Il
libro di Vincenzo Costa[1] è stato scritto immediatamente
a ridosso del ciclo di successi elettorali ‘populisti’ del 2016-18 e si pone il
problema di fornire gli strumenti intellettuali per giudicare quel che accade
in quel torno di anni che seguono la crisi del 2008 (la quale in Europa
manifesta i suoi effetti maggiori solo dopo la crisi greca e quindi dal 2010),
con gli effetti economici e sociali dell’austerità, la critica dell’Unione
Europea e dell’Euro, il distacco delle classi medie dal consenso verso quelle
che saranno qui chiamate “le élites”. Pur nella sua agilità, un testo di circa
centocinquanta pagine, il libro individua un percorso teorico semplice e
chiaro: la democrazia è un progetto sempre a venire, una ‘riserva attiva
del possibile’, ma viene ridefinita dalla cultura liberale alla quale le
sinistre si sono arrese come dispositivo istituzionale e legale che
resta indifferente alle vite concrete e punta piuttosto a governarle attraverso
le élite. Nel ‘divenire inutile della sinistra’ l’opposizione che si
manifesta a questo progetto di disattivazione e gerarchizzazione è quella tra
élites e ‘moltitudini’. In questa opposizione si apre un bivio: o la
risposta ai meccanismi sociali e discorsivi che costituiscono le élite ed
escludono avviene in modo reattivo, egemonizzata dai ‘senza-potere’ e dalle
classi medie déclassé[2], e si ha il ‘populismo’.
Oppure intorno ad un progetto che articola le premesse antepredicative dei
“mondi vitali” allargati, e non solo relativi alle ‘classi medie’, si determina
la costruzione di “popolo” che muove dall’esigenza di giustizia e ottiene la
riconnessione delle élite con questi; e allora si ha ‘democrazia popolare’.
Uno
dei punti metodologici del testo è che il luogo di origine di ogni ordine
concettuale è l’esperienza, ovvero l’insieme dei fenomeni che sono ritenuti
in esso e che lo muovono[3]. Ovvero è quella che Costa
chiama l’esperienza effettiva della vita. O, in altro termine, ciò che
rimanda al fondo del “mondo vitale”[4] (che include anche
l’insieme dei valori e delle nozioni rese possibili in un dato quadro di
esperienza). La democrazia, quindi, vero problema al centro del libro, non può
in alcun modo essere compresa come mero risultato di un sistema di regole atte
a governarla, o di teorie che le fonderebbero. La democrazia si comprende solo
come fenomeno che deriva dall’essere situati. O meglio, dall’essere i diversi
attori sociali diversamente situati. Di qui nasce quel processo che,
decentrando le posizioni di esistenza di ego e alter, apre alla scoperta di
abitare in un diverso orizzonte; in un “mondo di vita”, estraneo (affermazione
da prendere in senso lato[5]). Ed appare la scelta se
sentirsi ‘senza-potere’, estranei alla politica, o praticare e ricercare luoghi
di amicizia nella quale questa diventi possibile e con essa la democrazia. È importante
questa caratterizzazione della marginalità come assenza di potere (e non, ad
esempio, di denaro), perché manifesta una delle caratteristiche del modo dell’autore
di percepire il problema della socialità e della sua organizzazione.
Ma
ciò da cui bisogna partire, per comprendere il diverso essere situati degli
attori sociali, è che élite e moltitudini abitano in due diversi modi di
sentire, ovvero in due “mondi di vita” diversi. Le classi dominanti hanno infatti
un carattere specifico, un esasperato desiderio e bisogno di riconoscimento.
Come scrive:
“l’élite è una struttura di
interazione nella quale ogni soggetto mira ad essere riconosciuto come
superiore ad altri, e nella misura in cui viviamo in un mondo mediatizzato le
élite hanno bisogno di un pubblico, per cui esperiscono il popolo come insieme
di spettatori e consumatori del proprio spettacolo e si rapportano al popolo
come un pubblico, invece che come una moltitudine che, attraverso processi di
formazione della volontà democratica, deve esprimere una volontà politica”[6].
Chiaramente,
in questo modo, esse non hanno rapporti con comunità determinate, ma solo con
sottoposti, eventualmente elettori. Per questo motivo:
“la democrazia liberale è un
dispositivo indifferente ai concreti mondi della vita, e proprio per questo una
forma di organizzazione politica che può essere calata dall’alto su mondi della
vita pensati come amorfi, privi di organizzazione semantica, di regole di
interazione e di strutture teleologiche”[7].
Anzi,
secondo il punto di vista liberista[8] il governo della società
prodotta dalla logica della competizione estesa dal mercato nelle vite di tutti
determina un nuovo uomo. Ovvero, nel linguaggio di Costa, punta a cambiare
il ‘mondo della vita’. L’intero sfondo di preinterpretazioni condivise a
partire dalle quali diventa possibile ogni conoscenza e azione. Si comprende se
si fa mente al fatto che. dal punto di vista storico, il neoliberalesimo
reagisce alla crisi determinata negli anni in cui, come si trovò a dire Karl
Polanyi[9] la società iniziò a
difendersi (dalla condizione di insopportabile ineguaglianza e degrado sociale
prodotto dalla globalizzazione imperialista sotto guida anglosassone tra la
fine dell’Ottocento ed i primi anni del Novecento). E lo fa senza limitare il
mercato attraverso azioni compensative (come proponeva Keynes), ma, al
contrario, spingendolo avanti e mettendo in piedi una ferrea gabbia normativa
sostenuta dalla forza dello Stato, per purificare il mercato e far affermare in
esso la forma pura della concorrenza[10]. Il neoliberismo è una
forma di progressismo e, al contempo, una forma di accelerazionismo. Lo
scriverà bene Lippman nel 1938 e anni seguenti:
“gli ‘ultimi liberali’ non hanno
capito che ‘ben lungi dall’essere astensionista, l’economia liberista
presuppone un ordine giuridico attivo e progressista, teso al continuo
adattamento dell’uomo a condizioni sempre mutevoli. Serve un ‘interventismo
liberista’, un ‘liberalismo costruttivo’ ed un dirigismo statale che certo si
deve differenziare sostanzialmente rispetto alla pianificazione ed al
collettivismo”[11].
Ne
consegue un dirigismo sui generis, “che implica la protezione della
libertà, non il suo asservimento; deve garantire che la conquista di benefici
sia il frutto di una vittoria dei più adatti all’interno di una competizione
leale, e non il privilegio dei più garantiti o di coloro meglio collocati
socialmente”. Un liberismo che è quindi, contemporaneamente, il regno della
legge e il governo delle élite, e che si allontana, ancora Lippman, “dalla
mentalità magica ed impaziente delle masse”[12].
Se
questo è il punto di vista delle élite, proposto dai neoliberali, quello delle
“moltitudini” (l’insieme dei lontani dal potere, ma, tuttavia, spesso
consapevoli, istruiti, se pure eterogenei) vede la democrazia come luoghi,
volti, amicizie. Ovvero come articolazione dell’intersoggettività a partire da
esperienze concrete. Esperienze dell’altro, che è come me ma altro da me;
esperienze dell’essere altro di un altro di ognuno; dell’avere orizzonti di
senso comune; della possibilità, in definitiva, di assumere il punto di vista
dell’altro in uno spazio discorsivo. In altre parole: non può esservi
democrazia senza capacità di pensare l’io nel noi ed a partire dal noi.
Ma
le ‘moltitudini’, se pure sparpagliate e disconnesse, non sono i “senza potere”
(o i “declassati”) che, invece per Costa non riescono a pensare collettivamente
e restano per questo nel circolo determinato dalle forme di oppressione che
subiscono individualmente. Inoltre restano, in assenza di un’articolazione
teorica e di un progetto di emancipazione, nel circolo della disperazione e
della rabbia cieche, nel ribellismo senza progetto di cambiamento. Al contempo
in certo modo sono in modo subalterno catturate dalle precomprensioni e concettualizzazioni
(una parte, ma non tutto, di ciò che qui si chiama “mondo vitale”) delle élite
stesso, ovvero del neoliberismo. A causa di questa cattura cognitiva inconsapevole
esse non percepiscono possibilità nelle istituzioni presenti e nel dibattito
politico. Sentono fortemente sulla propria pelle il peso bruciante della
delegittimazione, che promana dalle élite, e la perdita di senso, ma non
sanno trovarne un altro.
Considerando
questa biforcazione, è lo stesso modo di essere delle élite che blocca la
democrazia e provoca, come mero fenomeno reattivo, il populismo che, per parte
sua, non è altro che una vendetta. Un’emergenza che si verifica quando la
decodifica delle relazioni che si presentano come sistematicamente distorte ed
in piena ‘crisi comunicativa’ diviene impossibile.
Mentre,
al contrario, una democrazia sana prevedrebbe che la giustizia sociale sia in qualche
relazione riconoscibile con i diritti sociali e al contempo connessa con la
formazione della volontà politica. La forma liberale recide questa relazione e
la sinistra, accusa Costa, ha negli ultimi trenta o quaranta anni seguito
questa deriva, sostituendo lo scopo dell’emancipazione con quello di “far
saltare il codice della normalità in direzione di un’esistenza libertaria,
anarchica, centrata sul valore della libertà assoluta dell’individuo”[13]. In sostanza le
formazioni della sinistra, anche le più estreme, hanno assunto senza
avvedersene quelle formule e quei toni che avevano caratterizzato la critica
aristocratica alla borghesia. Sconfitti sono divenuti interamente subalterni, in
un processo che ha progressivamente modificato in profondità l’intera rete
valoriale, e che ha finito per presentare il mercato come sovrano assoluto non
lasciando nulla da decidere alla forma politica. A muovere questa
trasformazione è stata l’illusione che la questione sociale fosse divenuta
obsoleta (una posizione in particolare affermatasi nei lunghi anni Novanta),
perché a loro volta le contraddizioni del capitalismo si erano neutralizzate.
Una volta accolta questa idea sono rimaste solo amministrazione e
riconoscimento dei diritti civili.
Come
segnalano non pochi avversari ciò ha determinato la tendenza a creare una élite
chiusa che, in quanto tale, crea sistemi di esclusione. Ma cosa
significa infine élite? In questa descrizione si manifesta una delle migliori
caratteristiche del libro: essa è essenzialmente un sistema di interazioni. Non
è affatto una ‘casta’ che opprime, quanto “l’insieme delle persone che hanno un
potere distintivo a causa della loro posizione strategica che li connette ad
organizzazioni, istituzioni e movimenti in grado di generare risultati politici
ed economici stabilmente”. Entro tali insiemi, come accade costantemente,
vigono tacitamente regole che guidano il comportamento e l’accettazione.
Si tratta, semplicemente, di “sistemi di attese reciproche che partono da una
comune e condivisa comprensione del mondo”[14]. Si tratta, in sostanza,
di un sistema di doni e controdoni, una logica sia mondana sia amicale che si
manifesta in luoghi comuni, secondo frequentazioni ripetute.
“l’élite è un sistema di interazioni
e il suo modo di funzionare non dipende da perfidia delle volontà che, benché
possa talvolta essere presente, può anche mancare senza che il carattere
essenziale dell’élite venga meno. L’élite non è dunque un insieme di persone,
ma una rete semantica che produce regole di interazione, da cui le parti
traggono il loro potere, ma che, d’altro canto, le vincola entro limiti ben
definiti da cui non possono evadere, perché rappresentano le condizioni di
compatibilità senza le quali il sistema reticolare si sfalda e i singoli si
trovano in pieno stato di natura”.
Tutto
ciò è esperito da chi sta fuori (i “senza potere”) come disprezzo ed
ingiustizia. Il populismo è dunque solo una reazione tutta interna a questa
circolazione di senso. Secondo una posizione esplicitamente lontana dal
marxismo, viene rivendicato che questa lettura delle élite non è connessa con i
mezzi di produzione. Si può avere una struttura reticolare di potere, fortemente
coesa e altamente escludente, anche dove i mezzi di produzione sono collettivi.
Più che la ricchezza materiale nella visione di Costa, che è erede della
tradizione fenomenologica, conta la ricchezza immateriale, il potere effettivo
ed il dominio. E fa premio la separazione dai mondi della vita e la stabilità
dei meccanismi di inclusione e cooptazione e di quelli di riproduzione. Per cui
conta la solidità del sistema di attese reciproche che partono da una comune e
condivisa comprensione del mondo. Dunque, una delle caratteristiche distintive
di un’élite chiusa è il grado di ‘porosità’ della membrana esterna, che, nei
casi più consolidati serve a far passare solo chi è affidabile e fa promessa di
garantire la riproduzione del sistema. Il sistema di ‘doni e controdoni’ che,
nel loro insieme, identificano e consolidano le élite esprime del resto in
profondità una logica amicale e mondana che si manifesta tipicamente in luoghi
‘notevoli’ (come il dato campus universitario, o la carriera distintiva) e vive
di frequentazioni comuni. Si tratta di una rete di amicizia, ovviamente, ma
anche e in modo necessariamente indissolubile, di una rete di esclusione. Ma le
élite sono anche un insieme di tensioni, non si tratta in nessuna forma di una
struttura tra pari, al contrario, è una gerarchia articolata che si compatta
ulteriormente nei momenti di crisi. E un sistema di relazioni la cui
legittimazione si manifesta attraverso l’egemonia che riesce ad esercitare
sulle classi medie.
Il
punto è che se per entrare a far parte delle élite bisogna previamente
abbandonare la comprensione emotiva del ‘mondo della vita’ di provenienza (le
rare volte in cui questa è dissonante come è accaduto, ad esempio, ad una parte
del personale politico portato improvvisamente ‘nelle istituzioni’ dal M5S,
esemplare la parabola di Di Maio), allora viene bloccata la circolazione del
sentire e le élite, di converso, alla fine non sentono più la società e si
autorappresentano come coloro che hanno i valori corretti. I ‘boni viri’,
coloro che hanno in sé la virtus, e, ovviamente, il meritum. La pars melior
humani generis, come uno sconcertato Rutilio Namaziano dirà della classe
senatoria, sfidata dai barbari, in “De reditu” del 417[15]. Come allora accadde la ri-circolazione
delle élite (o, in altre parole, l’irruzione dei barbari) potrebbe
rivitalizzare la situazione, inserendo nuovi modi di sentire e possibilità di
azione. Ma può anche, al contrario, fermarsi alla fase di distruzione, o essere
strumentalizzata inavvertitamente dalle élite stesse in una ‘rivoluzione
passiva’. Questo è il problema, in effetti: le élite si sono fatte, e da tempo,
sclerotiche e autoreferenti, bloccano la vitalità, ma questa locomotiva che
sferragliando e tremando corre verso l’abisso, può essere fermata solo da un
moto di distruzione. La cui natura è da vagliare, arrivando fino a sospettare
che “il populismo può essere la forma attuale della violenza rivoluzionaria”[16]. Una frase questa ultima
che forse oggi l’autore, dopo lo spettacolo dell’umiliazione che le dinamiche
avviate nel 2018 hanno subito (in cui tanti si sono accodati, esattamente
lasciando per strada, e con entusiasmo, l’intera comprensione emotiva che
portavano in dote), non sottoscriverebbe più. Si tratta, però, del reale
problema di fronte a noi della possibilità della riattivazione della politica
di trasformazione a fronte di un passaggio d’epoca che si presenta enormemente
travagliato ed anche pericoloso.
Il
problema è, in effetti, che cosa possa trasformare una moltitudine anche
arrabbiata e déclassé[17] in un soggetto politico
capace di esercitare una qualche forma di egemonia e autonomia (dalle élite). Qui
compare la questione di comprendere che cosa si intenda, in questo contesto,
per ‘popolo’.
“Il popolo è una articolazione
antepredicativa di soggetti unificati da una serie di intrecci intenzionali
derivanti dal fatto di muoversi entro un comune orizzonte di senso[18]”.
E
questo può avvenire solo quando i soggetti sanno assumere il punto di vista
dell’altro e sono capaci di esplicitare questa comprensione ‘antepredicativa’
originaria. Ciò accade nella democrazia, nelle quali dinamiche di ‘amicizia’
situata (in luoghi, processi e temi) “il soggetto impara a guardarsi come
l’altro di un altro”, ed in questo modo “prende le distanze da se stesso, può
guardare se stesso come un altro, e dunque può costituirsi come cittadino
distinto dal privato”[19]. Insomma, avviene in lui
un processo di maturazione (si veda la teoria di Piaget descritta da Habermas
in “Teoria dell’agire comunicativo”[20]). Questo processo di
costruzione dell’intersoggettività decentra il soggetto e facilita il sorgere,
da questi, del “popolo”. Un ente che “sorge quando le moltitudini acquisiscono
la capacità di assumere il punto di vista dell’altro, poiché questo sdoppia il
soggetto, lo divide, e istituisce la differenza, nello stesso individuo, tra
privato (soggetto ad interessi particolari) e cittadino (soggetto alla volontà
generale)”. Riecheggiando temi rousseuiani per Costa, allora, “il popolo è
tale nell’atto stesso di dare la legge a sé stesso, e dunque si costituisce in
popolo sovrano limitando la propria sovranità nell’atto di darsi la legge”.
Ovvero, in modo più sintetico, “il popolo è il movimento di trascendenza
immanente alla moltitudine”. Precisamente, quel movimento immanente che è
attivato dal sentimento di umiliazione ed offesa passato al setaccio del
concetto e sentimento di giustizia (che presume un riconoscimento). Non già di
quello di sicurezza. Ma questa esperienza, ovvero questo potenziale immanente,
attivato dalla situazione, deve essere articolato discorsivamente. Con questo
tono habermasiano, Costa afferma che: “la giustizia non è qualcosa che qualcuno
possiede, ma il movimento del suo farsi legge attraverso il discorso, è la
ragione all’opera tra i soggetti, ciò che crea legame, lo genera e lo rigenera”[21].
Per
dare una idea dell’estrema densità di presupposti di questa posizione si veda
questo passo chiave di TAC di Habermas:
“di ‘logica evolutiva’ nel senso
della tradizione che risale a Piaget, possiamo però parlare soltanto nel caso in
cui le strutture storiche dei mondi di vita non mutino in modo casuale, ma solo
in dipendenza di processi di apprendimento, quindi in modo orientato. Una variazione
orientata dei mondi di vita ha luogo, ad esempio, quando le trasformazioni
evolutive si lascino collocare nella visuale della differenziazione fra
cultura, società e personalità. E si dovranno postulare processi di
apprendimento per siffatta differenziazione strutturale del mondo di vita,
quando sia dimostrabile che quest’ultima ha significato un aumento di
razionalità”[22].
Svolge
una funzione chiave, in questo discorso che a me pare avere una somiglianza
fisiognomica, non specifica, non solo quello che chiama un “mondo di vita
idealizzato”, nel quale vigono in ultima istanza prese di posizione si/no
razionalmente motivate su contesti normativi ‘razionalmente impenetrabili’,
quanto l’implicita descrizione di questo processo come ‘divenire adulti’
(ovvero il fondamento nascosto di un’antropologia della quale la forma di vita
occidentale e, nel caso di Habermas, anche liberale ed illuminista, serberebbe
la chiave). Seguita Habermas:
“In verità questo mondo di vita acquisterebbe
una singolare trasparenza, nel senso che consentirebbe soltanto situazioni in
cui gli attori adulti saprebbero distinguere le ‘azioni orientate al
successo’ dalle ‘azioni orientate all’intesa’, altrettanto chiaramente quanto atteggiamenti
empiricamente influenzati si distinguono da prese di posizione si/no
razionalmente motivate”[23].
Allora
qui, alla luce di queste considerazioni, emerge la differenza con il
“populismo”. Questo fornisce della situazione e del movimento di liberazione un
tono meramente reattivo, e interpretazioni sistematicamente non politiche.
Anche il populismo è un fenomeno relazionale, ma ha il tono piuttosto di una
rivolta contro lo Stato moderno, e le sue forme tecniche e relazionali (nonché
giuridiche) ed a inconfondibili tratti anarchici, liberali e conservatori.
Anzi, si tratta di “un fenomeno essenzialmente conservatore”. Vive di costanti
polemiche contro la burocrazia, lo Stato e la fiscalità; rappresenta il
conflitto come opposizione tra classi politiche e “non politiche”, dandogli una
coloritura morale che nasce direttamente e senza mediazione da un vissuto di
distanza ed umiliazione. Una sorta di anarco-liberalismo conservatore, che è in
esatta continuità con i movimenti, ed i partiti-nicchia, che hanno avuto lungo
successo durante gli anni Novanta e zero. Partiti che vivevano di rifiuto della
politica basata sugli interessi di classe, e organizzavano il discorso politico
su singole scelte (l’ambientalismo, il femminismo, i tanti movimenti di difesa
di minoranze offese, etc.), restando essenzialmente legati alle classi medie
allora emergenti.
Il
populismo ne è l’erede legittimo, una volta che queste classi medie si trovino
a rischio di declassamento, e si trova in un’unica struttura relazionale con il
movimento aperto dalle élite liberali. Si tratta di due variabili non
indipendenti.
“in senso forte, il populismo deve,
al pari di una prospettiva liberista, mettere da parte la nozione di ‘giustizia
sociale’, poiché questa richiede necessariamente concentrazione di potere e
primato della politica sull’economia”[24].
Se,
dunque, il populismo è essenzialmente un movimento anarco-liberale conservatore
(e non un movimento parimenti orientato, ma progressista, come per certi versi
sono le élite che dice di combattere), e si appella a quelle sezioni delle
classi medie che sono state declassate, e vivono ciò come disconoscimento,
allora è un movimento reattivo. L’unità che apparentemente crea, oltre
ad essere effimera e di brevissima durata, è meramente oppositiva. Infatti si
può dire in questo modo: il populismo articola la dialettica tra moltitudini e
classi sociali, a partire dall’istanza liberistica dell’autogoverno e delle
libertà individuali. Nel fare ciò in sostanza trasforma la moltitudine in
popolo, come vorrebbe Laclau, ma in modo effimero e soprattutto sotto
l’egemonia del ceto medio. Se può sembrare avere un tono popolare è solo perché
ad esso si oppone, nel completo silenziamento delle altre voci (rese afone da
una egemonia culturale onnicomprensiva dell’estetica liberista), a classi medie
superiori e classi alte incorporate nelle cosiddette élite. Insomma, il
populismo è figlio del liberismo e non esce dalla sua ombra.
Si
tratta in sostanza di un disturbo comunicativo
e di un annullamento delle articolazioni, condotto attraverso la sistematica
elusione dei problemi e l’annientamento di ogni possibile progetto di
trasformazione (necessariamente, anzi fatalmente, divisivo). Anche la necessità
per una costruzione populista di fare uso di “significanti vuoti” (Laclau),
implica che la costruzione discorsiva populista escluda sempre ogni riferimento
alla questione sociale per privilegiare elementi come l’onestà, la
rottamazione, l’antiburocrazia. Si tratta, deve essere chiaro, di temi e toni
che scaturiscono dalle esperienze di vita dei soggetti, ovvero dal ‘mondo di
vita’, ma che non permettono alcuna definizione di progetto. Si tratta di un’aggregazione
in negativo, che produce apparente unità solo perché toglie le differenze
(ignorandole) e rifiuta quindi quella discussione capace di far emergere altre
possibilità implicite, presenti nel ‘mondo di vita’. L’accusa che Costa svolge
alla dinamica ‘reattiva’ del populismo è quindi di irrazionalità, reificazione
e subalternità. Una dinamica incapace di produrre effettiva libertà ed
emancipazione.
Abbiamo
detto in precedenza che il recupero dall’alienazione può avvenire solo in modo
non alienato (nota 17). Per concludere questa lettura tentiamo, dunque, di
richiamare alcuni luoghi del lungo dibattito sulla alienazione/reificazione,
che come noto viene posto in posizione strategica nell’opera di Marx e poi ripreso
nel dibattito a più voci degli anni Venti e di qui successivamente abbandonato
nella svolta ‘liberale’ della sinistra (nella quale “Teoria dell’Agire
Comunicativo” svolge un ruolo rilevante) e che si tenta di riprendere nelle
più recenti ‘generazioni’ francofortesi. Nel 1923 in “Storia e coscienza di
classe”[25]
Lukacs pubblica il saggio “La reificazione e la coscienza del proletariato”,
che muove dalla trattazione della merce in Marx nella quale “un rapporto, una
relazione tra persone riceve il carattere della cosalità e quindi una ‘oggettualità
spettrale’ che occulta nella sua legalità autonoma, rigorosa, apparentemente
conclusa e razionale, ogni traccia della propria essenza fondamentale: il rapporto
tra uomini”. Il tema si lega a quello dell’alienazione, da Hegel connessa alla “rinuncia”
ed alla “estraneità” o “scissione”[26], e poi da Durkheim
tradotto in “anomia”[27] e da Simmel nella sua
denuncia del predominio delle istituzioni sugli individui[28], per non parlare di Max
Weber. Nella sua prima versione la teoria dell’oggettivazione di Lukacs è
strettamente connessa con quella di Hegel, un fatto strutturale, anche se, con
Marx questa viene identificata come caratteristica specifica del capitalismo e
quindi con esso superabile. Per l’autore ungherese, comunque, si tratta di un
effetto dell’espansione dello scambio di merci a danno delle altre dimensioni
della relazionalità umana e della vita.
Questa espansione provoca tre effetti:
-
Conduce a percepire gli oggetti come mere “cose” da cui è ricavabile un profitto (e qui il linguaggio
non ci aiuta, dato che ‘oggetto’ e ‘cosa’ appaiono sinonimi e solo la ricerca
di Mauss aiuta e comprendere una potenziale maggiore estensione semantica ed
affettivo-esistenziale);
-
A considerarsi anche vicendevolmente come cose in una transazione vantaggiosa,
-
A considerare le capacità di ego ed alter come
“risorse” mobilitabili nel calcolo
dei possibili profitti (ad esempio utilizzando concetti come “risorse umane”).
La tendenza alla “reificazione”
del mondo e delle soggettività prese nelle relazioni di mercato produce una
sorta di “seconda natura”. Come Mauss,
negli stessi anni, in altre parole sosteneva che l’uomo calcolatore è un
prodotto della modernità, ed è “davanti a noi”. L’idea, al contrario del
rivolgersi indietro di Heidegger[29],
è che dietro il velo alzato dal capitalismo c’è la vera esistenza umana
potenziale. Si può dire che l’uomo realizza sé stesso nella modalità di un
impegno esistenziale, di un ‘prendersi cura’, che gli fa scoprire un mondo
dotato di senso, non attraverso un orientamento a conoscere, padroneggiare e
manipolare in modo neutrale.
Davanti al rischio che, seguendo questa linea di
critica, qualunque forma di oggettivazione (o di agire strumentale) sia
reificante e che la socialità umana sia destinata a sparire in essa, Habermas
in “Teoria dell’agire comunicativo”
individua più limitatamente come “reificazione” solo il processo che vede forme di comportamento strategiche
penetrare in sfere sociali nelle quali non è funzionalmente opportuno siano
coinvolte, per non perderne i presupposti comunicativi. La modernizzazione
capitalista, sostiene Habermas segue un modello che vede la razionalità
cognitivo-strumentale superare gli appropriati ambiti di economia e stato e
penetrare anche “in altri ambiti di vita strutturati in modo comunicativo”,
prevalendo sulle forme di razionalità ad essi più appropriate (pratico-morale
ed estetico-pratica). La cosa crea quindi disturbi nella riproduzione simbolica
del mondo vitale[30]. Ne deriva il concetto
chiave, richiamato in un passaggio anche da Costa, di “colonizzazione del mondo
vitale” che in TAC è alla base dei fenomeni di “reificazione della società” che
si verificano “quando la distruzione di forme tradizionali di vita non può più
essere compensata mediante l’adempimento più efficace di funzioni a livello
sociale complessivo” (p.978). Torna dunque un criterio esterno, funzionale, di
tipo marxiano (e weberiano), per giudicare quando un’oggettivazione è
complessivamente accettabile, in quanto “compensata” da un superiore beneficio.
Nel capitolo “Da Parsons attraverso Weber sino a Marx”,
in cui il filosofo si impegna in un serratissimo corpo a corpo con i processi
della modernità di astrazione reale e ‘cosificazione’ dei nessi di azione
socialmente integrati e con gli autori che auroralmente li hanno messi in
questione, torna sempre di passaggio la diagnosi storico-situazionale che muove
dall’interno l’impresa di TAC stessa: “vedremo poi come può essere spiegata la
pacificazione del conflitto di classe, nel quadro delle democrazie di massa
dello Stato sociale, e come la teoria marxiana dell’ideologia può essere
collegata con le riflessioni di Weber sulla modernità culturale”[31]. Nel
più recente “Verbalizzare il sacro”[32], viene
enfatizzato il concetto di ‘apprendimento’ come avanzamento attraverso il quale
la prestazione di “trascendere il
contesto” (kontexttraszendent) viene connesso con processi di reciproco
apprendimento per effetto di ‘buone ragioni’ in una struttura intersoggettiva. Qui,
come del resto in TAC, la storia dell’umanità può essere retrospettivamente
compresa (rischiando, come ammette, di restare a sua volta esso stesso in una
sorta di prigione mentale etnocentrica) come evoluzione dall’incapsulamento dell’individuo
nei “mondi-di-vita”, etnocentricamente situati, alla conquista di una capacità
di agire in base ad una razionalità astratta, che si fonda su una normatività
procedurale a sua volta fondata sulla struttura di riconoscimento implicata nel
linguaggio a livello grammaticale. Questo processo è, al modo di Kant,
interpretato come decentramento e
autonomizzazione individuale, ma è costantemente sfidato dal doppio rischio
di “ricadere” nel vicino abbraccio del mondo-di-vita (generando un ritorno ai
conflitti identitari, reciprocamente impermeabili, ed alle forme sociali dell’ante
modernità) o nella reificazione, trasportata dalla logica scientista e dalla
potenza darwiniana dei “mercati”. Entrambi i rischi sono ascrivibili al novero
della mancanza di “autonomia”, e dunque dell’alienazione. È chiaro, infatti,
che si è di fronte al rischio dell’abbandono alla logica tecnocratica
de-individualizzante, che vede solo una disseminazione, come sabbia, di
“avatar” ad una dimensione (consumatori, eventualmente produttori, comunque
ingranaggi della macchina valorizzante) che sono agiti da strutture ritrovate
ex ante e non disponibili. Un simile mondo non prevede effettivo reciproco
riconoscimento, né solidarietà, e dunque manca dell’infrastruttura necessaria
per l’emergere dell’autonomia.
Anche qui il punto di partenza è che l’uomo è da
sempre incorporato in un mondo-di-vita che è contestuale e non sta in qualche
modo “davanti” in forma teorica, non è trasparente ed enumerabile dalla ragione
analitica (che, anzi, la inibisce in qualche modo), ma “piuttosto siamo noi che
ci scopriamo dentro di essa prima
ancora di cominciare a teorizzare. Essa ci
abbraccia e ci sostiene fin dal
momento in cui, come esseri finiti, dobbiamo affrontare ciò cui andiamo
incontro”[33] ed è, insieme, orizzonte e sostegno (Husserl). È un sapere-di-sfondo, preriflessivo, che
accompagna le abitudini quotidiane e costituisce il deposito di risorse dei
processi di intesa e di cooperazione sociale. Tutta questa dimensione, in
quanto non modellizzabile, è completamente ignorata nel sapere scientifico e in
particolare nelle sue forme più razionalizzate e autoritarie, come nella
modellistica matematica. Lo scambio, attraverso l’incontro di momenti di
dissonanza cognitiva, contraddizioni, scontri bisognosi di nuova regolazione,
può provocare allora una dinamica di processi di apprendimento che mette al riparo, in qualche modo, “buone
ragioni” che, al mutare di circostanze e conoscenze, possono essere via via sostituite
da “migliori”[34].
Habermas è cosciente che la descrizione di simili
processi, nella sua forma idealtipica, rischia di far “scivolare nell’ideologia
pseudo illuministica di un inarrestabile progresso nella comprensione di sé e
del mondo”. Ogni “ragione” è infatti presa in un denso tessuto di rimandi e
condizioni di possibilità ed abilitanti e dunque essa non è mai al riparo dalla possibilità di
revoca, da parte di altre non necessariamente “migliori”. In altre parole,
l’espressione ha due letture, per così dire alla maniera degli hegeliani di
destra e sinistra: una ragione può essere migliore solo perché è l’ultima,
attualmente, o può esserlo in base ad un criterio (la seconda via richiede una
fondazione trascendentale dello stesso che Habermas tenta, valorizzando il
concetto kantiano di autonomia).
L’elemento logicamente centrale di questo processo è
la creazione di un rapporto non ascrittivo ma riflessivo con le tradizioni ma
anche, insieme, con una crescente integrazione sociale che si estende e
differenzia ben oltre i gruppi parentali a far esplodere progressivamente i
confini (anche nazionali). Il punto critico, nell’intera opera, è che leggendo
in questo modo il processo antropico, Habermas individua in questa storia
ricostruttiva un “aumento di riflessività anche nel rapporto degli individui
con sé stessi”[35]. Sfiorando ancora il
rischio di etnocentrismo a questo punto il nostro individua nella tradizione
europea una sorta di spinta cognitiva “supplementare” che si fonda su una più
pronunciata individualizzazione, insieme ad una radicalizzazione
dell’universalismo giuridico-morale[36],
e qualcosa che chiama “una coscienza ancor più affilata della contingenza e una
anticipazione ancor più marcata del futuro”.
Certo, nel 2012, quando la crisi è iniziata, confessa “non sono più tanto sicuro che i potenziali
spirituali, e le dinamiche sociali, della modernità globalizzata abbiano in sé
forza sufficiente per arrestare le tendenze autodistruttive (a partire
dall’erosione della sua stessa sostanza normativa)”[37], ma
resta ostinatamente connesso con l’impresa di spingere lo sforzo fallibile di “controllare democraticamente la nuove
opzioni che ci vengono messe a disposizione da eugenetica, neurologia e
intelligenza artificiale”, producendo sempre “decisioni razionalmente
giustificabili” che si collocano su un meta livello: quello “in cui si deve scegliere tra una decisione
politica consapevole e il passivo adattamento alle naturalistiche leggi
dell’economia capitalistica”.
Ora io non ho compreso pienamente, nei vari luoghi in
cui questo termine compare, il senso esatto (se critico o descrittivo) in cui
Habermas spende il termine “naturalistiche
leggi dell’economia capitalistica”. La cosa è, per me, centrale e
dirimente. Perché certamente appare vero che “oggi, nelle condizioni del
capitalismo globalizzato il controllo politico dell’integrazione sociale si è
molto ridotto”[38], e anche che questo
deriva dalla dissoluzione del “embebbled capitalismo”, cioè dal venire meno
delle condizioni del capitalismo interno allo stato nazione. Ma questo fatto
storico era il risultato di specifici accordi internazionali (principalmente
stipulati a Bretton Woods e poi messi a punto nel quindicennio successivo), di
un assetto delle forze (in particolare dallo strapotere della capacità
industriale, economica e militare americana nel contesto della sfida sovietica
che rendeva necessario consolidare il consenso negli stati-nazione), di condizioni
e livelli della tecnologia dominante, e via dicendo. Tutte dimensioni che
implicavano azioni intenzionali di attori miranti ai propri scopi e
l’alterazione di distribuzioni di risorse con una vasta disseminazione di
conseguenze. In altre parole, era il
prodotto storico di fattori storici.
Allora se la politica (nazionale) “poteva controllare
la deriva dei sottosistemi e controbilanciare le tendenze disintegrative”, ciò
che determina la fine di questa possibilità e conduce ad una condizione di
semi-impotenza dei governi nel “controllo politico dell’integrazione sociale” è,
a sua volta, un turning point che non ha nulla di “necessario”. Crederlo, o
alludere a tale ipotesi, significa scivolare nel considerare naturale questo
movimento. C’è una certa dinamica nel discorso di Habermas che, sia pure per
ragioni antropologiche e culturalistiche (e non tecnico-economiche), indulge a
tale conclusione. Ciò significa anche considerare sempre più verosimile
l’immagine della teoria sistemica della modernizzazione sociale. Ma naturalmente
implica anche riconoscere, come nell’ambito nazionale, scrive il nostro, “la
politica – intesa come strumento di autodeterminazione democratica – si è fatta
tanto impossibile quanto superflua”[39].
Un’integrazione che obbedisce solo a imperativi funzionali retrocede infatti la
stessa democrazia a mera “facciata illusoria rivolta dalle amministrazioni ai
loro clienti indifesi”. “Clienti” che naturalmente si ritirano intimiditi nella
loro sfera privata e rifuggono dall’agire collettivo.
Ma questa potente tendenza contemporaneamente provoca a
sua volta accumuli di tensione e risonanze. Induce un accumulo di costi esterni
che si scaricano sulle storie-di-vita. Sono queste resistenze, ed i relativi
movimenti, che, per l’anziano teorico della “democrazia radicale”,
“restituiscono al concetto del Politico una sua ritrovata attualità”. Molte di
queste resistenze muovono dalla dissonanza tra le storie-di-vita rese comuni
dall’imperialismo neo-liberista mondialista, ed i suoi sottosistemi resisi
funzionalmente autonomi (basti pensare il potere indiretto di controllo
sull’agenda democratica dei movimenti resi ubiqui dal sistema delle banche
centrali), e il “contrafforte” delle sensibilità normative religiose. I legami,
ad esempio, tra la morale giudaico-cristiana e la formazione della filosofia e
del “politico” sono noti ed evidenti. Come anche il deposito di sensibilità
verso la natura, la socialità umana e lo sviluppo della persona radicalmente
non coincidenti con il funzionalismo astrattamente ottimizzante della tecnica e
della “economia” contemporanea.
Davanti a questo problema in TAC Habermas sosteneva
che tutte le deformazioni oggetto della critica di Marx, Durkheim e Max Weber,
secondo lui “non vanno ricondotte né alla razionalizzazione del mondo vitale in
generale, né alla crescente complessità sistemica in quanto tale”. La ragione è
che “né la secolarizzazione delle immagini del mondo né la differenziazione
strutturale della società hanno di per sé
effetti collaterali patologici inevitabili”[40]. Poche
pagine dopo cade una pagina cruciale nella quale, descrivendo il compromesso
dello Stato sociale (vigente all’epoca dello scritto), scrive:
“La
pacificazione del conflitto di classe, da parte dello Stato sociale, avviene a
condizione di proseguire un processo di accumulazione il cui meccanismo propulsore
capitalistico, salvaguardato mediante interventi statali, non viene affatto modificato.
Il riformismo fondato sullo strumentario della politica economica keynesiana ha
elevato questo sviluppo a programma dei paesi occidentali, sia sotto governi
socialdemocratici sia sotto governi conservatori.
…
Le strutture
sociali che si sono in tal modo cristallizzate non devono però essere
interpretate come il risultato di un compromesso di classe, come pensavano
teorici austromarxisti come Otto Bauer o Karl Renner. Con l’istituzionalizzazione
del conflitto di classe, infatti, il contrasto sociale, acceso dalla
disponibilità privata sui mezzi di produzione della ricchezza sociale, perde
sempre più la forza di plasmare il mondo di vita dei gruppi sociali, pur
continuando ad essere costitutivo per la struttura del sistema economico. Il capitalismo
avanzato trae vantaggio a modo suo dalla relativa disgiunzione di sistema e
mondo della vita. La struttura di classe, trasferita dal mondo di vita al
sistema, perde la sua forma storicamente afferrabile. La distribuzione
diseguale di risarcimenti sociali rispecchia un modello di privilegi che non è
più riconducibile direttamente a posizioni di classe. A dire il vero, le
antiche fonti di disuguaglianza non si sono affatto esaurite, ma adesso esse
sono condizionate non soltanto dalle compensazioni dello Stato assistenziale,
ma anche da ineguaglianze di nuovo tipo. Sono caratteristici di ciò sia certe
disparità sia conflitti dei gruppi emarginati”[41].
E,
conclude, in modo chiaro e fulminante (la diagnosi di un’intera generazione):
“Quanto più il
conflitto di classe, connaturato alla società per via della forma privata di
accumulazione, può essere arginato e mantenuto latente, tanto più balzano in
primo piano problemi che non direttamente violano situazioni di
interesse attribuibili in modo specificamente di classe”.
Come cioè accade ad altre posizioni
teoriche che si consolidano tra la fine degli anni settanta e gli anni ottanta,
il presupposto, assunto come ottenimento consolidato e ormai parte della
struttura fondamentale da cui si parte nel pensiero, è che lo Stato Sociale ha
distribuito in modo accettabilmente equo le risorse e “pacificato” il
conflitto. Eliminati, dunque, conflitti irrisolvibili, o frontali, resta da
definire un processo di adattamento progressivo, per così dire “ai margini” e
graduale.
Ma tutto questo si è rovesciato; la “cosificazione dei nessi di azione integrati
socialmente” (come Habermas riassume la posizione critica di Marx) si sono cioè
ripresentati con forza nei rapporti
sociali di lavoro, nelle forme di comunicazione (visibili nella cosiddetta “sharing
economy”, nelle pieghe della Platform economy e via dicendo). Risulta, in altre
parole, più difficile sostenere che “il nesso sistemico di economia
capitalistica e di amministrazione statale moderna rappresenta anche un livello
integrativo superiore per società organizzate statualmente e vantaggioso dal
punto di vista evolutivo”[42].
Questo maggior “valore evolutivo” è più questionabile oggi che nel 1981.
Rimetterlo in questione non muove l’intera teoria?
E se l’intera teoria andrebbe rimessa in movimento,
essendo cadute le sue premesse storiche (peraltro esplicite), la cruciale, se
pur accennata pagina 130 del testo di Costa non potrebbe esserne coinvolta? In altre
parole, pur condividendo senza riserve la condanna della meccanica meramente reattiva
del ‘populismo’ descritto dall’autore, e a maggior ragione la sua critica delle
élite liberali, temo che la mera via di uscita ‘democratica’ come
autoriflessione, differenziazione e connessione con i mondi della vita, sia
troppo semplice e ‘pacificata’. Come anche sia troppo semplice lo schema “a tre
attori” implicato (élites, ‘moltitudini’, ‘senza-potere’).
Il problema cade nel progetto, e nell’attore che
questo deve attivamente perseguire. E cade, soprattutto, nella dinamica che
insieme deve trasformare la situazione e gli attori stessi, costruendoli come
strumenti del cambiamento nel mentre questo avanza. Un processo rischiosissimo
e probabilmente con tratti di violenza (almeno in qualche fase), che dovrà
portare, come vorrebbe Costa, alla ri-circolazione delle élite (ovvero all’irruzione
dei barbari), ma non senza una caduta. Che non assomiglierà ad una discussione
razionale.
Se si dovrà giungere alla costruzione di un ‘popolo’,
che sia attore collettivo, il suo volto potrebbe essere difficile da guardare. Potrebbe
comparire dove non lo aspettiamo e farsi avanti per azionare il freno di
emergenza[43].
[1] - Vincenzo Costa, “Elite e
populismo. La democrazia nel mondo della vita”, Rubettino 2019.
[2] - Ovvero spostate, cadute da una
data classe sociale ad una percepita come inferiore. Evento che può essere
anche solo temuto per produrre i suoi effetti reattivi, e mobilitare l’angoscia
personale e sociale.
[3] - Con ciò, in questa sintetica
formula, parafrasata dal testo, l’autore delimita anche e con precisione
l’ambito di interesse. È l’ordine concettuale della società che interessa, non
già i funzionamenti che chiama ‘antepredicativi’ (i quali, ad esempio, sono
esplorati con orientamento all’azione dal marxista atipico Jon Elster). La
teoria dell’azione implicita che emerge dal testo è filtrata dalla transizione
di una cognizione ed apertura all’esperienza ritenuta implicitamente (e
socialmente) nei ‘mondi di vita’ alla razionalizzazione via discorso. Si tratta
di un approccio che ricorda abbastanza da vicino la posizione che nel corso
degli ultimi quaranta anni ha gradualmente precisato Jurgen Habermas, in
particolare intorno al suo testo chiave “Teoria dell’Agire Comunicativo”
(Il Mulino 2022, ed.or.1985, da ora sinteticamente TAC). Il problema di questa
concezione è di suggerire che la società sia tenuta insieme dalla condivisione
e disgregata dai conflitti. Per un esercizio, se pur datato, di connessione tra
le prospettive di teoria dell’azione di Elster e di teoria della razionalità
(comunicativa) di Habermas, si veda, Alessandro Visalli, “’Discorso’
e ‘potere’. Intrecciando Habermas con Elster”, CRU. Critica della
ragione urbanistica, n. 7-8, 1997.
[4] - Anche in Habermas, che del resto
su questo punto si riferisce alla tradizione fenomenologica aperta da Husserl,
autore di elezione di Costa, con l’etichetta “mondo vitale” (lebenswelt) si
intende una sorta di supporto passivo, un corpus di conoscenze ed
interpretazioni giudicate ovvie, e spesso neppure presenti alla coscienza, che
possono essere riscattate discorsivamente, nelle diverse situazioni di azione,
una per volta. Con le stesse parole di Habermas: “il
mondo vitale è un serbatoio o uno sfondo di certezze ed evidenze non
problematizzate ma problematizzabili man mano che diventano rilevanti per una
situazione” (TAC, vol II, p.182). Certo, la prospettiva particolare
e l’intera impresa habermasiana è debitrice non solo degli ambienti di
discussione sociologica (Durkheim) e filosofica (Husserl, recepito tramite
G.Brand) ‘continentali’, quanto anche da quelli anglossassoni (Mead) e quindi
si sforza di concepire la società come sistema e al tempo stesso come mondo di
vita (TAC, vol II, p. 174). Uno degli scopi espliciti è di riprendere la
problematica marxiana della reificazione (Lukacs) in termini di teoria della
comunicazione intorno al concetto chiave di ‘forma di intesa’ (verstandigungsform).
Il problema è comprendere “come il mondo di vita, in quanto orizzonte in cui si
muovono ‘già sempre’ gli agenti comunicativi, venga dal canto suo limitato e
modificato dal mutamento strutturale della società” (ivi).
[5] - L’effettiva partecipazione a
‘mondi di vita’ estranei, facendo venire meno le preinterpretazioni condivise
delle sfere del mondo e i relativi sensi, renderebbe in effetti del tutto
impossibile in modo radicale la comprensione. In modo non dissimile da come è
incomprensibile il parlante di un’altra lingua che non potesse neppure
gesticolare. Tuttavia il punto sollevato indica una semi estraneità che rende i
messaggi equivoci o li travisa sistematicamente, in quanto li riferisce a sfere
di senso che si sono autonomizzate.
[6] - Costa, cit., p. 18
[7] - Idem,
[8] - Si veda Pierre Dardot, Christian
Laval, “La
nuova ragione del mondo”, Derive e Approdi, 2009.
[9] - Karl Polanyi, “La
grande trasformazione”, Einaudi 1974 (ed. or. 1944).
[10] - La mossa eleva la concorrenza a principio centrale della
vita sia sociale sia individuale, ma lo fa riconoscendo che l’ordine di mercato
non è affatto un ordine di natura: è il prodotto di una costruzione politica
intrinsecamente storica.
[11] - Cit. in Dardot e Laval, cit., p.
182
[12] - Cit. in Dardot e Laval, cit., p.
196
[13] - Costa, cit., p. 61
[14] - Costa, cit., p. 104
[15] - Rutilio Namaziano, “De reditu”,
cit in Sergio Roda, “Nobiltà burocratica, aristocrazia senatoria, nobiltà
provinciali”, “Storia di Roma”, 3.I, Crisi e trasformazioni, Einaudi,
1993, p.643.
[16] - Costa, cit., p. 117
[17] - Il problema generale della
presenza di déclassé è quello che ha agitato in tutta la sua durata il
movimento socialista, e si può ritrovare in tutti i classici. Il problema è
che, per usare una gergalità marxista, il recupero dall’alienazione può
avvenire solo in modo non alienato, sapendo che esiste una stretta
correlazione tra l’essere degli uomini e il processo reale della loro vita e
che si tratta sempre di rompere insieme le barriere esterne e quelle interne. Se
si muove verso una nuova società questo automovimento non può che essere
determinato dallo stesso processo, per cui le coscienze sono parte integrante e
la loro trasformazione è un necessario esito. Bisogna “levarsi di dosso tutto
il vecchio sudiciume” (Marx), e può avvenire solo nel processo rivoluzionario, sapendo
che “nell’attività rivoluzionaria il mutamento di se stessi coincide col
mutamento delle circostanze” Karl Marx, “L’ideologia tedesca”, Editori
Riuniti, 2018 cit. in. Michael Lowy, “Il giovane Marx”, Massari Editore,
2001, (ed.or. 1970), p. 192.
[18] - Costa, cit. p. 126
[19] - Costa, cit., p. 127
[20] - Jurgen Habermas, “Teoria
dell’agire comunicativo”, cit.
[21] - Costa, cit., p. 130
[22] - Jurgen Habermas, “Teoria dell’agire
comunicativo”, II, cit., p. 210.
[23] - Idem.
[24] - Costa, cit., p. 140
[25] - Gyorgy Lukacs, “Storia e
coscienza di classe”, Tasco 2021, ed or. 1923, pp. 107 e seg.
[26] - Hegel, “Fenomenologia dello Spirito”,
1807
[27] - Emile Durkheim, “La divisione
del lavoro sociale”, 1893
[28] - Georg Simmel “Filosofia del
denaro”, 1900
[29] - Heidegger è convinto che l’idea
moderna della possibilità di una rappresentazione neutrale della realtà sia in
effetti responsabile della cecità ontologica dell’uomo; cosa che gli impedisce
di comprendere le strutture della sua esperienza. Pur senza connetterla ad alcuna
determinante sociale (e tanto meno alla dinamica “del capitalismo”),
l’obiettivo è qui di attaccare e distruggere l’idea di un soggetto che assume
una posizione neutrale rispetto al mondo e lo riduce ad una collezione di
“cose”. L’analisi di fenomenologia esistenziale condotta dal filosofo della
Foresta Nera (collocato all’esatto polo opposto nello spettro politico di
Lukacs) tende quindi a mostrare che l’uomo non si rapporta al mondo
originariamente nella forma di un soggetto conoscente, ma è sempre immerso in
un campo di significati pratici nell’atteggiamento della “cura” (tesi già
presente nel 1927). Il soggetto non si pone in modo neutrale rispetto alla
realtà da conoscere “nella forma dell’apprestare”, dirà, ma è essenzialmente
interessato ad essa. La realtà gli si presenta sempre come qualcosa in cui lui
è, secondo un insieme totale di significati qualitativi, non riducibili a
calcolo.
[30] - Jurgen Habermas, cit., II, p.
427
[31] - Jurgen Habermas, cit., II, p. 466
[32] - Jurgen Habermas, “Verbalizzare
il sacro. Sul lascito religioso della filosofia”, Laterza 2020, ed or. 2012
[33] - Jurgen Habermas, “Verbalizzare
il sacro”, cit., p. 6
[34] - Jurgen Habermas, cit., p. 57
[35] - Idem, p. 93
[36] - Si veda su questo Jurgen Habermas,
“Fatti e norme”, Guerini 1996 (ed. or. 1992).
[37] - Jurgen Habermas, “Verbalizzare
il sacro”, cit., p. 192
[38] - Idem, p. 219
[39] - Idem, p. 219
[40] - Jurgen Habermas, “Teoria dell’agire
comunicativo”, cit., II, p. 463
[41] - Idem, p. 486
[42] - Idem, p. 473, nel criticare la
diagnosi di Marx di avere di fronte, nel capitale, una forma mistificata della
relazione di classe e non già, come sostiene appunto Habermas, un livello
integrativo ‘superiore’ tra economia ed amministrazione e una dinamica con “intrinseco
valore evolutivo” in quanto differenzia sottosistemi guidati dai media. Infine un
“piano superiore” di differenziazione sistemica che dischiude “nuove
possibilità di controllo”.
[43]
- Michael Lowy, “La
rivoluzione è il freno di emergenza. Saggi su Walter Benjamin”, Ombre Corte,
2020 (ed. or. 2019).
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