Sono
stato pochi giorni fuori dall’Italia, raggiunto a stento dalla notizia della
morte del papa emerito Benedetto XVI e quindi ignaro della sorprendente
ricezione della notizia. Improvvisamente alla vicenda terrena del vescovo
cattolico sono state appiccicate etichette e bandierine da parte dei più
diversi attori. L’intero sistema dei media, come un sol uomo, ha montato il
racconto del santo e dell’eroe (nonché del genio) mentre molta parte della
cosiddetta “area del dissenso”[1] ha ricalcato lo schema,
riproducendovi sopra i propri stilemi.
Entrambi,
abbastanza palesemente, utilizzando l’uomo contro il papa in carica che ha
diverse colpe: non si allinea con il sufficiente entusiasmo alla parte dei ‘buoni’
nella guerra in corso contro la Russia[2], sostiene ancora, se pure
in forma attenuata e dilavata, temi pauperistici ed anticapitalisti (peraltro
tradizionali nella plurimillenaria istituzione che dirige)[3]. Ha sbandierato
vistosamente uno scontro con la Curia nei primi mesi del suo papato,
probabilmente giungendo ad un ‘modus vivendi’ negli ultimi. Il discorso di
Francesco è del resto fortemente antimondialista e radicalmente opposto alle
deviazioni dell’economia finanziarizzata, come si può apprezzare in questo
frammento all’avvio della sua ultima enciclica.
“12. ‘Aprirsi al mondo’ è un’espressione che oggi è stata fatta
propria dall’economia e dalla finanza. Si riferisce esclusivamente all’apertura
agli interessi stranieri o alla libertà dei poteri economici di investire senza
vincoli né complicazioni in tutti i Paesi. I conflitti locali e il disinteresse
per il bene comune vengono strumentalizzati dall’economia globale per imporre
un modello culturale unico. Tale cultura unifica il mondo ma divide le persone
e le nazioni, perché «la società sempre più globalizzata ci rende vicini, ma
non ci rende fratelli».[9] Siamo più soli che mai in questo mondo massificato che
privilegia gli interessi individuali e indebolisce la dimensione comunitaria
dell’esistenza. Aumentano piuttosto i mercati, dove le persone svolgono il
ruolo di consumatori o di spettatori. L’avanzare di questo globalismo favorisce
normalmente l’identità dei più forti che proteggono sé stessi, ma cerca di
dissolvere le identità delle regioni più deboli e povere, rendendole più
vulnerabili e dipendenti. In tal modo la politica diventa sempre più fragile di
fronte ai poteri economici transnazionali che applicano il ‘divide et impera’”.[4]
Cosa
vale la pena di dire, se pure da grande distanza?
Intanto
che il nome dei due papi, sin dall’inizio reciprocamente avversari[5], mostra una divergenza non
esattamente coerente con la narrativa dell’eroe antisistema attribuita al primo.
Benedetto da Norcia è il fondatore dell’omonimo ordine e dell’istituzione
nella quale trova una prima forma, secondo alcune autorevoli interpretazioni[6], l’economia moderna ed è certamente
uno dei luoghi di formazione dell’ortodossia cattolica. Francesco d’Assisi,
anche esso fondatore dell’omonimo ordine, pratica al contrario un modello
antiistituzionale, sull’orlo dell’eresia, pauperistico, ribelle. Mai nessun
papa ha preso il suo nome.
Si
tratta, comunque, di due figure medioevali, altissime, di grandiosa virtù e
impatto.
Quindi
si può ricordare come entrambi i vescovi hanno una storia, e si formano in un
contesto culturale e geografico specifico. Joseph Ratzinger era nato in Baviera
nel 1927, da una famiglia cattolica molto osservante nella quale il padre era
gendarme e a diciassette anni partecipa alla guerra. Studia teologia e
partecipa al Concilio Vaticano II come ‘progressista’, ma a seguito del ’68 vira
in direzione opposta e fa carriera, grazie a Paolo VI. Diventa il campione
della reazione contro la tendenza della Chiesa a partecipare ai moti di
liberazione che attraversano il mondo. È alla guida del Sant’uffizio dal 1981
alla sua elezione ed in questa veste combatte contro tutte le tendenze che
identifica come progressiste. È chiaramente per questo che l’area del dissenso
lo assume come eroe (dimenticando che lo fa dalla posizione di potere della Santa
inquisizione e per affermare un modello autoritario di sapore medioevale che è
del tutto incompatibile con qualsiasi ispirazione libertaria, con la sbandierata
libertà di ricerca, e via dicendo).
Ripercorriamo
la sua biografia.
Negli
anni di formazione Ratzinger segue l’esempio di Agostino, in chiave anti
tomistica, e si ispira a teologi modernisti come Henri de Lubac,
Marie-Dominique Chenu, Yves Congar e Friedrich Wilhelm Maier. Scrive il
dottorato su Agostino, indagando sull’espressione “popolo di Dio”. Ma l’abilitazione
la compie sulla figura del ‘normalizzatore’ del francescanesimo delle origini,
quel Bonaventura da Bagnoregio che liquidò le tendenze gioachimite[7] e millenariste che si
intravedevano nella prima comunità ‘rivoluzionaria’ francescana. Il tema è
densamente politico, si tratta di interrogarsi, sue parole, se “sia possibile
per un cristiano concepire una sorta di compimento all’interno delle vicende di
questo mondo, se sia possibile cioè una specie di utopia cristiana, una sintesi
di utopie e di escatologia”. Qui avviene un episodio interessante, siamo
nel 1952, nella tesi di settecento pagine il giovane candidato sostiene che la
rivelazione non è un insieme di proposizioni contenute nelle scritture, ma l’azione
storica di Dio nel mondo e può mutare insieme alle vicende umane. Il relatore,
Michael Schmaus, lo attacca violentemente accusandolo di modernismo e lui
accetta di espungere tutta la parte di discussione teologica. La sua obbedienza
e disciplina viene premiata con la cattedra di Teologia dogmatica a Frisinga. Ma
in un articolo di quegli anni accusa la Chiesa di essersi troppo ‘mondanizzata’,
e quindi debba tornare ad essere solo una ‘comunità dei credenti’ evitando di
impegnarsi con il potere temporale. Sono i temi che poi, in una chiave diversa,
impronteranno la sua pluridecennale battaglia con la “Teologia della
liberazione”[8].
Entra
quindi nel Concilio Vaticano II a seguito del Cardinale Frings, cercando tra
Tradizione e Scrittura (le due fonti dell’ortodossia cattolica) una strada per
essere un’alternativa all’era moderna entro questa. Nello scontro dottrinale intorno
allo schema “De fontibus Revelationis”, contro il quale afferma la tesi,
poi contenuta nei “Dei verbum”, che la fonte è la parola di Dio stessa,
che si manifesta attraverso strumenti come le Scritture e la Tradizione.
In
seguito segue Hans Küng a Tubinga, ma a partire dal 1966 inizia a mutare
orientamento, sente che ci si è spinti troppo oltre, e che l’aggiornamento
della dogmatica e dei riti sia, piuttosto, un accomodamento con lo spirito
del mondo. La contestazione del 1968 è per lui, proveniente da ambienti molto
conservatori, completamente incomprensibile. Fugge a Ratisbona sotto la tutela
di un vescovo anticonciliare come Rudolf Graber e litigando con il suo ex amico
Küng. Fonda la rivista “Communio” che cerca di riscrivere il
Concilio come prolungamento della Tradizione. Nel giugno 1976 il Vaticano lo
sceglie per affermare una linea anti-progressista prima come arcivescovo e poi
cardinale, a cinquanta anni.
Il
riallineamento è stato premiato.
Diventa
il braccio destro di Karol Wojtila, di cui condivide la linea
politica che si può riassumere, come scrive Roberto Paura[9] “mitigare gli eccessi di
riformismo post-conciliare e stoppare brutalmente ogni deviazionismo teologico
tendente a sinistra, in particolare al marxismo”. Quando accede alle
posizioni di influenza in vaticano, di cui sarà interprete per decenni, regola
i conti con gli altri teologi tedeschi: revoca l’insegnamento a Hans Küng
nel 1979 e blocca la carriera di Metz, interferendo pesantemente nelle tradizionali
libertà accademiche attraverso un intervento autoritario e centralizzatore da
Roma. Ci sarà un grande scandalo internazionale di cui si continuerà a parlare
per anni. Nel 1981 è nominato da Giovanni Paolo II alla guida della vecchia
inquisizione, ribattezzata Congregazione per la Dottrina della Fede. Ad agosto
1984 la Congregazione pubblica la “Istruzione su alcuni aspetti della
Teologia della Liberazione”[10] nella quale, con grande
chiarezza, si tratta di “attirare l'attenzione dei pastori, dei teologi e di
tutti i fedeli, sulle deviazioni e sui rischi di deviazioni, pericolosi per la
fede e per la vita cristiana, insiti in certe forme della teologia della
liberazione, che ricorrono in maniera non sufficientemente critica a concetti
mutuati da diverse correnti del pensiero marxista” e per questo distingue tra
la “liberazione dal peccato”, primaria, e quella “dalle molteplici schiavitù di
ordine culturale, economico, sociale e politico, che in definitiva derivano
tutte dal peccato, e costituiscono altrettanti ostacoli che impediscono agli
uomini di vivere in conformità alla loro dignità”, mera conseguenza del peccato
e quindi secondarie. Più specificamente nel testo è sviluppata questa
distinzione cruciale:
“15. Neppure è possibile localizzare
il male principalmente e unicamente nelle cattive ‘strutture’ economiche,
sociali o politiche, come se tutti gli altri mali trovassero in esse la loro
causa, sicché la creazione di un ‘uomo nuovo’ dipenderebbe dall'instaurazione
di diverse strutture economiche e socio-politiche. Certamente esistono
strutture ingiuste e generatrici di ingiustizia, che occorre avere il coraggio
di cambiare. Frutto dell'azione dell'uomo, le strutture, buone o cattive, sono
delle conseguenze prima di essere delle cause. La radice del male risiede
dunque nelle persone libere e responsabili, che devono essere convertite dalla
grazia di Gesù Cristo, per vivere e agire come creature nuove, nell'amore del
prossimo, nella ricerca efficace della giustizia, nella padronanza di se stesse
e nell'esercizio delle virtù. (13)
Ponendo
come primo imperativo la rivoluzione radicale dei rapporti sociali e
criticando, per questo, la ricerca della perfezione personale, ci si mette
sulla via della negazione del significato della persona e della sua
trascendenza, e si distrugge l'etica e il suo fondamento che è il carattere
assoluto della distinzione tra il bene e il male. Per altro, poiché la carità è
il principio della perfezione autentica, questa non può essere concepita senza
l'apertura agli altri e senza lo spirito di servizio”.
Di
seguito lo zelo dei pastori che cercano di “trovare mezzi efficaci che
permettano di porre fine al più presto ad una situazione intollerabile”, rappresentata
dalle ineguaglianze e dallo sfruttamento, sono denunciate come “altrettanto rovinose
per l’uomo e la sua dignità quanto la miseria” se si dimenticano le corrette
priorità. La denuncia è rivolta a una nuova interpretazione che corrompe l’impegno
per i poveri a causa della “assunzione non critica di elementi dell’ideologia
marxista e il ricorso alle tesi di un’ermeneutica biblica viziata di
razionalismo”. Torneremo diffusamente su questo ultimo punto. Ciò che si
oppone all’analisi razionalista sulle strutture, nel mentre se ne denuncia non
infondatamente la connessione con specifiche posizioni filosofiche ed
ideologiche, è semplice:
“il criterio ultimo e decisivo di
verità non può essere, in ultima analisi, che un criterio esso stesso
teologico. È alla luce della fede, e di ciò che essa ci insegna sulla verità
dell'uomo e sul significato ultimo del suo destino, che si deve giudicare della
validità o del grado di validità di ciò che le altre discipline propongono,
spesso d'altronde in maniera congetturale, come verità sull'uomo, sulla sua
storia e sul suo destino”.
E,
riguardo alla gerarchia:
“13. Da una simile concezione della
Chiesa del popolo si sviluppa una critica delle stesse strutture della Chiesa.
Non si tratta soltanto di una correzione fraterna nei confronti dei pastori della
Chiesa, il cui comportamento non riflette lo spirito evangelico di servizio e
si attiene a espressioni anacronistiche di autorità che scandalizzano i poveri.
È anche messa in causa la struttura sacramentale e gerarchica
della Chiesa, quale l'ha voluta il Signore stesso. Nella
gerarchia e nel Magistero si denunciano i rappresentanti effettivi della classe
dominante che è necessario combattere. Dal punto di vista teologico, questa
posizione sta a dire che il popolo è la sorgente dei ministeri e che esso può,
dunque, scegliersi i propri ministri, in base alle necessità della sua storica
missione rivoluzionaria”.
Si
conclude, richiamando Paolo VI:
“Noi confessiamo che il Regno di
Dio, cominciato quaggiù nella Chiesa di Cristo, ‘non è di questo mondo’, ‘la
cui figura passa’; e che la sua vera crescita non può essere confusa con il
progresso della civiltà, della scienza e della tecnica umane, ma consiste nel
conoscere sempre più profondamente le imperscrutabili ricchezze di Cristo,
nello sperare sempre più fortemente i beni eterni, nel rispondere sempre più
ardentemente all'amore di Dio, e nel dispensare sempre più abbondantemente la
grazia e la santità tra gli uomini”.
Segue
una vasta campagna contro i vescovi e teologi sudamericani che portavano avanti
i temi della Assemblea Generale di Medellin del 1968 e del “Patto delle
catacombe”[11]
a favore della lotta delle classi subalterne. Vengono condannati Leonardo Boff[12] e Gustavo Gutíerrez[13], e il tentativo di fare
del cristianesimo “uno strumento della trasformazione concreta del mondo”[14]. Nel 1989 ben 311 teologi
cattolici, e sedicimila parroci, protestano nella “Dichiarazione di Colonia”
contro la volontà di Ratzinger di estendere il magistero papale alla libertà di
pensiero. Il tono del nostro inquisitore arriva ad opporsi fermamente alla
dichiarazione del Giubileo, nel quale il Papa chiede perdono per gli errori
storici della Chiesa, come l’Inquisizione, la persecuzione degli ebrei, la
discriminazione delle donne. Per il Prefetto della Congregazione la Chiesa non
pecca mai.
Ormai
il punto è “respingere il relativismo” (che, attenzione, significa esattamente
che tutto il Vero è nel messaggio della gerarchia romana) in favore di “punti
fermi” che sono indicati dalla Tradizione romana e cattolica.
Quando
ha 77 anni viene candidato dal Papa come successore con l’appoggio della Curia.
Gli si contrappongono candidati del lato progressista, in primis Jorge
Bergoglio, arcivescovo di Buenos Aires. Del resto Ratzinger è un decano e
conosce la macchina vaticana come nessun altro, e vede l’opportunità di portare
avanti la sua battaglia di “demondizzazione”, ovvero, come dice nel discorso
inaugurale del Conclave, di contrastare la “dittatura del relativismo che non
riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio
io e le sue voglie”. Nel terzo scrutinio Bergoglio prende 40 voti, per
costringere Ratzinger (che deve raggiungere i due terzi) a ritirarsi. Soccorre il
nuovo regolamento che dal quarto scrutinio passa al ballottaggio a maggioranza
semplice. Il 19 aprile 2005 è eletto.
Come
Papa combatte aspramente la “canonizzazione del relativismo”, che lascia
libertà di critica e di pensiero, e riammette i lefrevbiani e della “messa tridentina”
(con il sacerdote rivolto all’altare ed in latino). Attacca l’Islam e concede
un’udienza ad Oriana Fallaci, attacca il razionalismo illuminista e la libertà
di pensiero, fede ed opinione. Secondo l’interpretazione di Hans Küng nella sua
biografia: “Ciò che viene storicamente dopo il Medioevo non interessa a Joseph
Ratzinger come uno sviluppo fecondo, ma piuttosto come uno sviluppo pernicioso,
una fase della decadenza dell’Occidente”[15]. Ma essere contro l’età
moderna tutta significa anche che ci sono valori etici “veri e solidi”,
sottratti al dibattito democratico.
Dopo
la rinuncia del 11 febbraio 2013 il suo candidato perde contro Bergoglio.
Dal
punto di vista filosofico il pensiero di Ratzinger appare connesso con quello
di Heidegger su molti e qualificati punti. In un testo del 1968, riletto da
Roberto Fineschi[16]
viene chiarito che la fede è un salto nell’abisso, in linea di principio
infondata su ciò di cui si può avere esperienza, ma che ritiene essere il “vero
effettuale”, proprio ciò che non si può esperire. Il pensiero tecnico sarebbe
allora quello derivante dalla modernità, per il quale ciò che deve essere fatto
diventa il nuovo fondamento ontologico. “La verità con la quale ha a che
fare l’uomo non è né la verità dell’essere né alla fine quella delle sue azioni
passate, bensì è la verità del cambiamento, della formazione del mondo, una
verità riferita al futuro ed all’azione”[17]. Quindi al
rapporto tra sapere e fare, proprio della impostazione storicista e tecnicistica,
occorre contrapporre quello tra essere immutabile e capire. Si tratta di
affidarsi piuttosto alla fede, che è “il consegnarsi al non-fatto-da-sé e mai
fattibile, che proprio per questo fa da fondamento e rende possibile tutto il
nostro fare”[18]. È la distinzione heideggeriana
tra pensiero calcolatore e pensiero della coscienza, tra le quali occorre
semplicemente scegliere, senza alcuna argomentazione o ragione. ‘Capire’ è la
forma attraverso la quale “riceve il suo rapporto con la verità dell’essere”,
cioè “capire il Senso a cui ci si è affidati”. Ancora, “capire significa
cogliere e comprendere il Senso, che si è ricevuto come fondamento, come Senso vero e proprio”. Ma chi non accede a
questo deve accedervi dialogando con gli illuminati, ovvero con la Chiesa.
In
altre parole, da una parte la mossa parte dal dire che la Verità è data nel
dettato cattolico, e dobbiamo prenderla per buona così come è, dall’altra
aggira l’obbligo di dimostrare una così impegnativa affermazione affermando
semplicemente che non è possibile farlo. Una strana forma di
universalismo, fondata su un’accettazione idiosincratica, indisponibile al
dialogo. Dialogo e discorso razionale che per Hegel è la ‘ragione’ vera e
propria, posta tra la ragione strumentale e quella che chiama la cultura dell’immediato.
Per
come la mette Fineschi,
“Il ratzingerismo fa sparire
tendenziosamente questa terza dimensione e riduce la ragione a mera ragione
strumentale; ciò non è casuale ovviamente: si vorrebbe con ciò far credere cioè
che alla ‘ragione’ – ridotta a calcolo tout court – c’è una sola alternativa
possibile, la legge del cuore; scartata la conoscenza razionale (ma in realtà
intellettuale) l’unica alternativa sarebbe l’irrazionalismo mistico cotto in
varie salse”.
Il
fatto è che in sostanza lui ha paura delle cose che cambiano, le vuole ferme
per controllarle meglio, e quindi si rifugia (proprio mentre accelera il
cambiamento e la rivolta) nella Tradizione, nella sicurezza e stabilità. Inoltre
opera un singolare travestimento del comunitarismo nella gerarchia della Chiesa,
la quale è una comunità della conoscenza di Dio che deve essere accettata ‘per
fede’, insieme al magistero.
Si
potrebbe trattare solo di dispute dottrinali, ma c’è altro. Nella lotta pluridecennale
che Ratzinger, in uno con i settori più conservatori della gerarchia cattolica,
ha condotto contro i fermenti di liberazione che si manifestavano nel
Sudamerica (ma non solo) c’è un sovrappiù. Una precisa scelta di campo.
Dagli
anni Sessanta, e poi nella vicenda cilena, la ‘Teologia della liberazione’
era stata un decisivo centro di elaborazione ed irradiazione di un autentico
spirito di ribellione al dominio imperialista e alla logica della dipendenza
sudamericana, ponendosi con nettezza e coraggio dalla parte dei secondi, e
degli ultimi. I settori conservatori della chiesa cattolica, e le
organizzazioni della destra, come i settori borghesi più legati al dominio
oligarchico e contemporaneamente subalterno alle relazioni di dipendenza internazionali,
si schierarono immediatamente contro questa insorgenza, facendogli pagare un
pesantissimo tributo fino al versamento del sangue di molti esponenti, grandi e
piccoli[19]. Negli anni Ottanta
l’opposizione giunse ai diretti pronunciamenti censori della gerarchia
centrale; con l’ordine da Roma di emarginare, con i mezzi più brutali, migliaia
di sacerdoti, religiosi e laici legati alla “teologia”. E si arrivò in
conseguenza alle azioni più violente del braccio armato del capitalismo
internazionale. Ad esempio, nel 1980 molti gesuiti che militavano in essa
furono uccisi dagli spietati “squadroni della morte” salvadoregni, che non si
fermarono neppure davanti al primate. Nel 1980 viene infatti ucciso sull’altare
l’arcivescovo Romero[20], morte preceduta dall’omicidio
del gesuita Rutilio Grande[21], e seguita, pochi anni
dopo, da quello dell’attivista e collaboratrice Marianella Garcia Villas[22]. Sfortunatamente la lista
è molto lunga.
Singolare
paradosso, che vede persone ed aree che si sentono umiliati ed offesi dalle ineguaglianze
delle quali è intessuta la nostra società, schierarsi insieme alle élite di
tutto il mondo nella celebrazione, voluta dai più potenti mezzi di
manipolazione dell’opinione, della figura centrale della repressione ideologica
(e poi materiale) delle istanze di liberazione. Quel Joseph Ratzinger che nel
combattere la “mondizzazione” intendeva propriamente affermare il potere
gerarchico della Chiesa di Roma e il suo monopolio della Verità, prima e sopra
qualsiasi possibilità di discuterne e dissentire.
Né
si tratta qui di una mera difesa dell’autonomia del magistero storico di una
reverenda istituzione millenaria, o della cultura cristiana, in quanto tale radicalmente
indisponibile a schiacciarsi su fonti di valore secolari incompatibili. Per questo
ogni Papa, incluso l’ultimo, ha sempre fatto il suo dovere. Si tratta di altro.
Della posizione che si prende nei conflitti dirimenti del proprio tempo, e
questo, spiace, mette Ratzinger da una parte specifica e chiara: con i più
forti.
[1] - Uso questo termine vago, ma
autoattribuito, per indicare una complessa costellazione di organizzazioni,
individui e testate che sono in disaccordo su tutto, ma concordi a concepirsi come
radicalmente opposti allo stato delle cose e dei poteri presenti.
[2] - Rinvio, per una valutazione di
questa al mio “La
guerra necessaria. Logiche della dipendenza”, La Fionda 2/2022, p. 143.
[3] - Si vedano in particolare le
encicliche “Laudato
sì”, del 24 maggio 2015, e “Fratelli
tutti”, del 3 ottobre 2020. Per una lettura della prima si veda questo
post “Papa
Francesco, ‘Laudato si”, del 7 luglio 2015.
[4] - Enciclica “Fratelli tutti”,
2020.
[5] - Nel concilio che vide, come
previsto e preparato dal predecessore, vincere Ratzinger il più probabile
avversario era proprio Bergoglio e nel successivo, quando Benedetto aveva
predisposto l’elezione di Angelo Scola, vince al quinto scrutinio.
[6] - Luigino Bruni, “L’arte
della gratuità. Come il capitalismo è nato dal cristianesimo e come lo ha
tradito”, Avvenire, 2021.
[7]
- - Gioacchino da Fiore (1145
- 1202) è stato un monaco cistercense, figlio di un notaio e abate di Corazzo
fino al 1187. Esonerato dal papa Clemente III fondò l’eremo di San Giovanni in
Fiore e fondò l’ordine florense. Scrisse diverse opere teologiche, alcune perse,
come il “De articulis fidei” e il “De unitate seu essentia trintatis”, oltre
alcune opere esegetiche e raccolte di sermoni. La storia è riletta da
Gioacchino come una successione di stadi, che porterà all’epoca dello Spirito,
un’epoca di suprema libertà, perfetta carità, completa spiritualità. Guidata in
questo da un ordine religioso perfetto.
[8] - La “Teologia della
liberazione” prende le mosse dal Concilio Vaticano II, e trae ispirazione,
calandola nella condizione concreta dello sfruttamento, dal tentativo di
Giovanni XXIII di aggiornare il pensiero della chiesa nel mondo moderno,
intorno al senso della giustizia e dell’amore. Si sviluppa da questo impulso
negli anni Sessanta, mettendosi in connessione con la “Teoria della
dipendenza”, neomarxista. Dall’altra parte, nell’insegnamento di Gustavo
Gutierrez, il cui testo capitale è “Teologia della liberazione. Prospettive”,
del 1971, la salvezza viene calata dentro la condizione concreta di povertà e
miseria dei poveri e quindi tradotta in un appello di giustizia. Come scrive
nel suo libro: “Da una prospettiva di fede ciò che, in ultima analisi, spinge i
cristiani a partecipare alla liberazione dei popoli oppressi e delle classi
sociali sfruttate, è il convincimento della totale incompatibilità delle
esigenze evangeliche con una società ingiusta e alienante” (p.124). Seguono
questa linea i fratelli Boff, Jon Sobrino, Enrique Dussel, e Hugo Assmann.
[9] - Roberto Paura, “Indagine
su Ratzinger”, 2.12.2002.
[10] - Sacra Congregazione per la
Dottrina della Fede, “Istruzione
su alcuni aspetti della Teologia della Liberazione”.
[11]
- Subito dopo il Concilio
alcuni vescovi e teologi firmarono il “Patto delle catacombe”, che elencava 13
punti per porre in attuazione questi principi. In America Latina questo impulso
fu particolarmente forte, grazie alla base data dal movimento anni Cinquanta
brasiliano delle “comunità di base”, intorno alla figura di Carlos Mesters e la
Celam (Conferenza episcopale latino-americana). La Celam organizzò a Medellin
un congresso per tradurre le indicazioni conciliari in America Latina. Il tema
principale fu che era la dipendenza economica, e la povertà che ne derivava, a
contrastare con la volontà di Dio, per cui è la liberazione da questa a dover
interessare la chiesa. Ne seguiva il dovere di “difendere, secondo il mandato
evangelico, i diritti dei poveri e degli oppressi”, e, quindi, “denunciare
energicamente gli abusi e le ingiuste conseguenze delle eccessive disuguaglianze
tra ricchi e poveri, tra potenti e deboli” (relazione del vescovo Pironio).
[12] - Ex frate francescano e teologo, dottorato
a Monaco nel 1970 avendo come relatore proprio Joseph Ratzinger, è uno dei più
importanti esponenti della Teologia della Liberazione sudamericano che lo porta
ad un crescente scontro con le gerarchie vaticane. Nel 1984 viene processato a
Roma dalla Congregazione per la Dottrina della Fede del suo vecchio professore
per effetto delle tesi sostenute in “Chiesa: Carisma e Potere”. Nel 1992
abbandona l’Ordine dei Francescani per effetto delle minacce e denunce ricevute
dal Papa Giovanni Paolo II. Da quell’anno si occupa come laico delle comunità
cristiane di base brasiliane ed insegna all’università di Rio de Janeiro.
Diviene un elemento di spicco del Movimento No Global e sostiene Lula. Nella sua
impostazione il nesso tra povertà e capitalismo, e quello tra povertà e
globalizzazione economica portano a ritenere che la liberazione cristiana debba
essere “integrale”, e non concentrata solo sulla componente spirituale. La sua
denuncia dell’atteggiamento delle gerarchie vaticane passa per la qualifica di
atteggiamento ‘feudale’, che concepisce la Chiesa come organo del ricco per
il povero e non con il povero. Riecheggia il dibattito storico tra Agostino
e Pelagio.
[13] - Teologo peruviano dell’Ordine
dei frati predicatori, docente all’Università Notre Dame e dottorato a Lione.
Nel settembre 1984 l’episcopato peruviano, convocato a Roma per condannarlo, si
è opposto fermamente, difendendone l’ortodossia e l’impegno per i poveri. Ha
scritto il libro “Teologia della Liberazione”, nel 1972 e, più di recente,
“Alla ricerca dei poveri di Gesù Cristo”, nel quale ripercorre la vita
di Bartolomeo de Las Casas.
[14] - In Joseph Ratzinger, “Rapporto
sulla fede. Vittorio Messori a colloquio con Joseph Ratzinger”, San Paolo
edizioni, 2005 (ed. or. 1984).
[15] - Hans Küng, “Una battaglia
lunga una vita”, Bur, 2015
[16] - Si tratta di Joseph Ratzinger, “Introduzione
al Cristianesimo. Lezioni sul simbolo apostolico della fede”, Queriniana, 2003, citato in Roberto Fineschi, “Annuntio
vobis gaudium magnum: habemus papam! Ratzinger, a Roma via Friburgo”, Marxismo
oggi", 2005/2.
[17] - Op.cit, p. 32
[18] - Op.cit., p. 37
[19] - Durante gli ultimi anni Settanta
e gli anni Ottanta la ‘Teologia della Liberazione’ pagò un durissimo debito di
sangue per la sua scelta di campo, con l’uccisione di tanti gesuiti, come padre
Espinal Camps (“Lucho”) in Bolivia, ucciso il 21 marzo 1980, tre giorni prima
di Romero in Salvador. Ma dovette subire anche la repressione incruenta della
gerarchia cattolica, che partendo dalla Congregazione della Fede coordinata da
Ratzinger, mise sotto accusa l’intera tendenza, destituendo padre Arrupe
(superiore generale della Compagnia di Gesù) e sostituendo molti vescovi con
esponenti dell’Opus dei. Cfr, https://books.fbk.eu/media/pubblicazioni/allegati/Rizzi_10.14598Annali_studi_relig_14201304.pdf
[20] - Oscar Romero viene ucciso il 24
marzo 1980 nella capitale del San Salvador con un colpo di fucile da parte di
un cecchino in auto. Eletto nel 1977 grazie all’appoggio dell’oligarchia
locale, cambia progressivamente opinione grazie al contatto di teologi della
liberazione come Rutilio Grande. Il 12 marzo 1977 padre Rutilio viene
assassinato insieme a due catecumeni e l’arcivescovo inizia una battaglia che
porterà a continue stragi per vendetta e intimidazione. Ad Aguillares furono
uccisi 200 fedeli, e sempre più collaboratori di Romero ne seguirono le sorti.
Alla fine, il maggiore Roberto D’Aubisson ordinò la sua stessa morte. Venti
giorni prima in un discorso alla radio diocesana disse: “Il martirio è una
grazia di Dio che non credo di meritare, ma se Dio accetta il sacrificio della
mia vita che il mio sangue sia un seme di libertà e il segno che la speranza
sarà presto realtà… Io parlo in prima persona perché questa settimana mi è
arrivato un avviso che sto nella lista di coloro che stanno per essere
eliminati la prossima settimana. Ma rimanga il punto fermo che la voce della
giustizia nessuno mai potrà ammazzarla.” Aveva 63 anni.
[21] - Il gesuita Rutilio Grande,
grande amico di Oscar Romero, viene ucciso il 12 marzo 1977 ad Aguilares. Nato
da una famiglia povera e parroco di Aguillares, dal 1973 si impegna a creare
Comunità Cristiane di Base nelle quali il messaggio religioso viene associato
strettamente ad una inflessibile denuncia delle condizioni di sfruttamento
economico e sociale. Ancorato alla “Teologia della Liberazione” si impegnò
anche per far entrare il suo amico Romero in contatto con le reali condizioni
del paese e del suo popolo. D’Aubisson ne ordinò la morte per mettere a tacere
la sua voce, ma riuscì solo ad amplificarla. Al suo funerale parteciparono
100.000 persone. Aveva 49 anni.
[22] - L’avvocato Marianella Garcia
Villas viene uccisa il 14 marzo 1983 a Suchitoto. Era una figlia della ricca
borghesia locale, laureata in legge e filosofia nel 1970 si impegnò sin
dall’inizio con le comunità contadine salvadoregne, condividendone la dura vita
e impegnandosi nell’Azione Cattolica Universitaria prima poi nel Partito
democratico Cristiano dal quale fu presto emarginata ed espulsa. Fuggita dal
Salvador e rifugiata in Messico (come tanti in quegli anni) continua ad entrare
nel paese per cercare prove delle repressioni e denunciarle all’Onu. Nel corso
di una di queste incursioni, mentre nel 1983 cercava prove dell’utilizzo del
fosforo bianco nelle repressioni della giunta militare, pura sapendo di essere
in testa alla lista delle persone da uccidere (D’Aubisson l’aveva mostrata in
televisione con tanto di foto), fu oggetto di un agguato, ferita, catturata,
selvaggiamente torturata e abbandonata in una discarica in un cumulo di
cadaveri. Aveva 39 anni.
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