Sulla
rivista “La Fionda”, numero 2/2022, dal titolo “Guerra o pace. Destini del
mondo” è uscito un mio articolo su una logica dell’attuale guerra (non l’unica,
ovviamente, ma una delle più pertinenti). L’intero numero della rivista esplora
le altre ragioni, ed inquadra la crisi ucraina nei suoi plurimi e molteplici
contesti. Sono presenti interventi autorevoli, come quello di Carlo Galli che
apre il testo “Geopolitica come critica”, o interventi di Alessandro Somma “Si
scrive europeismo ma si legge atlantismo”, di Marco Baldassari “Imperi, Stati e
grandi spazi”, Paolo Cornetti “Stati Uniti d’America: l’impero minacciato”. O
altri, nella sezione Geopolitica e Geoeconomia, che si apre con il mio testo,
di Pierluigi Fagan “La transizione dell’ordine mondiale nell’era complessa”,
Matteo Bortolon “Sanzioni come una nuova forma di guerra” e Marcello Spanò “Il
sistema finanziario dollarocentrico alla prova del conflitto in Ucraina”.
Infine Onofrio Romano, “Tina al Sud” e Silvia d’Autilia e Mario Cosenza, “Sguardi
sul presente tra biopolitica e spettacolo”.
Questo
solo per dire di alcuni interventi, non necessariamente i principali.
Quello che segue è la versione lunga dell'articolo, quella pubblicata è di un terzo più sobria.
Alessandro Visalli
“La
guerra necessaria.
Logiche della dipendenza”
La
guerra sollecita sentimenti di morte e gratifica le virtù meno virtuose, esalta
il coraggio meramente fisico, sollecita il nazionalismo. La nostra civiltà,
come è accaduto in altre crisi, sta retrocedendo rapidamente (uso questa parola
che evito sempre perché qui è appropriata in senso tecnico) a stati spirituali
ed emotivi che si credevano erroneamente passati, quando erano solo sopiti
perché non necessari. Anche se lascia senza parole, tutto ciò non accade per
caso: appena la posizione dei nostri sistemi economici nella catena del valore,
o, per dirlo meglio, nella catena dello sfruttamento e dell'estrazione di
valore mondiale è stata sfidata, e ciò si è fatto urgente[1], allora abbiamo
immediatamente dismesso l'abito del mercante per prendere dagli antichi armadi
quello del guerriero e tutta la sua epica. Non appena i nostri privilegi, la
possibilità di avere i nostri agi e i nostri giocattoli con poche ore di lavoro
(mentre i fattori con i quali sono prodotti derivano da tantissime ore di altri
umani meno umani) è stata messa a rischio allora è uscito lo spirito vero
dell'Europa. Il pirata Drake, fatto baronetto e poi divenuto parte della
schiatta dominante; i tanti avventurieri senza scrupoli ma con tanto coraggio
che hanno piegato il mondo; la corazza di Cortez, ... Tutto è tornato, anche la
nausea.
Fino a ieri, sicuri che il ‘dolce
commercio’[2]
avrebbe portato con sé attraverso la spinta interna del consumo l'allineamento
del mondo agli standard dell'occidente e garantito quindi il relativo dominio
di fatto, erano i paesi guida anglosassoni (e gli Usa in primis) a spingere
sull’interconnessione. L’idea era di considerare la “modernizzazione”[3] compiuta storicamente, ed
in innumerevoli conflitti, dalle società europee nel torno di anni tra il XV ed
il XIX secolo come una “tappa”[4], storicamente necessaria,
dei “progressi”[5]
della “Ragione”[6]
che porta con sé il necessario -biunivocamente connesso- sviluppo delle forze
produttive. Nessuno sviluppo autentico è quindi considerato possibile,
né civile e morale, né produttivo ed autosostenuto, senza che si aderisca a
questo movimento ineluttabile e progressivo, irreversibile, scritto nella
“Storia”[7], e del quale l’Occidente
rappresenta il modello e l’alfiere. Questa costellazione di idee, nelle quali è
incorporata la mente di ogni “buon” cittadino occidentale, democratico e
progressista, sicuro della propria superiorità e del destino manifesto che
aspetta il mondo intero quando lo riconosca, è sfidata oggi dalla direzione che
stanno prendendo i fatti.
Bombardamento di Belgrado, 1999 |
Ci
sono molte chiavi possibili per comprendere questo fenomeno. Una risale allo
scontro di potenza (ovvero tra “grandi potenze”[8]) che ha un sapore
novecentesco inconfondibile. Per chiamare un testimone non sospettabile di
amicizia con il nemico, Chas Freeman[9] ha recentemente dichiarato[10] che la guerra tra Ucraina
e Russia assomiglia alle guerre per procura tra i blocchi della guerra fredda, come
quella del Vietnam o dell’Afghanistan, dove una parte era impegnata e si
logorava e l’altra operava in modo indiretto. La parte che agiva tramite il
procuratore, fino al suo ultimo uomo, non aveva alcun interesse a porvi fine.
In questo caso Washington ha costantemente soffiato sulla brace fino a che è
divampato il fuoco. Come scrive nel suo articolo, ha “trascorso gli ultimi otto
anni ad addestrare ed equipaggiare le forze ucraine per combattere la Russia e
i separatisti a Donetsk e Lugansk. Ha sostenuto con forza la resistenza ucraina
all’aggressione russa, suggerendo al contempo che potrebbe opporsi a un accordo
ucraino con Mosca, che considera troppo favorevole alla Russia”. Insomma, “queste
politiche non mirano a produrre una pace. Mirano a sostenere la guerra finché
ci sono ucraini disposti a morire in combattimento con i russi”. Dunque, in
sintesi, “nella guerra in Ucraina, abbiamo appena assistito alla fine del
periodo successivo alla Guerra Fredda, alla fine del secondo dopoguerra e
all’era di Bretton Woods, alla fine della pace in Europa e alla fine del
dominio globale euro-americano. Le sanzioni ora divideranno il mondo in
ecosistemi in competizione per finanza, tecnologia e commercio. Difficilmente
possiamo immaginare le implicazioni di una tale trasformazione.”
Guardando
invece la cosa dal punto di vista russo per il politologo russo Dmitrij Trenin[11] la guerra per procura con
gli Stati Uniti è da inserire in un complessivo processo di cambiamento
dell’ordine mondiale che vede il baricentro di attività economica spostarsi
dall’Euro-Atlantico all’Indo-Pacifico. In questa crisi si sta abbandonando
l’eredità di Pietro il Grande, ovvero il desiderio Russo di essere parte
integrante della civiltà paneuropea che è andato avanti sino al “primo”
Putin (il quale chiese di entrare nella Ue e nella Nato). Il fallimento di
questi tentativi deriva però dal semplice fatto che “gli edifici europei sono
stati costruiti ed occupati sotto la protezione degli Stati Uniti, e non della
Russia”. Questa, come dice, “non è colpa di nessuna delle parti. È impossibile
per il collettivo occidentale incorporare una scala così ampia nella sua
comunità senza minare le sue fondamenta strutturali; ampliare le fondamenta
significherebbe rinunciare alla sua posizione egemonica” (questa è la frase
chiave, sulla quale torneremo nel seguito).
E’
sempre più evidente che i paesi ‘non bianchi’ (secondo la razzistica tassonomia
implicita, e talvolta non solo, occidentale[12]) emergono alla
consapevolezza che la pluralità di civiltà esistenti ha pieno diritto di
considerarsi alla pari con quella occidentale. Le civiltà cinese, indiana e
islamica si stanno quindi alzando e rifiutano la visione gerarchica lungo il
maggiore o minore ‘avanzamento’, o ‘modernità’[13]. Di fronte a questa
contrapposizione, anche culturale, la guerra ibrida[14] in corso nasconde e
manifesta ad un tempo grumi concreti di interesse, di classe e di gruppo. Specificamente
l’interesse dell’Occidente (anzi, di uno degli occidenti) a conservare la sua
capacità di aspirare dal mondo il surplus, tramite il commercio ineguale e
tramite l’interconnessione finanziaria, e sostenere in tal modo un tenore di
vita che eccede quello del resto dell’umanità. Interessi che sono per questo
accuratamente nascosti sotto più strati sovrapposti di ideologia e di
sentimenti apparentemente umani.
Perché,
però, Trenin dice che è impossibile per il collettivo occidentale incorporare
una scala così ampia nella sua comunità senza minare le sue fondamenta
strutturali in quanto ampliare le fondamenta significherebbe rinunciare alla
sua posizione egemonica? Uno schema analitico[15] proposto a partire dagli
anni cinquanta del novecento (con antesignani negli anni venti e trenta) e poi
sommerso negli anni novanta dalla fine della guerra fredda può fornire qualche
indizio. Esso individuava nella “metropoli” una tendenza alla concentrazione e
sottoinvestimento tenuta a tratti sotto controllo da specifiche
‘controtendenze’ le quali coinvolgono le “periferie”. Le principali nel secondo
dopoguerra furono la guerra fredda (con l’espansione del sistema
militare-industriale e i corposi investimenti pubblici connessi),
l’esportazione di capitale per sfruttare lavoro e materie prime a basso prezzo,
e la cetomedizzazione[16], che contribuì a spegnere
le tensioni politiche create dalle numerose ‘periferie’ interne. La nozione di
‘periferia’ e di ‘centro’ (o “metropoli”) era una delle chiavi più importanti
ed anche una delle più delicate della teoria e viene ripresa spesso nel
dibattito contemporaneo.
Uno
dei punti chiave era che il dirottamento del surplus su spese improduttive (il
cui massimo esempio è in quelle militari), lungi dall’essere uno spreco ed una
distorsione, diventa una necessità sistemica che serve nel breve termine ad impedire
la stagnazione per impossibilità di ‘realizzo’ del capitale. Dunque, sempre nel
breve termine, esso rende possibile la prosecuzione dell’accumulazione. Le
merci e i servizi prodotti, infatti, nelle condizioni monopolistiche hanno una
strutturale difficoltà a trovare collocazione in un mercato interno reso debole
dall’eccesso di estrazione di surplus e di concentrazione dei profitti e dei
capitali. Ne deriva la tendenza alla successione di fasi di espansione e
destabilizzazione, e di conseguente l’insorgere ciclico di fasi di disordine
sistemico (anche politico), che caratterizzano la fisiologia del sistema
capitalistico esteso.
La tesi, avanzata già alla fine degli anni
Quaranta, era che le ‘ragioni di scambio’[17]
tra paesi sviluppati e non tendono, nel lungo periodo, a sfavorire i paesi
esportatori di prodotti primari in favore di quelli che esportano prodotti manifatturati.
È la debolezza relativa del mondo del lavoro nelle periferie a determinare
questo effetto, per il quale i prodotti industriali contengono, a parità di
prezzo, molto meno lavoro e meno fattori (energia, materia) di quelli con i
quali sono scambiati. Di qui la prescrizione classica di procedere ad
un’industrializzazione forzata. La prescrizione economica
principale di tutte le diramazioni della teoria è la cosiddetta “disconnessione”[18]. Ovvero, partendo dal
riconoscimento dell’esistenza di una ‘metropoli’ sfruttatrice e di una
‘periferia’ sfruttata, della necessità di sviluppo industriale autonomo e della
‘sostituzione delle importazioni’[19]. Una prescrizione per
molti versi semplicistica che è fallita ovunque non erano presenti le
condizioni di forza (ma non ovunque).
La
mondializzazione e l’Ordine Mondiale a guida occidentale (dell’Occidente
collettivo) emerse proprio dopo la decolonizzazione e gli sforzi falliti di “sostituire
le importazioni”; molti paesi ex coloniali a quel punto avevano infrastrutture
ed erano disponibili ad avviare cicli di industrializzazione molto più solidi.
I capitali (anche quelli riciclati dal saccheggio dell’est) vennero quindi
proiettati nelle ex periferie con maggiore impeto ed esplose in pochi anni l’esercito
di riserva mondiale. La base produttiva si sparpagliò in tutte le aree di
minore resistenza. Nel modello che si affermò la domanda era, peraltro, ormai garantita
dalla fluidità ed estensione dei mercati e dal meccanismo delle “bolle”. Nacque
così il sistema della “sostituzione delle esportazioni”, fragile e
basato sulla liquidità, che da allora deve correre sempre più forte per restare
sostanzialmente fermo. In questo contesto in via di formazione, dalla metà degli
anni Ottanta, a Birmingham la “banda dei quattro” (Immanuel Wallerstein,
Giovanni Arrighi, André Gunder Frank e Samir Amin) elaborò la “teoria dei
sistemi mondo”. Il focus analitico si spostò dagli stati-nazione al sistema
globale. Negli anni Novanta la teoria si consolidò. Venne proposta da Giovanni
Arrighi una teoria dei cicli egemonici[20] non economicista, che
individua come fattore principale il “vantaggio posizionale” e lo scontro tra
due tecnologie del potere reciprocamente estranee: una ‘capitalista’ ed
una ‘territorialista’. Lo schema analitico postulava l’esistenza di grandi
cicli di accumulazione, composti idealtipicamente da una fase di espansione
produttiva seguita da una fase terminale finanziaria, che si intrecciano a
cicli di egemonia in cui un “centro” si impone a tante “periferie”, creando ogni
volta un sistema funzionalmente interconnesso. Quando i cicli vanno ad
esaurimento la soluzione delle contraddizioni avviene tramite la
riorganizzazione dello spazio politico-economico mondiale da parte di un nuovo
Stato capitalistico egemonico che ha un diverso e più efficace modello. Nel
complesso si passa quindi da un modello fondato sulla trasformazione DTD’ ad
una TDT’, passando da un’instabilità all’altra nella ricerca di “terre vergini”,
nel senso di sfruttabili.
Secondo
le ‘teorie della dipendenza’, che pure hanno andamento plurimo e notevoli
divergenze interne, insomma, il capitalismo è un movimento che genera sempre
una dialettica spaziale internamente connessa con la lotta di classe. Crea
e vive di squilibri. Ne deriva una tendenza interna a trovare sempre nuovi
sbocchi alle eccedenze di capitale che generano i “centri” (monopolistici)[21]. Ma questo determina una
cronica instabilità e genera instancabilmente dipendenze. La geopolitica del
capitalismo crea quindi costantemente e necessariamente economie subalterne, e
quelle che Harvey chiama “coerenze strutturate incomplete” (appunto
perché dipendenti). Contemporaneamente genera e sostiene alleanze di classe
nelle quali quelle superiori sono di necessità estese a livello
internazionale. Quindi crea costantemente colonialismo (esterno ed interno) ed
imperialismo. Il punto è che questo movimento a spirale, oltre ad essere
costantemente a rischio di crollo, non è autoequilibrante ma favorisce la
concentrazione delle risorse nelle aree forti ed effetti di riflusso su quelle
di provenienza. Per questa ragione la geopolitica del capitalismo è sempre alla
ricerca di meccanismi nuovi di assorbimento (impiego) del surplus e dello
sfruttamento di una classe e di un territorio sugli altri. Questa ricerca,
parossistica, di ‘soluzioni’ spaziali attiva il circolo vizioso della
competizione sulla scala globale ed espone il mondo al costante rischio di
precipitare nella violenza (anzi, è in se stesso violenza potenziale,
trattenuta e minacciata).
E’
importante sottolineare che la tendenza intrinseca del capitalismo a generare
scontri tra aree e dipendenze “coloniali” non è una questione di disposizione
morale, ma una necessità. Non è un complotto ma un funzionamento. L’accumulazione
del capitale è, infatti, in buona misura una questione geografica. Il problema
è che, nel quadro di questa teoria, l’interconnessione delle dinamiche di
espansione e contrazione produce oggi l’esaurimento della soluzione (alle crisi
degli anni Sessanta e settanta) della finanziarizzazione e poi mondializzazione
e quindi l’accelerazione di una transizione in corso da molto tempo.
Transizione che è cresciuta all’ombra della fase ‘unipolare’ (quando l’egemone
statunitense si è progressivamente mutato in dominatore) fino ad emergere negli
ultimi anni con la doppia sfida della Cina e della Russia (e degli altri).
Assistiamo perciò all’emergere di nuove potenziali costellazioni di potenza, e
di una nuova egemonia possibile, che determina aree di crisi ad elevato rischio
di perdita di controllo. Perdita di controllo che oggi abbiamo sotto i nostri
occhi, quando la ‘violenza trattenuta e minacciata’ tende ad uscire dalle
caserme.
Più concretamente, l’esaurimento, da
vedere come perdita di equilibrio, del ciclo del debito sembra imminente. Le
istituzioni finanziarie pubbliche, sulle quali da tempo è caduto il peso di
salvare il sistema dal quale dipendono per intero le élite e buona parte dei
sistemi sociali e territoriali del mondo, fanno crescente fatica a garantire la
liquidità. Sempre nuove invenzioni sono messe sul tappeto e sempre meno tempo è
in tal modo “comprato”[22].
Tutto ciò è stato enormemente accelerato dalla crisi pandemica[23]. Dall’altra parte sono in
corso potenti riarticolazioni del modo di produzione stesso[24]. Si tratta di un
livello sotterraneo, ma decisivo, di tensione che spinge per mutamenti radicali
a causa della difficoltà alla riproduzione del capitale, dei crescenti rischi
di controllo, della dinamica interna della tecnoscienza. Tutte queste forze
convergono nel mutamento accelerato della piattaforma tecnologica[25] e quindi delle
strutture della vita quotidiana di molti. Queste tendenze di crisi, che possono
essere lette con le lenti della “teoria della dipendenza”, si legano agli
effetti depositati dalla lunga fase neoliberale. Precisamente alla ridislocazione
in occidente del lavoro di massa verso settori a basso valore aggiunto, e
quindi deboli ed a più elevato tasso di sfruttamento ed alla concentrazione
crescente dei guadagni di ricchezza su sezioni sempre minori della popolazione,
avvantaggiate dalla propria posizione nei flussi di valore e nei luoghi ‘densi’ che li
organizzano.
La guerra tra la Russia e l’Ucraina
aggiunge un’ulteriore dimensione a questa consapevolezza e sta spingendo tutte
le parti del mondo a richiedere improvvisamente “indipendenza”, piuttosto che
efficienza e rapidità.
Ciò
che accade ha portata storica. Alcuni mesi fa il
vicepresidente del Consiglio di sicurezza della Federazione Russa, il
filoccidentale ma fedelissimo di Putin ex Presidente ed ex Primo ministro fino
al 2020 Dmitrij Anatol'evič Medvedev, ha dichiarato sulla stampa russa che le
sanzioni (congelamento delle riserve, misure sui capitali privati all’estero,
esclusione dallo Swift) violano la sacralità della proprietà privata e lo stato
di diritto, apparentemente cari all’occidente, e dunque manifestano una ‘guerra
senza regole’ che ‘distruggerà tutto l’ordine economico mondiale’. Lo
distruggerà (anzi, lo ha già distrutto) perché queste misure colpiscono
principalmente la credibilità stessa di chi le promuove, stracciando leggi e
regolamenti, con ciò mostrando la natura del potere. Determinano l’arrivo di un
nuovo “Ordine finanziario mondiale” nel quale chi non è credibile non avrà più
voce in capitolo. Chi farebbe patti con un baro? La risposta russa a questa
mossa è stata di tentare di capovolgere il principio di base
denaro-per-merci. L’idea è di connettere merci di base, petrolio, gas
naturale, materie prime minerarie e oro, al rublo. La guerra valutaria
lanciata contro la Russia, fondata sull’inibizione della liquidità in modo
che sia inibita sia la funzione di riserva di valore, sia quella di mezzo di
scambio della moneta internazionale detenuta dal sistema economico russo, viene
tradotta da questa mossa (alla quale lavora la Banca centrale Russa e la
diplomazia economica altamente attiva verso i paesi ‘non allineati’, che
crescono ogni giorno) in guerra di merci e monete. Ovvero in un
confronto a tutto campo tra ‘merci’ cruciali e monete sovrane ad esse ancorate.
Se l’Occidente ha la sua valuta finanziaria, il ‘non-occidente’ (che si genera
per negazione direttamente dalla logica della ‘crociata’ politico culturale
altamente autolesionista avviata dai neocon americani negli anni Novanta ed ora
fatta propria dai democrat al potere[26]) ha le merci di base e anche
la capacità di trasformazione. Da tempo, infatti, le basi industriali di tutte
le filiere mondiali non sono più in Occidente e questo fa tutta la differenza.
Allora, chi ha paura di chi? Chi punisce chi? Chi ha ucciso il cervo? Si
chiede Zhang Weiwei (docente di economia al Fudan e presidente del China
Research Institute) su Guancha[27].
Chiaramente,
la rivoluzione contro l’Ordine valutario americano[28],
lanciata in questo modo, deve vedere necessariamente la partecipazione della
Cina stessa, che è ormai la più grande economia mondiale (a parità di potere di
acquisto, ovvero in termini di beni reali), il più grande commerciante di beni
e il più grande mercato di consumo e investimento. E’ del tutto chiaro che
avendo perso tutti questi primati gli Stati Uniti sono in una posizione di
fragilità.
Questa
considerazione mostra con precisione la posta della guerra e anche la ragione
della disperata determinazione americana (e dei suoi clienti e subalterni).
Si
tratta, niente di meno che di tradire il principio cardine dell’Ordine
finanziario esistente per il quale la liquidità va sempre protetta. Ovvero
il principio per il quale va sempre garantito, costi quel che costi, che sia
sempre possibile la convertibilità incondizionata tra moneta e credito (per cui
qualsiasi credito sia sempre rilevabile a richiesta in moneta). Questo è quel
che rendeva il dollaro la moneta centrale e i suoi titoli la riserva di valore
più affidabile per privati e stati. Se il credito è essenzialmente una
relazione rischiosa, allora ciò che è stato fatto è di distruggerlo. Ma non
si può distruggere una relazione senza esserne colpiti.
Ed
il colpo cade in una situazione di enorme fragilità. Infatti la potenza
americana, in prima fase fondata sulla maggiore produttività e sull’enorme
dotazione di infrastrutture, industrie, capacità in un mercato continentale
interconnesso, dalla crisi degli anni sessanta-settanta (nella quale quella
supremazia si erode) e dalla rottura del 1971 non vive più del suo commercio e
della sua produzione, ma dei suoi debiti. Paradossalmente vive di rendita
sui propri debiti, grazie alla tesaurizzazione come moneta del debito della sua
Banca Centrale, che è accettata in tutto il mondo come moneta di riserva. Il
sistema del dollaro svolge questa funzione in modo rischioso ed incerto, a
causa dell’assenza di una sottostante economia effettivamente dominante,
sostenuta da un attivo commerciale che renda logico detenere riserve (per
acquistare beni). La funzione di riserva, questo si vede benissimo in questa
crisi, ha il suo limite fuori di sé (si regge sull’indispensabile capacità di
minaccia, e quindi di ordine, svolta dalle forze armate americane). Del resto, a ben vedere, c’è in pratica un solo ‘bene’
nel quale la superiorità Occidentale è ancora netta: le armi. Di qui l’assoluta
necessità di spezzare la resistenza russa, prima che la Cina diventi troppo
forte anche su questo terreno.
Dall’altra
parte l’idea che emerge dalla reazione del sistema russo alla crisi, alla quale
si era lungamente preparato[29], è di riposizionarsi
nella catena del valore da paese ‘periferico’, che essenzialmente vende materie
prime con sfavorevoli ragioni di scambio, affidandosi per il resto alle
importazioni di prodotti finiti o semilavorati, a paese ‘semicentrale’ in un
ecosistema dominato da centri di potenza ed industriali meno ostili (la Cina,
l’India, il Brasile, il Sudafrica, i Brics, ai quali aggiungere almeno il Venezuela,
alcuni paesi africani, alcuni paesi del golfo, probabilmente il Pakistan e
forse l’Arabia Saudita) e, soprattutto, più complementari.
Detto in altre parole, c’è una sorta di ironia:
l’occidente si aspetta che l’ambiente economico russo sia costretto dalla crisi
dei capitali ad accettare una situazione di maggiore dipendenza e quindi
maggior sfruttamento (banalmente di dover accettare di vendere i propri
prodotti e materie prime ad un prezzo inferiore, o serbando minore quota del
profitto[30]),
ricollocandosi in posizione ancor più periferica. Ma la Russia sembra voler
accettare la sfida e punta a ricollocarsi in un diverso ecosistema nel
quale la propria industria e i propri prodotti energetici siano più necessari.
Il progetto di Putin, e dei gruppi decisionali che lo circondano, è quindi di
invertire la sconfitta degli anni Ottanta, ma non nel modo che pensiamo: non si
tratta affatto, almeno a medio termine, di recuperare le aree di influenza
territoriale perdute che, nel frattempo, si sono interconnesse con l’ecosistema
economico occidentale in modo troppo intenso (tanto meno di farlo per via
militare). Si tratta di qualcosa di molto più significativo: di risolvere
l’incorporazione subalterna del sistema-mondo che allora fu determinata.
Esiste solo un modo a tal fine, ed è quello che viene indicato come “ristrutturazione
strutturale dell’economia”. Si tratta di riportare le proprie élite
industriali e finanziarie, con le buone o le cattive (ed una guerra è a tal
fine perfetta) sotto il dominio della propria logica ‘territorialista’;
rialzare a tal fine barriere di sistema (e questo lo stanno facendo gli Usa);
trovare un’altra area di proiezione per i propri capitali, nella quale la
concorrenza sia più contenuta e l’ambiente normativo più controllabile. Passare
da un modello trainato dalle esportazioni (quello della “Grande
Moderazione” degli ultimi trenta anni) ad uno in cui è la domanda interna a
stabilizzare il paese. Si tratta ovviamente di un enorme compito per il
quale saranno necessari anni e potrebbe fallire, si dovrà: ristrutturare il
mercato del lavoro; modificare i settori trainanti; attuare quella che in Cina
è stata chiamata una “doppia circolazione”. Ciò dovrà comportare una netta
ridistribuzione tra industrie e professioni, oltre che tra aree economiche
geografiche. Molti impiegati di alto livello nelle multinazionali estere
perderanno il lavoro e dovranno ricollocarsi, mentre presumibilmente ci sarà
più lavoro ai livelli meno sofisticati. Malgrado ciò, perché sia possibile
ristrutturare l’economia, il monte complessivo dei salari dovrà aumentare,
per far crescere la domanda interna. Il modello neoliberale funziona
all’esatto opposto. Tiene compressa la domanda interna, per proteggere i
profitti industriali, e ricerca la necessaria capacità di spesa per garantire
il realizzo delle merci in capitale all’estero in una lotta spietata a somma
zero. In questo consiste la sua “libertà”. La scommessa russa è di poter
ritransitare nel modello opposto, ovviamente insieme alla Cina ed a numerosi
partner. Un modello che stabilizza il proprio ciclo di valorizzazione e
riproduzione del capitale facendo essenzialmente leva sul mercato interno,
salari alti e stabili, una classe media in ascesa. Ovviamente ne fanno
parte un certo controllo dei flussi di capitali e l’indisponibilità a farsi
controllare dall’esterno.
L’idea
è che dentro questo sistema, che fraziona il complessivo sistema-mondo
occidentale, ritagliandovi un grande enclave, la Russia possa trovare una
posizione di minore debolezza. In altre parole che possa essere più
necessaria, sia come fornitore di materie prime e di tecnologie avanzate
(in alcuni specifici settori, aerospaziale, chimica, nucleare, militare), sia
come fornitore di protezione (sfidando, ovviamente, il monopolio Usa su questo
cruciale ‘servizio’). Due generi di interlocutori sono da individuare per
questo progetto: in primo luogo, i grandi paesi altamente differenziati e fortemente
finanziarizzati, ma che nell’ecosistema “Occidentale” sono costantemente
schiacciati al ruolo di junior partner o di ospite inaffidabile[31]. In secondo luogo, i
paesi intermedi, con una specializzazione più pronunciata e minori risorse
umane, materiali e finanziarie. Questi si sentono spesso umiliati e
vittimizzati dall’arroganza occidentale e possono essere tentati di ridurre la
dipendenza.
Chiaramente,
e simmetricamente, i paesi che nell’attuale sistema-mondo sono ‘centrali’ o ‘semi-centrali’
(o ‘semi-periferici’ in un centro rilevante come quello europeo), da questa
riframmentazione in sistemi-mondo interconnessi, ma anche parzialmente
separati, hanno da perdere. Da una parte si riducono gli sbocchi alle
eccedenze di capitale, ovvero le aree nelle quali proiettare i capitali
garantendone per via politica o di influenza militare la redditività. Quindi
diventa più difficile il gioco di rompere gli ‘spazi regionali’, costringendoli
a rilasciare i propri valori e destabilizzandoli (gioco nel quale gli Usa sono
maestri, ma noi siamo i vecchi maestri ed attuali volenterosi allievi). Infine,
si ridefinisce l’intera gerarchia delle dipendenze e dell’estrazione del
surplus; in quanto quel sistema esteso che chiamiamo per comodità ‘capitalismo’
(ovvero quell’insieme di rapporti sociali, giuridici e di soggettività che si
definiscono per la centralità del principio organizzativo e di ordine del
‘capitale’) è sempre composto di parti interconnesse, ognuna delle quali trova
la propria struttura e organizzazione dalla propria posizione nell’insieme.
Posizione che è sempre gerarchica. La ragione è che tutti i fenomeni economici
e sociali, ed in ultima analisi anche politici e militari, trovano possibilità
di essere compresi solo nell’unità complessiva delle parti in interazione.
Il
processo di fratturazione dell’ambiente finanziario e commerciale mondiale, e
la revoca della centralità in esso del dollaro (processo che richiederà qualche
anno), riprodurrà quindi quella priorità all’indipendenza che rese possibile il
percorso di crescita di tanti paesi nel trentennio ’50-’80 e ne motivò la
tensione ideale. Anche alla luce di questi fenomeni si può verificare come
tutte le teorie trovino sempre la loro urgenza e plausibilità dal contesto del
tempo. Sono, cioè, illuminate dal tempo nel quale si manifestano, più che il
contrario. Prevedo che, insieme al confronto tra sistemi, intorno a questo
tempo difficile tornerà perciò in campo la “teoria della dipendenza” e
quella “dell’imperialismo”.
[1] - Fenomeno che, lo dovremo
guardare con attenzione, si è incrudito quando la crisi del Covid ha spezzato
le supply chain mondiali e la ripartenza ha evidenziato l'incremento senza
controllo delle materie prime, con conseguenze sistemiche e cumulative a carico
della competitività e dell'inflazione.
[2] - Il termine è messo in giro nel
XVIII secolo e rappresenta la condensazione di un’idea contemporaneamente
semplicissima e straordinariamente sottile: quella che il fatto di far passare
le relazioni umane attraverso il vincolo morbido dello scambio per puro
interesse (il “dolce commercio”) le trasformerà e civilizzerà. L’uomo stesso
diventerà meno ferino, meno orientato a perseguire motivazioni irrazionali
(come “l’onore”), e la società diventerà meno separata in enclave, in clan in
lotta reciproca; sarà meno attraversata da inimicizie radicali (ad esempio
religiose). Ma questa non è l’idea di una condizione ‘naturale’ dell’uomo che
si tratta solo di far emergere, contiene il progetto di una antropologia
minimalista. Il progetto di un “uomo nuovo” che viene prodotto dall’estensione
del commercio e dalla struttura legale e governativa che lo impone. Cfr., ad
esempio, Jean-Claude Michéa, “L’impero del male”, Libri Scheiwiller,
2008 (ed. or. 2007).
[3] - Altro termine chiave della
costellazione liberale: si tratta del superamento del mondo tradizionale, con
tutte le sue strutture relazionali ed antropologiche, i sistemi di potere, i
vincoli costitutivi, i valori (ad esempio l’onore, la responsabilità concreta,
la reciprocità nel sistema del dono, l’ordine presunto naturale, …).
[4] - L’idea di un procedere per
“tappe” della “storia” è un’altra tipica idea illuminista, fattasi strada tra
il XVII ed il XVIII secolo, viene articolata sia nell’ambiente napoletano
(Gianbattista Vico, 1668-1744) sia in quello scozzese (Adam Ferguson,
1723-1816), ovviamente ciò porta a ritenere che l’uomo proceda, generazione
dopo generazione, ad apprendere sempre meglio il proprio modo di essere nel
mondo e quindi progredisca.
[5] - “Progresso” è probabilmente il
termine più inevitabile della costellazione liberale-moderna. Il concetto è
legato ad una duplice radice: da una parte è un’interpretazione-ricostruzione
dell’esperienza storica della tecnica e della scienza nella fioritura
cinque-seicentesca e nell’estensione sette-ottocentesca, dall’altra è ancora un
progetto di rottura delle relazioni tradizionali e di liberazione delle
forze del lavoro e dell’industria dai vincoli storici. Si tratta di un progetto
negativo, che conosce ciò che non vuole, ma non ciò verso cui tende. Un
programma intrinsecamente “illimitato”, e quindi anche, e necessariamente,
in-umano e carico di hybris. Per questa lettura del liberalesimo come “progetto
negativo”, si può leggere Andrea Zhok, “Critica della ragione liberale”,
Meltemi, 2020.
[6] - “Ragione”, rigorosamente al
singolare, è quindi il coronamento di questo giro di concetti e del progetto ad
essi connesso. Si tratta dell’idea che si deve imporre una unica via, perché
aderente all’autentica natura umana (o, per meglio dire, alla natura umana che
deve diventare unica).
[7] - La “Storia” è quindi orientata,
ha carattere unitario, conoscibile nel suo senso, normativamente connotata.
[8] - Il riferimento obbligato è al
lavoro di Mearshmeier.
[9] - Vicesegretario alla Difesa per gli
affari di sicurezza internazionale dal 1993 al 1994 ed ex ambasciatore
degli Stati Uniti in Arabia Saudita durante le operazioni Desert
Shield e Desert Storm. Freeman è noto in ambito
diplomatico per essere stato vice segretario di Stato per gli affari
africani durante la storica mediazione statunitense per l’indipendenza della
Namibia dal Sud Africa e del ritiro delle truppe cubane dall’Angola. Ha
inoltre lavorato come Vice Capo Missione e Incaricato d’Affari nelle ambasciate
americane sia a Bangkok (1984-1986) che a Pechino (1981-1984). Dal 1979 al
1981 è stato Direttore per gli Affari Cinesi presso il Dipartimento di Stato
degli Stati Uniti ed è stato il principale interprete americano durante la
storica visita del presidente Richard Nixon in Cina nel 1972.
[10] - Si veda https://it-insideover-com.cdn.ampproject.org/c/s/it.insideover.com/guerra/ucraina-ex-ambasciatore-freeman-usa-non-vogliono-pace-ucraina.html/amp/
[11] - Dmitrij Trenin, “Riflettendo sul percorso internazionale
della Russia: chi siamo, dove siamo, per cosa e perché”, Guancha, 15 aprile 2022
[12] - Si può vedere
il post “Circa David Brooks, ‘La globalizzazione è finita’. Ovvero, ancora
del ‘fardello dell’uomo bianco’”, Tempofertile, 9 aprile 2022.
[13] - E’ quello che, in una diversa
prospettiva, mostra Christopher Coker in “Lo scontro degli stati-civiltà”,
Fazi Editore, 2020 (ed- or. 2019).
[14] - Si veda Qiao Liang, Wang
Xiangsui, “Guerra senza limiti”, LEG, 2001 (ed. or. 1999).
[15] - Si veda per un inquadramento
concettuale, Alessandro Visalli, “Dipendenza. Capitalismo e transizione
multipolare”, Meltemi 2020, oppure Giacomo Gabellini, “Krisis. Genesi,
formazione e sgretolamento dell’ordine economico statunitense”, Mimesis, 2021.
[16] - Una spiegazione interna
della tendenza alla crescita della classe media che caratterizzò gli anni del
‘trentennio socialdemocratico’ e con essa l’insorgenza della ‘società del
benessere’ (poi revocata nel quarantennio neoliberale).
[17] - Si definiscono “ragioni di
scambio” il rapporto tra l'indice dei prezzi
all'esportazione di un paese e quello dei prezzi
all'importazione. Dal punto di vista dell'intero paese, rappresenta
l'ammontare di esportazioni richiesto per ottenere una unità di importazione.
Dunque il prezzo tra due beni (o di un bene e di un altro rispetto ad una
unità di misura comune, ad esempio il denaro internazionalmente accettato come
il dollaro) è relativo ai rapporti di forza che si determinano sul “mercato”, e
che dipendono da molteplici fattori non tutti economici.
[18] - Dai flussi di capitale governati
dal ‘centro’ e dalle altre forme di dipendenza commerciale e/o politica.
[19] - Si veda R. Prebisch, Crecimiento,
desequilibrio y disparidades: interpretación del proceso de desarrollo
económico, 1950, in italiano. La
crisi dello sviluppo argentino. Prebisch è, con Hans Singer, il creatore della tesi della
“sostituzione delle importazioni”, per la ragione che il deterioramento
continuo delle ragioni di scambio delle economie primarie, normalmente
periferiche, è conseguenza del fatto che la domanda di prodotti manufatti
cresce molto più rapidamente di quella delle materie prime.
[20] - Qui la coppia interpretativa è
quella dominio/egemonia per la quale si è soliti rinviare ad Antonio Gramsci.
Il concetto di ‘egemonia’, per essere compreso, va connesso con la sua assenza,
ossia con il puro e semplice “dominio”. Dove il potere è
nudo, privo della necessaria componente del consenso. Ma il vero potere non si
limita alla costrizione; si estende alle menti e ai cuori, si fa seguire in
qualche modo volontariamente, coinvolgendo insieme: la rappresentazione di sé
che si costruisce, l’immagine del mondo e la meccanica dei valori e obiettivi,
con la loro gerarchia. Si radica inoltre nella “base” degli interessi e dei
bisogni, cui in qualche modo (secondo il filtro delle rappresentazioni)
l’egemone risponde, facendosene almeno in parte carico. Il vero potere è dunque
egemonia.
[21] - Data la loro difficoltà a
trovare occasioni di investimento al livello adeguato per effetto dei
rendimenti decrescenti.
[22] - Vedi Wolfgang Streeck, Tempo
guadagnato, la crisi rinviata del capitalismo democratico, Feltrinelli,
2013
[23] - Interviene in questa situazione,
da tempo compromessa, lo shock determinato dall’attesa pandemia figlia dei
molti squilibri del mondo e della sua vorticosa e irresponsabile integrazione
orizzontale senza protezione. Quella in corso è solo l’ultima delle recenti
zoonosi che si sono diffuse nel mondo, uccidendo negli ultimi quarant’anni
oltre trenta milioni di persone. C’è una relazione piuttosto riconoscibile tra
l’estensione degli insediamenti umani, a ridosso di tutte le rimanenti aree di
naturalità, e lo sfruttamento intensivo della vita stessa (ad esempio, degli
allevamenti) e la frequenza e rapidità con la quale batteri, virus e funghi,
protisti, prioni e vermi, riescono a fare un salto di specie ed a replicarsi
tra uomo e uomo. Ed inoltre, una volta che il patogeno si è insediato
nell’ospite umano la velocità con la quale questo entra in contatto con altri
ospiti e questi si muovono nel mondo. La pandemia amplifica e accelera le molte
linee di crisi antecedenti e tendenze già in movimento. Lo fa in quanto figlia
dell’interconnessione del mondo e dell’estensione in esso del modo di
produzione capitalista, per sua natura incapace di limitarsi nello sfruttamento
di qualsiasi cosa sia utilizzabile come merce.
[24] - Una recente ricostruzione, se
pur di parte liberale, si può leggere in Richard Baldwin, “Rivoluzione
globotica. Globalizzazione, robotica e futuro del lavoro”, Il Mulino 2019.
[25] - Intendo per “piattaforma
tecnologica” un set di funzionamenti essenziali, punti di convenienza e
vantaggio per diversi gruppi e ceti sociali determinati da network di
tecnologie convergenti e reciprocamente rafforzanti, quindi dall’insieme di
skill favorite da queste e di know how privilegiati, ma anche da norme sociali
e giuridiche che si affermano nella sfera pubblica e privata, e infine da
pacchetti di incentivi pubblici e privati (entrambi, norme e incentivi,
coinvolti nell’affermazione del network di tecnologie). Una “piattaforma
tecnologica” è, inoltre, sempre connessa con un assetto geopolitico che la rende
vincente (e in ultima analisi possibile).
[26] - Si veda, “Circa David Brooks,
‘La globalizzazione è finita’. Ovvero, ancora del ‘fardello dell’uomo bianco’”,
Tempofertile, 9 aprile 2022. E anche “Politica estera basata sui valori o sull’autodeterminazione.
Note sulla svolta di Biden”, Tempofertile, 5 aprile 2022.
[27] - Zhang Weiwei, “Russia vs Stati Uniti: la guerra
del denaro e della valuta”,
Guancha, 25 aprile 2022
[28] - Si nomina in questo modo la
capacità della moneta americana, fino al 1971 nel suo ancoraggio nominale
all’oro e in base al Trattato di Bretton Woods e dopo senza di esso, di essere
quella riserva di valore ed unità di conto che rende stabile il sistema
finanziario mondiale.
[29] - Nella crisi Ucraina del 2014 la
Russia ebbe chiarissimo che ad uno scontro con l’occidente si sarebbe ad un
certo punto giunti, e che la stessa Ucraina lo voleva. La preparazione al
momento è stata condotta allargando le riserve, riducendo l’esposizione in
dollari, rinforzando le relazioni internazionali con i paesi non occidentali.
Per un chiarimento si può vedere questo video del 2014.
[30] - Ad esempio, cedendo alle
multinazionali britanniche o Usa le concessioni delle proprie risorse minerarie
a fronte di royalties limitate.
[31]
- Questi, che vanno dalla
Cina all’India con l’aggiunta del Brasile (ma guarderei anche al Messico), sono
in qualche modo ed a vario modo riluttanti a fare lo stesso passo. Lo
faranno solo se costretti, quindi fino a che il network al quale tutti stanno
lavorando non sarà consolidato cercheranno di stare su tutti i tavoli. In ogni
caso sono troppo grandi per chiudere completamente le porte. In prospettiva
cercheranno di ascendere al ruolo di egemone di un nuovo sistema-mondo guidato
in modo federato.
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