“9. C’è un quadro di Klee che
s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di
allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la
bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto.
Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede
una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia
ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre
l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue
ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge
irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle
rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa
tempesta”[1].
Siamo
nel 1940, una data decisiva per comprendere il testo, Walter Benjamin rompe
radicalmente, nel manoscritto detto delle “Tesi di filosofia della storia”[2] con tutta l’ideologia del
progresso che è tanta parte del marxismo. L’operazione che il grande
intellettuale ebreo compie è di ibridare nel corpus rivoluzionario marxista
elementi derivanti sia dalla critica romantica della civilizzazione, sia dalla
tradizione messianica ebraica. Sono allora sedici anni, da quando ha incontrato
il marxismo attraverso la lettura di Lukács e l’incontro caprese con la russa
Asja Lacis, e quindici da quando in “Strada a senso unico”[3] riconosce nella
rivoluzione un esito non già inevitabile, o naturale, quanto una sorta di
estrema difesa davanti al disastro. Un “tagliare la miccia accesa” prima
dell’esplosione.
Il
lavoro che compie sul marxismo, in particolare a metà degli anni Trenta, è da
allora rivolto a dissotterrare le componenti romantiche ed antiborghesi che lo
stesso Marx recepisce, ma che sono sepolte abbastanza accuratamente dal
marxismo tedesco nella fase della sua affermazione politica. Per riuscirvi
occorreva abbattere due feticci: le illusioni del progresso e l’idealizzazione
del lavoro industriale. Ovvero prendere le distanze da quegli elementi
dell’ideologia borghese ottocentesca transitati nella teoria, per liberarne il
potenziale critico. Prendendo con cura le distanze, in particolare, da quel mix
di positivismo e marxismo, evoluzionismo darwiniano e culto del progresso che
si identifica con la socialdemocrazia tedesca tra la fine dell’Ottocento ed i
primi decenni del Novecento. Dove, in particolare, il progresso è identificato
sotto forma dello sviluppo delle scienze naturali e delle capacità di
manipolazione della natura regalate dalla tecnica, restando insensibili ai
fattori di regressione sociale spesso implicati necessariamente.
Qui
cadono i manoscritti terminali sulla Filosofia della Storia, di pochi mesi
precedenti alla drammatica e prematura morte.
“Articolare storicamente ciò che è
passato non vuol dire conoscerlo ‘come è stato veramente’. Vuol dire
impadronirsi di un ricordo per come balena nell’istante di un pericolo”[4].
Un
ricordo che balena nell’istante del pericolo, formidabile
formula benjaminiana. Oggi il “pericolo” al quale chiama la riflessione è
questo ridursi di tutto “a strumento della classe dominante”. Di fronte a ciò
bisogna “cercare di strappare la tradizione al conformismo che è in procinto di
sopraffarla”, beninteso perché in essa ci sono semi in attesa. Questi ‘semi’
che sono anche un lascito e un impegno. Quello a riscattare nella memoria e
riparare la sofferenza dei vinti, compiendo gli obiettivi per i quali hanno
lottato. Queste lotte che, rammemorate in tutta la loro tragica complessità ed
incompiuta grandezza, stanno dietro noi, o avanti, con il dolore che è stato e
quello che sarà. Se il significato più compiuto della formula vaga
‘materialismo storico’ è la pratica feconda di una storia come lotta permanente
tra oppressori ed oppressi, come vorrebbe Benjamin, allora il solo modo di
onorarlo è rispettare la richiesta muta dei vinti. Saper essere anche
l’esecutore del testamento che resta nelle nostre mani da molti secoli di lotta
e sogni di emancipazione.
Continua
la “tesi VI”:
“Per il materialista storico
l’importante è trattenere un’immagine del passato nel modo in cui si impone
imprevista nell’attimo del pericolo, che minaccia tanto l’esistenza stessa
della tradizione quanto i suoi destinatari”.
Ciò,
perché il pericolo è sempre di divenire, senza avvedersene, l’ennesimo
strumento nelle mani della classe dominante. Questo è il problema sul quale
l’intero testo che avete per le mani si affatica. Evitare sia la falsificazione
e l’oblio delle lotte, sia, soprattutto, lo sfruttamento dell’energia della
moltitudine contro di essa. L’accelerazione verso il burrone dell’ennesima
sconfitta, del tradimento di sé e del pieno trionfo, ancora ed ancora, dei
pochi e felici contro i molti e ciechi. Michael Lowy riporta[5] un passo contenuto nelle
note preparatorie, che richiama direttamente la metafora del ‘sistema
frenante’:
“Marx dice che le rivoluzioni sono
la locomotiva della storia universale. Ma forse le cose stanno in modo del
tutto diverso. Forse le rivoluzioni sono il ricorso al freno di emergenza da
parte del genere umano in viaggio su questo treno”.
Traspare
qui la critica di fondo all’atteggiamento attendista della socialdemocrazia tedesca
che rileggeva la secolarizzazione del messianesimo prodotta da Marx e la sua
idea del comunismo come società senza classi, con strumenti neokantiani
proiettandola all’infinito (mentre in Marx è hegelianamente inquadrata
dialetticamente nel quadro della “lotta”). Da Schmidt a Stadler, o Natorp, e Volrlander,
i principali ideologi socialdemocratici tedeschi del tempo si pongono quindi
con calma, come nell’anticamera del tempo, ad aspettare l’inevitabile
sopraggiungere (un giorno) della “situazione rivoluzionaria”. Per Benjamin, al
contrario, fino a che si attende passivamente essa non giungerà mai. Rileggendo
invece la storia come prassi umana, ricca di possibilità e soprese, si
riconosce che ogni istante racchiude un “potenziale”, che va attivato. È
necessario anzi attivarlo con urgenza, proprio perché nella visione proposta i
binari del treno si dirigono irresistibilmente verso l’abisso.
Scriverà
nelle “Tesi”:
“Nulla ha corrotto la classe operaia
tedesca come l’opinione di nuotare con la corrente. Lo sviluppo tecnico era il
filo della corrente su sui credeva di nuotare. Di qui c’era solo un passo
all’illusione che il lavoro di fabbrica, trovandosi in direzione del progresso
tecnico, fosse già un’azione politica”[6].
Nella
tesi 13, più profondamente, il concetto di progresso è affrontato direttamente,
relazionato ad un’immagine della storia come se percorresse, indefinitamente ed
eternamente, un tempo “omogeneo e vuoto”. È dunque “la critica dell’idea di
questo processo [che] deve costituire la base della critica dell’idea di
progresso come tale”. E questa critica consiste nel rileggere la storia come il
luogo di un tempo non vuoto ma “pieno di ‘attualità’” (Jetztzeit). Ad esempio,
la Roma, cui si riferiscono i giacobini durante la rivoluzione, è quel “balzo
di tigre nel passato” che lo riattiva, che rende attuale un elemento nella
“selva del passato”, facendo l’unica vera operazione rivoluzionaria. Anzi
creando ciò che la rivoluzione propriamente è: il salto del continuum della
storia nell’attimo dell’azione (tesi 15). Il materialista storico, per
Benjamin (ovvero il rivoluzionario), si attiene ad un concetto del presente in
cui vive come istante in bilico. In bilico nel tempo ed immobile. Non in
passaggio ed in attesa. Egli quindi in questo istante in bilico “per suo conto
scrive la storia”. In ogni secondo intravede, come gli ebrei, “la piccola porta
dalla quale poteva entrare il Messia”[7].
Con
questo testo si manifesta il tentativo di tenere insieme, in qualche modo, di
rivitalizzare dal suo incipiente grigiore, il materialismo storico con elementi
coscientemente messianici e libertari. Ovvero di fonderlo con una teologia
appena nascosta (come il nano nell’automa della prima tesi) e anche con
elementi anarchici. Si tratterebbe, secondo una famosa lettura di Habermas[8], di integrare la
concezione anarchica dei ‘tempi-ora’, che “attraversano con intermittenza il
destino, a guisa di folgori”, con la teoria materialistica dello sviluppo
sociale. Ovvero, secondo l’aspra critica del filosofo ex francofortese, il
“cappuccio fratesco di una concezione antievoluzionistica della storia”. Malgrado
l’idiosincrasia del modernista ed evoluzionista filosofo tedesco, che torna sul
tema in “Il discorso filosofico della modernità”[9], questi individua
correttamente il punto: la rivoluzione per Benjamin non corona, attendendola,
l‘evoluzione storica. Essa, piuttosto, interrompe (con un “balzo di tigre”) la
continuità storica della dominazione[10]. E per farlo, tra
l’altro’ “spazzola la storia contropelo” (Tesi VII), prestando nuovamente
orecchio a chi è caduto nel tempo sotto, come scrive Lowy, “sotto le ruote dei
carri maestosi e magnifici chiamati Civiltà, Progresso e Cultura”[11]. Lo onora, ricordandolo
con il più alto senso del presente[12] e battendosi, appunto,
controcorrente.
Il
tentativo di Benjamin, dunque, si spende nello sforzo di conciliare
materialismo e messianismo, cosciente ed esplicito, quindi di radicare l’utopia
dal ‘punto di vista dei vinti’. Si manifesta come aspirazione al riscatto che
resiste contro ogni forza, ma si radica nella storia e nella materia. Che agisce
nel produrre quella ‘scissione irrimediabile’[13] nei confronti della
sopravvivenza della cultura borghese ottocentesca entro il cuore stesso del
marxismo. È un passo di montagna che va superato.
[1] - Walter Benjamin, “Tesi di
filosofia della storia”, 9. In Angelus Novus, Einaudi, 1962.
[2] - In realtà il titolo è incerto,
sulla copia T4b del manoscritto è “Geschichtphilosophische Thesen”, mentre nel
T4a “Uber der begriff der Geschichte”, e Adorno gli diede invece
“Geschichtphilosophische Reflexionen”.
[3] - Walter Benjamin, “Strada a
senso unico”, Einaudi 1983 (ed. or. 1928)
[4] - Walter Benjamin, “Sul concetto
di storia”, 6, in Senza scopo finale. Scritti politici (1919-1940), Castelvecchi
2017 (p.242). Anche in “Angelus novus”, Einaudi, 1962, p. 77.
[5] - Michael Lowy, “La rivoluzione
come freno d’emergenza”, Ombre corte, 2020 (ed. or. 2019), p. 47.
[6] - Walter Benjamin, “Sul concetto
di storia”, in “Angelus novus”, Einaudi, 1962, p. 81
[7] - Cit., p. 86
[8] - Jurgen Habermas, “Critica che
rende coscienti o critica che salva. L’attualità di Walter Benjamin”, in “Cultura
e critica”, Einaudi 1980 (ed.or. 1973), p. 233.
[9] - Jurgen Habermas, “Il discorso
filosofico della modernità”, Laterza, 1987 (ed. or. 1985).
[10] - Secondo le sue parole: “Benjamin
si impegna in un drastico rovesciamento del rapporto tra orizzonte delle
aspettative e ambito dell’esperienza, attribuendo a tutte le epoche passate un
orizzonte di aspettative insoddisfatte, ed al presente orientato verso il
futuro il compito di sperimentare nella rimemorazione un passato di volta in
volta corrispondente in modo tale che noi possiamo soddisfarne le aspettative
con la nostra debole forza messianica”. Habermas, cit., p. 14.
[11] - Michael Lowy, “Segnalatore d’incendio”,
op.cit., p. 73
[12] - Qui il riferimento obbligato è
al Friedrich Nietzsche di “Sull’utilità e il danno della storia per la vita”,
Newton Compton, 1978 (ed. or. 1874).
[13] - In una lettera ad Horkheimer,
spedita il 22 febbraio 1940, Benjamin scrive: “Ho appena terminato di scrivere
un certo numero di tesi sul concetto di storia. Queste tesi si collegano, da un
lato, alle concezioni che si trovano abbozzate nel capitolo I dei ‘Fuchs’. D’altro
canto, esse devono servire da armatura teorica al secondo saggio su Baudelaire.
Costituiscono un primo tentativo di fissare un aspetto della storia che deve
stabilire una scissione irrimediabile tra il nostro modo di vedere e le
sopravvivenze di positivismo che, a mio avviso, connotano così profondamente
persino quei concetti di storia, che, in sé stessi, ci sono più prossimi e
familiari” (cit. in. Michael Lowy, “Segnalatore d’incendio”, Ombre corte, 2022
(ed. or. 2014).
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