Il
Tricontinental Institute for a Social Research[1], insieme alla rivista Monthy
Review[2] ed alla piattaforma No
Cold War[3],
hanno elaborato un importante rapporto dal titolo “The United States Is Waging a New Cold War: A Socialist
Perspective”[4]. Il testo contiene un’introduzione di Vijay Prashad,
quindi un articolo dal titolo “Che cosa spinge gli Stati Uniti a incrementare l’aggressione
militare internazionale?” di John Ross, un altro di Deborah Veneziale dal
titolo “Chi sta guidando gli Stati Uniti alla guerra?”, ed infine un articolo
del caporedattore dei Monthly Review, John Bellamy Foster, “Note sull’esterminismo,
per i movimenti per l’ecologia e la pace del XXI secolo”.
È piuttosto difficile riassumere brevemente i
contenuti del testo; all’avvio Prashad ricorda come a maggio del ’22, a Davos, Kissinger
ha invitato ad un accordo pace che soddisfi i russi, invece di scivolare in una
guerra con loro. Più significativamente ricorda una conversazione del 2003 con
un importante esponente del Dipartimento di Stato che candidamente ammetteva
che gli Usa fondamentalmente sono disponibili a far sopportare al mondo (ed ai
propri lavoratori) un “dolore a breve termine”, se questo ha possibilità di
portare ad un “guadagno a lungo termine” (per sé). Tale guadagno si riduce in
sostanza a mantenere quel primato che hanno avuto dalla fine della Seconda
guerra mondiale. In altre parole, essi cercano di impedire con ogni mezzo una
tendenza storica, quella alla integrazione euroasiatica, che minaccia in modo
esistenziale il predominio atlantico. Secondo quanto scrive “Le strategie
per indebolire Russia e Cina includono un tentativo di isolare questi paesi
attraverso l'escalation della guerra ibrida imposta dagli Stati Uniti (come le
sanzioni e la guerra dell'informazione) e il desiderio di smembrare questi
paesi e poi dominarli in perpetuo”.
Venendo ai temi del testo, sinteticamente, John
Bellamy Foster ricostruisce la teoria della “escalation del dominio”
dell'establishment statunitense, da sempre disposto a rischiare l'inverno
nucleare pur di mantenere il primato. Nonostante il numero effettivo di
armi nucleari detenute dalla Russia e dagli Stati Uniti, questi ultimi hanno infatti
sviluppato un'intera architettura di controforza progettata allo scopo di distruggere
le armi nucleari russe e cinesi e quindi polverizzare questi paesi fino alla
sottomissione, senza subire analogo contrattacco. L’idea è di colpire con
precisione e velocità la maggior parte dei vettori di controparte, in un
attacco a sorpresa inaspettato, in modo che i pochi rimasti possano essere
intercettati efficacemente. Questa fantasia letteralmente criminale emerge non
solo nei documenti dei responsabili politici statunitensi, ma occasionalmente anche
sulla stampa popolare, dove si argomenta sull'importanza di un attacco nucleare
contro la Russia. Questa impostazione è ‘esterminista’, nel senso che conduce
necessariamente allo sterminio della civiltà per come la conosciamo e forse a
gran parte della vita sulla terra, a causa dell’inverno nucleare che si determinerebbe
anche in caso di pieno successo della strategia. Ovvero anche in caso che l’attacco
a sorpresa americano distrugga interamente Russia e Cina (uccidendo miliardi di
persone), senza subire neppure un missile in ritorsione. Ci penserebbero russi
e cinesi, ormai sotto forma di cenere, a replicare spegnendo il sole per oltre
venti anni.
Deborah
Veneziale invece scava nel mondo sociale del militarismo negli Stati Uniti,
osservando come le varie fazioni dell'élite politica statunitense si siano
unite per sostenere questa strategia di confronto contro Russia e Cina. Il
mondo intimo dei ‘think tank’ e delle società di produzione di armi, dei
politici e dei loro scrivani, che descrive analiticamente, hanno dimenticato e
superato le protezioni costituzionali dei pesi e dei contrappesi. Ormai c'è
una non contrastata corsa al conflitto, perché le élite statunitensi difendano
il loro straordinario controllo sulla ricchezza sociale globale (il patrimonio
netto combinato dei 400 cittadini statunitensi più ricchi è ora vicino a $ 3,5
trilioni, mentre le élite globali, molte delle quali provenienti dagli Stati
Uniti, hanno accumulato quasi 40 trilioni di dollari nei paradisi fiscali
illeciti).
John Ross, un
membro del collettivo No Cold War, descrive come gli Stati Uniti hanno intensificato
qualitativamente il loro assalto militare al pianeta attraverso il conflitto in
Ucraina. Questa guerra è pericolosa perché mostra che gli Stati Uniti sono
disposti ad affrontare direttamente la Russia, una grande potenza, e che sono
disposti ad intensificare il loro conflitto con la Cina “ucrainizzando” Taiwan. Ciò
che può limitare gli Stati Uniti, sostiene Ross, è solo la resilienza (e
pazienza) della Cina e il suo impegno a difendere la sua sovranità e il suo
progetto, così come il crescente fastidio nel Sud del mondo contro
l'imposizione da parte degli Stati Uniti dei suoi obiettivi di politica estera. La
maggior parte dei paesi del mondo non vede la guerra in Ucraina come il proprio
conflitto poiché sono presi dalla necessità di affrontare dilemmi più ampi dell'umanità. È
significativo che il capo dell'Unione Africana, Moussa Faki Mahamat, il 25
maggio 2022 abbia affermato che l'Africa è diventata “la vittima collaterale di
un conflitto lontano, quello tra Russia e Ucraina”. Il conflitto è lontano
non solo in termini di spazio, ma anche in termini di obiettivi politici dei
paesi dell'Africa, così come dell'Asia e dell'America Latina.
L’escalation militare del sistema politico e
militare-industriale statunitense (che ha investito solo per la guerra ucraina
fino ad ora oltre 50 miliardi di dollari, più quelli che presumibilmente
saranno necessari per ripristinare gli arsenali svuotati) si nota nel cambio di
passo dalle guerre ‘coloniali’ (contro piccole potenze periferiche, come l’Iran,
la Libia, la Serbia,) allo scontro con una o due grandi potenze (come la Russia
e la stessa Cina). Quest’ultima è messa sotto pressione nello Xinjiang e a
Taiwan. Questa seconda linea di provocazioni (tra le quali spicca la visita
della Pelosi) supera una linea rossa che è stata fino ad ora rispettata come
base dei rapporti bilaterali dal 1972.
Due fattori sono indicati da Ross come
determinanti per questo mutamento di politica (che ormai prosegue da venti
anni): il declino relativo dell’economia americana, unito alla prevalenza
crescente dell’industria militare e della relativa spesa. Il primo termine
è enfatizzato dalla prevalenza crescente dell’economia cinese, che in Pil a parità
di potere d’acquisto è già del 20% più grande di quella Usa, mentre la sua
industria è quai un terzo di quella mondiale. Il commercio cinese è del 30%
superiore a quello americano (e ha quasi il doppio delle esportazioni). Anche i
capitali di risparmio vedono i cinesi disporre di una riserva superiore del 60%
a quella americana che cresce ad un ritmo sei volte superiore a quello dei rivali.
Se hanno perso o stanno perdendo il confronto
economico, è evidente, agli Usa resta “la canna del fucile”. L’idea è quindi di
replicare la stagione che vide l’occidente prevalere sul resto del mondo sulla
punta delle sue baionette (che, a loro volta, hanno attivato quella ‘accumulazione
originaria’ la quale ha dato il via alla supremazia industriale[5]). Ciò facendo
leva sulla maggiore spesa militare storica ed accumulata, e quindi su una netta
supremazia nel campo (con l’eccezione della decisiva arma nucleare, nella quale
si pareggia con la Russia, con 1.600 vettori strategici a testa e quasi 6.000
testate complessive).
C’è una cruciale e pericolosissima differenza,
però, tra questa nuova ‘guerra fredda’ e la vecchia: allora gli Usa avevano l’economia
più grande ed efficiente, e una forza militare circa eguale; dunque, era
razionale per loro cercare di non fare la guerra ma spostare la competizione
sull’economia. Oggi è l’inverso: sono in crescente svantaggio economico ma
prevalgono militarmente. Ora spostano il confronto sul piano militare e la
guerra calda non è più impossibile. Ci si sta arrivando per gradi, per ora sono
in opera metodi indiretti, come il dominio dei paesi intermedi (in particolare
dell’Unione Europea o il Giappone), l’estensione di alleanze chiuse (Nato e
Quad), le minacce e pressione per costringere i paesi a non intrattenere
relazioni con la Cina (Isole Salomone, Pakistan, la stessa Australia e molte
altre).
Il punto è che chiaramente nel medio termine la
maggiore dimensione dell’economia cinese, e la sua capacità di concentrare le
forze (sia industriali sia tecnologiche) produrrà una parità anche sul piano
militare, ma ci vorrà un complesso passaggio al guado, tastando le pietre. L’idea
dell’establishment militare e finanziario americano è di coglierla al guado. L’obiettivo
finale indebolirla e frammentarla (come è successo qualche volta nella
millenaria storia cinese). Ovvero ripetere le “guerre dell’oppio”[6].
C’è un ostacolo cruciale, però, in questo piano: mentre
gli Usa attaccano i cinesi che attraversano il guado potrebbero essere colpiti
alle spalle dai russi, che sono oggi l’unica potenza militarmente confrontabile
soprattutto perché capace di una deterrenza nucleare decisiva. Di qui nasce, secondo
Ross, la necessità strategica, semplicissima, della guerra in Ucraina. L’obiettivo
è di indebolire in modo decisivo la Russia (obiettivo dichiarato
esplicitamente), se possibile frammentare la Federazione Russa[7],
facendogli perdere i paesi periferici, e installare un governo filo-Usa che sia
nemico della Cina. A questo punto il paese asiatico sarebbe circondato. Questa
mossa segue al fallimento palese del tentativo di guerra commerciale condotto
dalle ultime amministrazioni (e da Trump).
La guerra è dunque alle porte e la sua posta è
vitale sia per la Russia sia per la Cina. I due paesi ne sono assolutamente
coscienti e questo approfondisce la loro determinazione. Del resto il modo di
condurre le guerre degli americani è notoriamente spietato. Nella guerra di
Corea, ad esempio, furono distrutte tutte le città e l‘85% degli edifici tramite
bombardamenti strategici indiscriminati. Altrettanto fu ripetuto in Iraq, sia
nelle guerre contro Saddam, sia in quelle al tempo del Califfato. I bombardamenti
del Vietnam sono un altro esempio. Sei milioni di tonnellate furono sganciate
in nove anni, ben più della Seconda guerra mondiale (2 milioni) e in Corea (0,5
milioni).
Deborah
Veneziale, nel suo articolo, prende avvio ricordando il “gioco di guerra USA/Cina”
condotto dalla NBC il 15 maggio 2022 in Meet the Press. Un “gioco”
organizzato dal CNAS, un ‘Think thank’ di Washington finanziato dal governo
degli Usa, di Taipei, dalla Open Society, e da società come Raytheon, Loocked Martin,
Northrop Grumman, General Dynamics, Boeing, Facebook, Google e Microsoft.
Nell’analisi condotta dalla giornalista italiana viene mostrato che nell’amministrazione
Biden è avvenuto un cambio di passo, due élite normalmente reciprocamente
ostili, i liberal e i neoconservatori, si sono fusi sulla piattaforma di
politica estera. La grande borghesia americana appoggia tale consenso,
ritenendo che la Cina sia il fondamentale rivale strategico. Terzo, le altre
istituzioni sono neutralizzate dal disegno costituzionale americano e dalla
prevalenza del denaro sulla formazione di carriere e agenda del paese.
La
radice liberal dell’interventismo affonda sullo schema ideologico di Woodrow
Wilson, ripreso da Truman, Kennedy e Johnson. Le radici ideologiche sono la
lotta per la democrazia e l’eccezionalismo americano. La matrice neoconservatrice
interventista nasce invece dal senatore democratico Henry ‘Scoop’ Jackson che
finì per sostenere Reagan e la lotta all’espansionismo sovietico. Dopo la
caduta del 1991, la leadership intellettuale passa a Paul Wolfowitz (un ex
aiutante di Jackson), che enuncia la Defence Policy Guidance, nella
quale è dichiarato che gli Usa devono assumere una posizione di dominio
unipolare. Il modo è circondare la Russia e armare i suoi confini contro di
lei. Questa politica prosegue con i due Bush, Clinton e Obama.
Le
due correnti si differenziavano non tanto rispetto agli obiettivi, il dominio
unilaterale, quanto i mezzi. I falchi liberal prediligevano la condivisione con
gli alleati e l’azione legittimante dell’Onu, i neoconservatori azioni dirette
anche se illegali. Ma sono unite da una intensa rete di pianificazione politica
bipartisan composta da fondazioni senza scopo di lucro, università, think tank,
gruppi di ricerca. Ad esempio come il Council on Foreign Relations (CFR).
E’ questa rete che sostiene una visione del mondo suprematista e nazionalista e
nega il diritto degli altri paesi ad essere coinvolti, o spesso anche solo
ascoltati.
Lo
scontro attuale vede quindi liberal e neoconservatori concordi nel designare
Russia e Cina come nemici immediati, mentre i “realisti” continuano a proporre
di affrontarne solo uno (la Cina). In questo quadro Trump ha fatto in parte
eccezione, appoggiandosi sui “realisti”, promuovendo gli interessi a breve
termine della piccola borghesia e media, e avviato alcuni ritiri (Siria,
Afghanistan poi completato da Biden). Tuttavia ha promosso lo scontro con la
Cina (la differenza è che voleva attenuare quello con la Russia, separandoli).
Il
ritorno del consenso sul confronto immediato ha portato ad una politica che
riassume così:
· rafforzare
la leadership degli Stati Uniti sulla NATO, utilizzando l'alleanza militare
(piuttosto che l'ONU) come meccanismo principale per l'intervento straniero;
· provocare
un cosiddetto avversario della guerra rifiutando di riconoscere la sua pretesa
di sovranità e sicurezza su regioni sensibili;
· pianificare
l'uso di armi nucleari tattiche e condurre una ‘guerra nucleare limitata’
all'interno o intorno al cosiddetto territorio dell'avversario; e
· imporre
una guerra ibrida al fine di indebolire e sovvertire l'avversario attraverso
misure coercitive unilaterali e combinare sanzioni economiche con misure
finanziarie, informative, propagandistiche e culturali insieme a una
rivoluzione colorata, guerra informatica, legalità e altre tattiche.
Disaggregando
i centri di influenza entro il sistema americano l’autrice propone di considerare
che il surplus dell’industria statunitense dipende dallo sfruttamento della
manodopera relativamente efficiente ed a basso costo cinese, mentre i prodotti
americani sono venduti molto poco in Cina e, soprattutto, i cruciali prodotti
del settore informatico e tecnologico/comunicazioni (che domina l’ecosistema
del capitalismo americano) non possono penetrarvi e quindi spingono per un
cambio di regime che gli apra il mercato. Stesso atteggiamento e per le stesse
ragioni ha il potentissimo sistema finanziario. I pochi che parlano contro, in
favore dei rapporti economici con la Cina (Bloomberg, McKinsey, Ray Dalio),
sono sistematicamente intimiditi e ostracizzati. Un altro oppositore è il Cato
Institute, un influente ‘think thank’ di estrema destra libertaria, ma è
attualmente largamente emarginato.
Insomma,
la battuta di Marx sui capitalisti come “banda di fratelli di guerra” è sempre
più appropriata.
Infine
John Bellamy Foster ricorda lo studio del 1983[8] sull’ “inverno nucleare”
che seguirebbe ad uno scambio termonucleare. Lo scambio produrrebbe infatti un
mega-incendio di centinaia di città e questo innalzerebbe nell’atmosfera
fuliggine, bloccando la radiazione solare. Si avrebbe un abbassamento di
parecchi gradi (o decine di gradi) e nel giro di un mese sarebbero annientate gran
parte delle specie vegetali e animali (incluso la nostra). Una notevole
controversia e numerosi tentativi di minimizzazione sono seguiti a questa
ipotesi, perché il modello prediceva che anche in caso di perfetto successo del
“primo colpo” con totale distruzione dell’avversario, ormai ridotto in cenere,
questa si sarebbe sollevata per trarre vendetta sul vincitore. I pianificatori
della corsa agli armamenti nucleari, e relative guerre, minimizzano quindi per
interesse. Ma ancora nel 2007 un articolo[9] sul “ritorno” dell’inverno
nucleare, ha aggiornato i modelli, confermando questa tesi anche a livelli di scambio
nucleare più bassi.
Il
riassunto è questo:
“Gli
studi più recenti, motivati in parte dalla proliferazione nucleare, hanno
dimostrato che un'ipotetica guerra nucleare tra India e Pakistan combattuta con
100 bombe atomiche da quindici chilotoni (dimensioni di Hiroshima) potrebbe
produrre vittime dirette paragonabili a tutte le morti della Seconda guerra
mondiale, in oltre alle vittime e alle sofferenze derivanti dalla carestia
globale a lungo termine. Le esplosioni atomiche accenderebbero
immediatamente tempeste di fuoco da tre a cinque miglia quadrate. Le città
in fiamme rilascerebbero circa cinque milioni di tonnellate di fumo nella
stratosfera, facendo il giro della Terra entro due settimane, che non potrebbe
essere rimosso dalle piogge e potrebbe rimanere per più di un decennio. Bloccando
la luce solare, ciò ridurrebbe la produzione di cibo a livello globale dal 20
al 40 percento. Lo strato di fumo stratosferico assorbirebbe la luce
solare calda, riscaldando il fumo a temperature vicine al punto di
ebollizione dell'acqua, con conseguente riduzione dello strato di ozono dal 20
al 50 percento vicino alle aree popolate e generando aumenti di UV-B senza
precedenti nella storia umana, in modo tale che gli individui dalla pelle
chiara potrebbero ottenere gravi scottature solari in circa sei minuti e i livelli
di cancro della pelle andrebbero fuori classifica. Nel frattempo, si stima
che fino a 2 miliardi di persone morirebbero di fame”[10].
Invece
uno scambio termonucleare globale massivo, che coinvolgesse le principali
potenze, potrebbe portare in atmosfera da 150 a 180 milioni di tonnellate di
fuliggine e fumo nero che rimarrebbero in atmosfera per 30 anni e impedirebbero
al 70% della radiazione di arrivare. Il sole di mezzogiorno sembrerebbe la luna
piena di mezzanotte. Si tornerebbe in era glaciale, senza precipitazioni e
crescita delle piante, per un decennio. Difficile immaginare che cosa possa
sopravvivere fuori di un bunker molto, molto attrezzato e relative serre con
luce artificiale. Il mondo futuro sarebbe completamente brullo, privo di
biodiversità, spopolato. Ignorando questi avvertimenti la dottrina nucleare
americana, al contrario di quella russa e cinese che prevedono solo il
contrattacco difensivo, ha cercato negli ultimi decenni di superare il MAD
(Mutual Assured Destruction), sviluppando un “primato nucleare” che gli dovrebbe
consentire di distruggere a terra le forze del nemico ed il suo intero
territorio, fermando la replica[11].
La
cosa viene da lontano, nell’ultimo anno dell’amministrazione Carter Washington
convinse la Nato a installare in Europa i missili da crociera Pershing II come
armi di controforza dirette all’arsenale nucleare russo. Linea che proseguì con
Reagan con Star Wars (un sistema missilistico antibalistico completo in grado
di difendere la patria degli Stati Uniti). Poi successivamente evoluto, ma
senza ottenere mai il risultato di sicurezza voluto[12]. Naturalmente le armi per
decapitare la capacità nemica dovevano essere di alta precisione.
Con
la caduta dell’Urss e soprattutto al tempo di Eltsin gli Usa hanno quindi cercato
di ottenere finalmente la capacità di “primo attacco”[13]. Nel 2006 sembravano sul
punto di riuscirvi[14]. A tal fine mettere armi
strategiche vicino ai confini ha notevole importanza, ma anche i sistemi
antimissile, posti vicino ai punti di lancio aumenterebbe la cruciale capacità
di intercettazione della replica. Ottimisticamente sembrava che sia la Cina e
pure la Russia fossero completamente neutralizzate. Aiutò anche la firma del
trattato Start ed il ritiro unilaterale da quello sulle forze nucleari a raggio
intermedio, dal Trattato cieli aperti.
Da
qui nasce lo sforzo russo, con ingenti investimenti che si sono fatti sentire negativamente
nella modernizzazione di massa delle forze di terra, di sviluppare capacità di
replica non intercettabile[15]. Negli ultimi anni sia la
Cina sia la Russia hanno perciò sviluppato tecnologie ipersoniche avanzate in
grado di manovre areodinamiche non prevedibili. È il caso del russo Kinzhal
(Mach 10) e Avangard (Mach 27). Inoltre stanno sviluppando armi antisatellite[16] per accecare il nemico.
Ma
la minaccia di distruzione nucleare è più di una strategia finale. In un
articolo del 1982 Paul Sweezy e Harry Magdoff hanno mostrato che gli Usa
utilizzano la minaccia nucleare per ottenere diretti scopi imperiali immediati[17]; Ellsberg elencò a tal
fine 25 casi dal 1945 al 1996[18]. In pratica ed in tal
senso l’uso della guerra nucleare come minaccia è pienamente integrata nella
strategia degli Stati Uniti; nel gioco del “pollo nucleare” il giocatore più
aggressivo è atlantico.
Lo
stesso scenario ucraino viene da lontano, Brzesinski in “The grand
chessboard”[19]
ha identificato lo “scacco matto” nel portare l’Ucraina nella Nato, cosa che a
suo parere avrebbe segnato la fine della Russia come grande potenza e la sua
disgregazione. Di qui la sfida di Putin nel 2007 e il vertice di Bucarest della
Nato nel quale, nel 2008, si dichiara la prossima ammissione dell’Ucraina. Infine
il colpo di stato del Maidan, nel 2014, mette il paese nelle mani di forze
ultranazionaliste di destra e provoca la risposta russa in Crimea. Seguono la repressione
delle popolazioni filorusse e la guerra civile con 14.000 morti (di tutte le
parti) nel Donbass. Al febbraio 2020 la cosa era alle ultime battute, il
governo ucraino aveva ammassato 130.000 soldati per riprendere il Donbass e
stava sparando su Donetsk e Luhansk (cosa che continua a fare).
Le
linee rosse proposte dalla Russia, più volte dichiarate, erano state tutte superate
e si è arrivati quindi alla desiderata (da parte Usa) guerra diretta. Il secondo
passo sarà in Cina, e sarà presto.
Dunque,
come conclude l’editore di Monthly Review:
“Oggi
ci troviamo di fronte a una scelta tra l' esterminismo e
l' imperativo ecologico umano[20] . L'agente
causale nelle due crisi esistenziali globali che ora minacciano la specie umana
è lo stesso: il capitalismo e la sua ricerca irrazionale per aumentare
esponenzialmente l'accumulazione di capitale e il potere imperiale in un
ambiente globale limitato. L'unica risposta possibile a questa minaccia
illimitata è un movimento rivoluzionario universale radicato sia nell'ecologia
che nella pace che si allontana dall'attuale distruzione sistematica della
Terra e dei suoi abitanti e verso un mondo di sostanziale uguaglianza e
sostenibilità ecologica: vale a dire, il socialismo”.
[4] - https://thetricontinental.org/the-united-states-is-waging-a-new-cold-war-a-socialist-perspective/
qui su YouTube https://www.youtube.com/watch?v=Kqo-1bx4PBY
[5] - E’ troppo lungo, e fuorviante,
argomentare qui compiutamente questa linea interpretativa, ma è il dominio
commerciale, fondato sul predominio militare e navale, ad aver concentrato sui
centri via via spagnoli, portoghesi, olandesi, francesi e inglesi quell’immane
flusso di merci e uomini (schiavizzati) sui quali si è fondata dal ‘500 in poi
la trasformazione di una periferia del mondo, quale era sempre stata l’Europa
dopo il crollo dell’Impero romano, nel centro manifatturiero e dei capitali.
[6] - Due successive guerre nel XIX
secolo, la prima condotta dagli inglesi, la seconda da una larga coalizione
occidentale, per costringere la Cina dei Qing ad aprire il paese al commercio
occidentale e annullare le restrizioni verso la droga.
[7] - Nel discorso di Putin del 21
settembre, quello della mobilitazione parziale, questi ha dichiarato “Lo scopo
di questo Occidente è indebolire, dividere e infine distruggere il nostro
Paese. Stanno già dicendo direttamente che nel 1991 sono stati in grado di
dividere l'Unione Sovietica, e ora è giunto il momento per la Russia stessa,
che dovrebbe dividersi in molte regioni e regioni mortalmente ostili tra loro”
(cfr. https://www.ng.ru/editorial/2022-09-21/2_8545_red.html
).
[8] - Stephen Schneider, “Whatever Happened to Nuclear Winter?,” Climatic Change 12 (1988): 215; Matthew R. Francis, “When
Carl Sagan Warned About Nuclear Winter,” Smithsonian Magazine, November 15, 2017; Carl Sagan and Richard Turco, A Path Where No Man Thought: Nuclear Winter and the End of the Arms Race (New York: Random House, 1990), 19–44. E, a seguito
di una lunga controversia Malcolm W. Browne, “Nuclear Winter Theorists Pull
Back,” New York Times, January 23, 1990.
[9] - Emily Saarman, “Return of Nuclear Winter,” Discover, May 2, 2007
[10] - Starr, “Turning a Blind Eye Toward Armageddon,” 4–5; Alan
Robock, Luke Oman, and Geeorgiy L. Stenchikov, “Nuclear Winter Revisited with a
Modern Climate Model and Current Nuclear Arsenals: Still Catastrophic
Consequences,” Journal of Geophysical Research 112 (2007) (D13107): 1–14.
[11] - Keir A. Lieber and Daryl G. Press, “The Rise of U.S. Nuclear
Primacy,” Foreign Affairs (2006), 44.
[12] - Steven Pifer, “The Limits of U.S. Missile Defense,” Brookings
Institution, March 30, 2015
[13] - Richard A. Paulsen, The Role of U.S. Nuclear
Weapons in the Post-Cold War Era (Maxwell Air Force Base, Alabama: Air
University Press, 1994), 84; Michael J. Mazarr, “Nuclear Weapons After the Cold
War,” Washington Quarterly 15, no. 3 (1992): 185, 190–94; Zbigniew
Brzezinski, The Grand Chessboard (New York: Basic Books, 1997), 46.
[14] - Keir A. Lieber e Daryl G. Press "The Rise of US Nuclear
Primacy", Foreign Affairs, 43-50, 2006
[15] - Alexey Arbatov, “The Hidden Side of the U.S.-Russian
Strategic Confrontation,” Arms Control Association, September 2016; Brad
Roberts, The Case for U.S. Nuclear Weapons in the 21st Century (Stanford: Stanford University Press, 2015).
[16] -. Sankaran, “Russia’s Anti-Satellite Weapons.” The development
of “countermeasure” strategies and technologies to elude counterforce attack on
a nation’s nuclear deterrence is emphasized by Russia and China, given the U.S.
lead in counterforce. See Lieber and Press, “The New Era of Counterforce,”
46–48.
[17] - Magdoff and Sweezy, “Nuclear Chicken,” 3–6, Monthly
Review
[18] - Ellsberg, The Doomsday Machine, 319–22, Monthly Review
[19] - Brzezinski, The Grand Chessboard, 46, 92–96, 103.
[20] - Thompson, Beyond the Cold War, 76.
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