
cosa importante da tenere presente è che nessuna di queste rivoluzioni, almeno
se di successo, rispettò la previsione di Marx ed Engels presente nel “Il
manifesto del Partito Comunista”: l’assoluto protagonismo del proletariato.
In tutte la vittoria venne solo quando le forze della maggioranza della
società, coalizzando più classi e coinvolgendo più interessi, si mossero
insieme. Ma, soprattutto, non lo rispettarono perché tutte avvennero in paesi
che secondo lo standard di filosofia della storia marxista erano ‘arretrati’.
Al più in via di trasformarsi in paesi borghesi e capitalisti, come la Russia
nel 1905-17. In tutti i paesi avanzati, quelli nei quali poderose linee
fortificate e società densamente stratificate (ben lontane dalla immaginata
frattura in due classi di Marx) impedivano la mobilitazione, la rivoluzione socialista
fallì. Nei paesi vittimizzati e colonizzati, invece, una potente molla di
liberazione, concreta e visibile, si attivò e gli strati intellettuali fatti da
“cosmopoliti radicati” come Ho Chi Min, o da “rivoluzionari tellurici” come Mao
riuscirono a trovare una relazione efficace. Essi intersecarono con successo un’ideologia
comunista rivista allo scopo e una base sociale contadina, ancorata alla
concreta forma sociale del paese. Perché avvenne in paesi simili? Trockji in “Storia
della Rivoluzione russa”[32] tenta una spiegazione:
“Lo sviluppo di un paese
storicamente arretrato porta necessariamente a una combinazione originale delle
diverse fasi del processo storico [nel mentre assimila le conquiste materiali e
intellettuali dei paesi avanzati]. L’orbita acquista, nel suo insieme, un
carattere irregolare, complesso, combinato.
[…] la legge razionale della storia
non ha nulla a che vedere con schemi pedanteschi [come gli stadi di Vico]. L’ineguaglianza
di sviluppo, che è la legge più generale del processo storico, si manifesta con
maggiore vigore e complessità nelle sorti dei paesi arretrati. Sotto la sferza
delle necessità esterne, la loro cultura in ritardo è costretta ad avanzare a
salti. Da questa legge universale dell’ineguaglianza deriva un’altra legge che,
in mancanza di una denominazione più appropriata, può essere definita ‘legge
dello sviluppo combinato’ e vuole indicare l’accostarsi di diverse fasi, il
combinarsi di forme arcaiche con le forme più moderne. Senza questa legge,
considerata, beninteso, in tutto il suo contenuto materiale, è impossibile
comprendere la storia della Russia, come, in generale, di tutti i paesi
chiamati alla civiltà in seconda, terza o dodicesima fila”[33].
Al
netto degli elementi ancora eurocentrici di questa rappresentazione (ad esempio,
‘la civiltà’ al singolare), ciò che Trockji vuol dire è abbastanza semplice e
concreto: messa in contatto con una società dotata di più mezzi e capitali la
società e la cultura russa assorbì in modo ineguale spinte che si combinarono
in modo complesso. La Russia era, in quegli anni di inizio secolo, destinataria
infatti di enormi flussi di capitale speculativo, la sua industria si sviluppò
per effetto di questi investimenti esteri ed era strettamente connessa ad un
settore finanziario la cui base non era nazionale. Le masse popolari restarono quindi
sconnesse da questi flussi e ne subirono solo gli effetti negativi (ad esempio
la tendenza inflattiva che derivava dalla massa di denaro che passava sopra le
loro teste). Le classi possidenti restarono sempre più dipendenti dallo Stato,
che mediava i flussi dall’estero, e questo rafforzò il dispotismo ereditato
dalla tradizione bizantina. L’assenza storica di un artigianato urbano,
incorporato molecolarmente nelle vastissime campagne, rendeva inoltre le città
centri di consumo e di direzione e non di produzione. Il commercio quindi aveva
un carattere “semicoloniale”, mediando in sostanza con l’esterno occidentale. La
grande rivolta di Pugačëv, che precedette di quindici anni la Rivoluzione
francese, non diventò un evento rivoluzionario pur coinvolgendo in massa i
cosacchi, contadini e operai-servi degli Urali, perché:
“mancando una democrazia industriale
cittadina, la guerra contadina non poteva svilupparsi in rivoluzione, come le
sette religiose delle campagne non avevano potuto giungere ad una Riforma. Il
risultato della rivolta di Pugačëv fu, al contrario, un consolidamento dell’assolutismo
burocratico, difensore degli interessi della nobiltà, che aveva provato quanto
tale protezione valesse nell’ora del pericolo”[34].
L’industria,
infine, nella quale la legge dello sviluppo combinato si manifestava in modo
più evidente, nata in ritardo si inserì nel sistema mondiale, ma, saltando
tutte le fasi, raddoppiò nei pochi anni tra la rivoluzione del 1905 e la Grande
guerra. Trockji spiega ciò con l’enorme squilibrio tra il reddito di un’agricoltura
che impiegava i quattro quinti della popolazione in forme da XVII secolo e una
industria che aveva assorbito le tecniche più avanzate ed i relativi capitali. Quasi
metà delle industrie russe erano enormi conglomerati con oltre mille operai
(mentre negli Usa erano meno del 20%). Questo è quello che chiama “l’elemento
dialettico complementare” dell’arretratezza. Chiaramente questa industria era relativamente
sconnessa da un reale tessuto industriale locale (le aziende con meno di 100
operai erano solo il 17%, contro il 35% negli Usa), ma era per ben oltre la
metà posseduta dalla rete di banche e intermediarie straniere. La borghesia del
paese ne derivava; non esisteva nessuna gerarchia intermedia tra le enormi
masse popolari e l’esile strato dei tecnici, talvolta stranieri o comunque loro
dipendenti. Come dice lui stesso: “queste furono le cause elementari e
irriducibili dell’isolamento politico della borghesia russa e del suo atteggiamento
contrario agli interessi popolari”. Viceversa, la connessione esistente tra il
crescente proletariato industriale e il mondo contadino, in assenza di
tradizioni di artigianato corporativo che avevano fatto nell’Europa del XIX
secolo la base delle mobilitazioni, ma poi le avevano dirette verso esiti
tradunionisti (quello che Trockji chiama “il fardello del passato”), aveva
fatto sì che procedesse:
“a salti, con bruschi mutamenti di condizioni,
di legami, di rapporti e con violente rotture rispetto a quanto esisteva alla
vigilia. Appunto per questo – soprattutto nelle condizioni di oppressione
concentrata proprie dello zarismo – gli operai russi divennero accessibili alle
più audaci conclusioni del pensiero rivoluzionario, come l’industria russa era
stata capace di intendere l’ultima parola in fatto di organizzazione
capitalistica”[35].
Con
queste premesse, la Rivoluzione di ottobre è il fenomeno centrale del XX secolo.
Il focus di una serie di rivoluzioni “ibride” i cui contraccolpi, come onde in
uno stagno, si propagarono ovunque. Da alcuni fu vista come l’annuncio di una
sorta di palingenesi globale, da altri come l’avvio di un’epoca di
totalitarismo. In questa direzione si trova la descrizione di Churchill di
un branco di babbuini che saltellano in un campo di scheletri o di Orwell, all’epoca
trockista e collaboratore dei servizi[36], autore de “La
fattoria degli animali”[37] e “1984”[38] (che inserisce il suo
eroe in entrambi i romanzi). Nelle versioni più sofisticate i bolscevichi furono
letti sostanzialmente come espressione delle potenzialità totalitarie della
modernità. Autori come Berlin e Popper vedevano infatti la rivoluzione come l’esito
inevitabile della trasformazione della società secondo modelli astratti e
quindi autoritari. Oppure grandi storici come Furet individuavano una traiettoria
diretta dal terrore giacobino ai gulag sovietici.
C’è
però qualcosa in comune nelle due posizioni: il Partito Bolscevico veniva letto
da entrambi come il demiurgo della storia. La proposta di Traverso è quindi di “storicizzare”
questa vicenda. Ovvero comprendere criticamente, senza demonizzazioni o
esaltazioni idilliache, un’esperienza storica che, come tutte, è attraversata
da tensioni e contraddizioni. Una ‘gigantesca avventura’ non priva di momenti
mostruosi, ma anche gloriosi. Come esiste un nesso, e grandi discontinuità, tra
la Rivoluzione francese e l’epoca napoleonica che la estende e conclude, così si
può rintracciare un percorso non lineare, fratturato, pieno di biforcazioni e
non necessario (solo a posteriori raccontabile come unica vicenda), che unisce
la fase caotica ed entusiasmante dei primi anni della grande Rivoluzione russa con
la riduzione e normalizzazione burocratica degli anni Trenta. In essa un movimento
che univa nell’azione il giovane proletariato urbano e gli strati più consapevoli
delle masse contadine a intellettuali ‘declasseè’ cosmopoliti si è trasformato,
sotto la pressione immane della Guerra civile e del successivo ostracismo
mondiale, ma anche sotto la dinamica propria della società russa e delle sue
nuove élite (e la necessità di rimettere al lavoro il paese, rigenerando ceti
intermedi tecnici di cui la Russia era stata sempre carente), in un enorme
apparato che creava una nuova connessione con la base produttiva ed ha avuto
una sua vitalità per decenni.
Carlo
Formenti, in un post che rilegge l’opera di Rita di Leo[39], connette la
trasformazione della Russia rivoluzionaria, dalla fase eroica alla prima
stabilizzazione progetta da Lenin nella Nep (Nuova Politica Economica, dal 1918
al 1924) e poi nella soluzione imposta alla sua morte, alla necessità di
gestire un paese nel quale la gerarchia sociale è stata bruscamente rovesciata.
Analogamente a quanto accade in una rivoluzione settecentesca decisiva come
quella di Haiti, la struttura industriale che fa la ricchezza del paese rischia
di fermarsi, con conseguenze tragiche data la pressione esterna, e bisogna
assolutamente “rimettersi al lavoro”. Come scrive Formenti:
“In base a questa visione gli
operai, in contrasto con la loro aspirazione a lavorare il meno possibile, avrebbero dovuto rientrare nelle fabbriche – che molti avevano
abbandonato - per rimetterle in funzione, mentre i tecnici, messi fra parentesi
i principi dell’egualitarismo, avrebbero dovuto essere invogliati a continuare a svolgere il proprio ruolo, concedendo loro salari
elevati. Ai funzionari di partito sarebbe spettato il compito di controllare
tanto i primi che i secondi. Infine, ai contadini si sarebbe dovuto concedere
di vendere al mercato il sovrappiù prodotto”[40].
Alla
morte di Lenin, vinta l’opposizione di sinistra di Trockji, Stalin e il suo
gruppo dirigente scelsero di accelerare e di saltare la fase ‘capitalista’ (l’esatto
opposto della scelta, qualche decennio dopo, di Deng) e di confermare la
centralità operaia. Come riassume Formenti: “il suo obiettivo primario è
costruire nel più breve tempo possibile una nuova élite di estrazione
proletaria, perché possa sostituire i vecchi quadri intellettuali, non solo
quelli appartenenti al regime prerivoluzionario, ma anche gli stessi dirigenti
storici del partito bolscevico”. Qui bisogna notare che tra i
bolscevichi della vecchia guardia Stalin è l’unico a non avere un’estrazione
borghese e sospetta degli “uomini dei libri”; secondo la sua visione ora non bisogna
più discettare di teoria ma costruire un paese potente e sviluppare le forze
produttive (e l’esercito). La violenza verso i kulaki (i contadini ricchi) e
gli intellettuali mandati ai campi di lavoro, e quella, tragica, verso la
vecchia guardia hanno questa ragione. Ma da questa impostazione derivano anche
la tendenza a resistere al lavoro e nasconderlo sotto rapporti di pianificazione
sempre più complessi (e falsi) e la deviazione di troppe risorse verso l’industrializzazione
forzata (ovvero lontano dal consumo). In altre parole, in questa linea di
sviluppo sono contenuti anche i semi della stagnazione successiva.
Le
cose potevano e possono sempre andare in altre direzioni, ma se vanno in una
non è mai per caso. Se la rivoluzione è una rottura nel continuum, perché
sposta bruscamente rapporti di forza e fa emergere nuovi protagonisti, che apre
orizzonti e futuro, essa è anche un processo. Ed è a sua volta inserita in processi.
Come tutte le rivoluzioni anche quella Russa, che segue alla rottura
determinata dalla Guerra, è espressione di una sostanziale mutazione rispetto
al modello della rivoluzione ottocentesco; essa impone un modello militare che
viene confermato dalle rivoluzioni ‘anticoloniali’ cinese, cubana, vietnamita. Il
movimento è da ora concepito anche come esercito di milioni di combattenti, con
il loro portato di organizzazione e di necessario autoritarismo. Organizzazione
e autoritarismo necessari, perché, come ricorda opportunamente Traverso,
“resta il fatto che un’alternativa
di sinistra credibile non apparve mai all’orizzonte. Come lo stesso Serge
riconobbe con lucidità, l’alternativa più probabile al bolscevismo era il
terrore controrivoluzionario. Come scrive senza giri di parole Alexander
Rabinowitch, il terrore era ‘il prezzo della sopravvivenza’. […] Se l’esito
finale fu una dittatura di un partito rivoluzionario, l’alternativa non era un
regime democratico; la sola alternativa era una dittatura militare di
nazionalisti russi, latifondisti aristocratici e pogromisti”[41].
Con
la repressione della rivolta di Kronstadt emerse quindi la dittatura di un
partito unico e con la collettivizzazione delle campagne anche la rivoluzione
in esse ebbe termine, sostituendola con un, per molti versi necessario, ma non
per questo meno doloroso, processo di modernizzazione forzata e burocratizzata.
Ma se avvenne qui un distacco radicale da qualsiasi idea di autoemancipazione e
democrazia non fu per questo una controrivoluzione; non fu ripristinato il
regime precedente da nessun punto di vista, quel che creò era originale: un
insieme di valori, un’identità sociale e uno stile di vita.
“Lungi dal ripristinare il potere
della vecchia aristocrazia, lo stalinismo creò un’élite economica, manageriale,
scientifica e intellettuale completamente nuova, reclutata in seno alle classi
inferiori della società sovietica – inclusi i contadini – e educata da nuove
istituzioni comuniste. Questa è la chiave per spiegare il consenso sociale di
cui godette lo stalinismo, malgrado il terrore e le deportazioni di massa”[42].
Questo
nella Russia che guarda ad occidente (come facevano i suoi maggiori
protagonisti), ma le rivoluzioni novecentesche furono soprattutto ad oriente e
nel sud del mondo, tra i popoli vittimizzati dall’occidente e colonizzati (dove
liberazione sociale si univa necessariamente al nazionalismo). E qui il primo
esempio è la Cina, dove Mao già nel 1927 scelse di designare i contadini come
forza motrice della rivoluzione. Ciò diede al vasto movimento che passò per la “lunga
marcia” e la guerra con il Giappone il suo peculiare carattere. Analogamente ‘eretico’
fu parte importante del movimento in America Latina, sia nel caso cubano sia in
figure come José Carlos Mariategui per il quale il socialismo doveva
connettersi e fondersi con le tradizioni comunitarie del “comunismo incaico”.
Rivoluzione
e sinistra
Quel
che si registra, dopo il 1989 (ma in realtà questa data è solo il suggello), è
un radicale abbandono del campo delle rivoluzioni da parte della sinistra. Fa parte
di tale rimozione e interdetto la condanna della violenza che, come dice l’autore,
è “iscritta nel codice genetico e appartiene alla struttura ontologica” della
rivoluzione. Di qui la condanna senza appello degli studiosi liberali e
conservatori che la vedono piuttosto come esito di un’ideologia o prescrizione
politica. Quindi come il prodotto del fanatismo ideologico o della volontà
totalitaria, che provocano eccesso, frenesia e fanatismo.
Le
cose sono invertite: eccessi, fanatismi e frenesie sono sempre presenti nelle
rivoluzioni, ma non le generano. Ciò che le genera sono piuttosto i secoli di
violenza subita, l’oppressione, lo sfruttamento e l’umiliazione. Losurdo
racconta che la rivoluzione di febbraio, in Russia (quella ‘menscevica’), poi
abbattuta da quella di Ottobre, fu caratterizzata da terribili vendette
spontanee della folla. Nella sola Pietroburgo oltre 1.500 poliziotti furono
linciati ed i marinai di Kronstadt, che in seguito saranno oggetto della
repressione bolscevica, mutilarono centinaia di ufficiali. Ma in modo davvero
barbaro, a settembre, dopo il tentativo di Kornilov, si registrano casi di
tortura che vanno fino all’impalamento, alla mutilazione dei genitali, a
persone scuoiate vive[43]. Più in generale il
processo di dissoluzione dell’esercito russo e lo sfaldamento delle istituzioni
del paese, mettevano già prima della insurrezione bolscevica il paese nelle
condizioni più drammatiche; insomma, quella dell’autunno del 1917 è una grande
jacquerie di massa che cova da secoli. In questo contesto, il problema delle
élite rivoluzionarie è, casomai, quello di contenere ed incanalare questa furia,
per impedirle di distruggere ogni cosa e trasformarle in ‘rivoluzioni’. La violenza
rivoluzionaria nasce, insomma, sempre entro un conflitto che non scompare con
essa. Seguendo il problema sbagliato, quindi, la tanto praticata critica
libertaria, dice Traverso, “spiega raramente come le rivoluzioni possano
evitare la coercizione o preservare la libertà senza farsi rovesciare”[44].
Il
punto è che lasciare il terreno della rivoluzione armata, per la sinistra, ha
significato abbandonare interamente il proprio albero genealogico; diventare
orfani che devono inventare una nuova identità. Di fatto ricostruendola come
variante di quella degli avversari, ovvero del liberalismo e al massimo delle
sue varianti anarchiche. Le sinistre contemporanee, sostiene l’autore con uno
slogan, sono quindi nate in una ‘tabula rasa’ e non hanno elaborato il passato.
Bisogna
però farlo, perché si tratta di esperienze, tutte, che hanno avuto il loro
senso dentro il proprio tempo e luogo, hanno combattuto le proprie battaglie,
hanno perso e vinto, sono state tradite o corrotte, oppure hanno brillato di
luce propria, ma che hanno avuto sempre un nucleo di emancipazione, di ‘liberazione’.
Talvolta, in alcuni momenti, possono essere state ‘un flagello’, ma sono anche
state ‘un appello’, come ricordava Danton, sono state ‘un’ultima disperata
risorsa per uomini disperati e gonfi di rabbia’. Ma, tuttavia, questi uomini e
queste masse hanno messo in discussione ed hanno a volte spezzato ‘la tirannia
del privilegio’ e molte ‘antiche ingiustizie’.
Durante
tutto l’arco che va dalle ‘rivoluzioni atlantiche’ al trionfo in Vietnam la
fame di liberazione è stata alimentata da questa tradizione. Saranno ora
necessarie sempre nuove battaglie, e talvolta, come scriveva Benjamin in esse “il
ricordo balenerà in un attimo di pericolo”.
[1] - Enzo Traverso, “Rivoluzione. 1789-1989: un’altra storia”,
Feltrinelli 2021.
[2] - Karl Marx, “Per la critica
dell’economia politica”, Editori Riuniti, 1957, p. 5
[3] - Karl Marx, Friedrich Engels, “La
sacra famiglia”, Editori Riuniti, 1969, p. 121
[4] - Traverso, cit. p.27
[5] - Michael Robbins in “The
railway ages”, London 1962
[6] - Karl Marx, Friedrich Engels, “Il
manifesto”, Editori Riuniti, 1983 (ed.or. 1848), p.55
[7] - Marx, ivi, p. 56
[8] - C’è dunque molto di Marx, di
questo Marx, nella posizione ‘accelerazionista’ alla quale torna sempre Fisher.
[9] - Reinhart Koselleck, “Criteri
storici del moderno concetto di rivoluzione”, in “Futuro passato”, Clueb,
Bologna, 2007.
[10] - Rosa Luxemburg, “L’accumulazione
del capitale”, PGreco 2012, ed. or. 1913.
[11] - In Marx, che riprende i Tableau économique
di Quesnay, il valore di qualsiasi merce (e quello totale di tutte) è composto
dal capitale costante (materie prime ed ausiliarie, ammortamento delle
macchine, infrastrutture etc.) più capitale variabile (salari) più plusvalore (profitto,
interesse e rendita). La produzione poi si può dividere in una sezione I, che
produce i mezzi di produzione, ed una sezione II, che produce i beni di
consumo. Perché il sistema funzioni senza intralci la domanda totale deve
eguagliare l’offerta totale e la domanda di prodotti di ogni sezione deve
eguagliare l’offerta della stessa. Così facendo tutto resta invariato e si
riproduce anno dopo anno.
[12] - Rosa Luxemburg, idem, p. 486
[13] - Idem, p. 488
[14] - Idem, p. 447
[15] - Traverso, cit., p. 77
[16] - Che si può vedere in questo link
di You Tube https://www.youtube.com/watch?v=_z7qt-2s3zI
, con commento in italiano, o qui https://www.youtube.com/watch?v=YVuf3T3k-W0
[17] - Grandi residenze rurali
multigenerazionali nelle quali si compie vita comunitaria sotto la guida di un
patriarca e nei quali si praticano i rituali vodou, che rappresentano essi
stessi una forma di espressione di autonomia.
[18] - Jeremy Popkin, “Haiti storia
di una rivoluzione”, Einaudi, 2020 (ed. or. 2012)
[19] - Alexandra Kollontaj, “La
nuova donna”, 1918
[20] - Traverso, cit., p. 192
[21] - Joseph De Maistre, “Considerazioni
sulla Francia”, Editoriale Il Giglio, 2010.
[22] - Marcuse, “L’uomo ad una
dimensione”, Einaudi, 1967 (ed. or. 1964).
[23] - Hannah Arendt, “Sulla
rivoluzione”, Edizioni di Comunità 1999 (ed. or. 1963).
[24] - Traverso, cit., p. 311.
[25] - Traverso, cit., p. 197
[26] - Karl Marx, “Il 18 brumaio di
Luigi Bonaparte”, Editori Riuniti, 1964,
[27] - Marx, Engels, “Il Manifesto”,
cit., p. 64
[28] - Lenin, “Che fare?”, Editori
Riuniti, 1968
[29] - Lenin, cit, p. 62
[30] - Idem, p.63
[31] - Cyril Lionel Robert James, “I
giacobini neri”, Derive e Approdi, 2015 (ed. or. 1938).
[32] - Lev Trockji, “Storia della
Rivoluzione russa”, Mondadori 2018 (ed. or. 1930).
[33] - Idem, p. 14
[34] - Idem, p. 16
[35] - Idem, p.19
[36] - Nel 1996 il fascicolo del
Foreign Office FO 111/189, che attesta la collaborazione di Orwell con l’Information
Research Department, un centro segreto di propaganda anticomunista governativo,
tra le figure denunciate c’è anche Chaplin.
[37] - George Orwell, “La fattoria
degli animali”, Mondadori, 2016 (ed. or. 1945).
[38] - George Orwell, “1984”, Mondadori,
2016 (ed. or. 1949)
[39] - Carlo Formenti, “Dalla
Nep di Lenin alle riforme cinesi”, Per un Socialismo del XXI secolo, 13
settembre 2021.
[40] - Idem.
[41] - Traverso, cit., p. 347
[42] - Idem, p. 349
[43] - Domenico Losurdo, “Stalin.
Storia e critica di una leggenda nera”, Carocci editore, 2021, (ed. or.
2008), p. 97
[44] - Traverso, cit., p. 34
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