Quello che segue è uno dei paragrafi del libro "Classe e Partito", in preparazione per i tipi di Meltemi ed in uscita presumibilmente in primavera-estate.
Fa parte di un breve prologo sui "Capitalismi" che muove dalla lezione di Walter Benjamin per approfondire la forma di vita e di teologia economica implicita ma operante nel capitalismo. Seguirà un capitolo sulle 'rivoluzioni' e quindi un terzo, a completare la Parte Prima, sui 'mutamenti', nei quali, ripassando per il tema delle forme religiose dei capitalismi nel corso del tempo e per le forme idolatriche del mercato come salvezza, si arriva a descrivere il 'compromesso' dei trenta gloriosi, la sua 'revoca' nei successivi quaranta anni, e la 'revoca della revoca' (ovvero il ritorno della storia), in corso di dispiegamento.
La Parte Seconda e Terza (rispettivamente 'concetti' ed 'azioni') si occuperanno di trarre le conclusioni e di segnalare un percorso nella rete concettuale della tradizione marxista (e non solo) per dismettere gli abiti del lutto, propri della 'revoca', e riattivare i potenziali della situazione, evitandone alcuni rischi. Tra questi quello di correre avanti, immaginarsi a cavallo di un'onda mentre se ne viene portati, evitare il sentiero stretto di un lavoro lungo, determinato e paziente, volto alla creazione di nuove soggettività nell'azione di comunità politiche capaci di esprimere una nuova visione del mondo. Tuttavia non da questo estranee e fuggenti, come monaci benedettini. Serve un lavoro sistematico di interpretazione e rottura, azione concreta sui territori, immersione nelle controversie del proprio tempo, fatica del dialogo con i diversi e con i vicini, sforzo della memoria.
Se si naviga nella nebbia bisogna portare a prua una lampada, se si vogliono evitare gli scogli che affiorano ovunque. Avere idea per quale trasformazione sociale si lavora e perché,
Il Capitalismo come forma religiosa.
Il 26 settembre 1940, Walter Benjamin che
aveva compiuto da poco i suoi quarantotto anni, si uccise alla frontiera
spagnola per il timore di cadere, lui ebreo, nelle mani della polizia politica
nazista. La Francia era caduta e il filosofo tedesco, come molti altri, cercava
di riparare negli Stati Uniti. Theodor W. Adorno e Max Horkheimer vi
riuscirono, ma lui, che degli amici e colleghi francofortesi era il più
anziano, se pur di poco, no.
Dopo aver detto del testo del 1940,
retrocediamo. Il frammento “Capitalismo come religione”[1] di
cui vorremmo parlare prima è invece del 1921, ed è forse parte di un progetto
più ampio di “politica” che venti anni dopo non ha ancora compiuto e la morte
impedirà. Anche gli anni nei quali è scritto sono anni tragici e violenti (alla
violenza sono intestati alcuni altri frammenti dell’opera mai nata); la Prima
guerra mondiale, questo conflitto senza precedenti che ha frantumato il senso
dell’Europa, è terminata solo da pochissimi anni, ma anche i tre brevi anni di
pace sono stati, per chi vive in Germania una continua tragedia. Dal 1918 al
1919 fu in corso una continua guerra civile a bassa intensità tra le forze che
si contendevano il potere: le destre che poi troveranno sbocco nel nazismo, le
sinistre divise sull’onda dell’esempio della Rivoluzione russa. In questo
contesto dal 1919 sarà quindi attiva la Repubblica
di Weimar, che però faticherà a
stabilizzarsi. Piano piano saliranno sulla scena gli attori che
contribuiranno a creare la scena in cui Benjamin muore. Nel 1921, ad esempio,
vengono costituite le Sturmabteilung (SA).
Ma non c’è solo il tempo, in questo
scritto. C’è anche la dinamica del pensiero, nell’inseguirsi dei testi e delle
controversie. Si tratta di un tema che, infatti, è molto presente nella
riflessione critica sul capitalismo di inizio secolo. Nel 1904 Max Weber aveva scritto
“L’Etica protestante e lo spirito del
capitalismo”[2], nel 1902 Werner Sombart
aveva pubblicato “Il capitalismo moderno”[3],
nel quale il termine stesso era presentato. L’avvio con questo doppio testo
della scuola storica tedesca è citato[4] da
Benjamin nell’incipit del suo frammento. Ma il tema centrale, quello
dell’illimitatezza del desiderio disperato che la “forma di vita” del
capitalismo introduce nel mondo, rinvia alla riflessione sulle radici che in
quegli stessi anni inquadrava Sombart. Il sociologo tedesco distingueva tra
“mentalità economica precapitalistica” come “erogazione”, equilibrio tra quel che si spende e quel che si
ottiene nella produzione di beni necessari all’uomo “vivo”, e “capitalismo”, che è invece una
“organizzazione economica di scambio” caratterizzata da una nuova
collaborazione dominata dal principio del profitto e dal razionalismo
economico. Ovvero dominata dal “calcolo”. In altre parole, l’obiettivo
“immanente l’idea di organizzazione capitalistica”[5] è
il semplice aumento della quantità di denaro. Questo è il suo “scopo
oggettivo”. Non sfuggirà la relazione di questa riproposta sombartiana con la
lezione marxiana. Il “modo di produzione capitalista”, infatti, anche in Marx (che
Sombart, allora socialista, legge con attenzione) si contraddistingue per
l’accumulazione di “lavoro morto” (ovvero di capitale) del tutto indifferente
ai suoi mezzi. La formula tradizionale è rovesciata, il fine ultimo
dell’economia non è più “vivere bene” (nel proprio ruolo), ma creare “valore”, in linea di principio indefinito ed
illimitato. Il “valore” per il capitalismo non è quindi dettato da una
struttura antecedente di ruoli, o dalla parola di Dio, ma è direttamente una
forma sociale, un modo di creare unità e dissolvere le differenze che diventa
visibile nella metrica del “denaro”. La finalità di tutto diventa quindi creare
la massima quantità possibile di valore, cioè di denaro che lo
rappresenta. Come scriverà un autore che è una delle fonti di Benjamin, Gustav
Landauer, un anarchico ebreo assassinato nel 1919,
“L’unico
‘gegossene’, l’unico idolo, l’unico dio, a cui gli umani hanno dato forma
corporea, è il denaro. Il denaro è artificiale ed è vivo, il denaro genera
denaro e denaro, il denaro ha tutto il potere del mondo. Chi è che non vede,
chi è che ancora oggi non vede che il denaro, che il dio non è altro che uno
spirito scaturito dagli uomini e divenuto cosa viva, divenuto un mostro, che è il
senso divenuto insensatezza della nostra vita? Il denaro non produce ricchezza,
il denaro è ricchezza; è ricchezza per sé; non v’è altro ricco che il denaro”[6].
Ancora nella classica lettura di Sombart,
ripresa infinite volte, l’uomo nella cultura tradizionale è invece
sottodeterminato, incorporato, in una rete sociale di ruoli e dominato dall’idea “che il tenore di
vita debba essere conforme al proprio ceto sociale”. Ovvero debba essere
conforme ai propri doveri. “Lusso” e “nutrimento” sono le coppie di forme
sociali che Sombart individua, l’uomo non ha sempre lavorato per il profitto,
non lo ha fatto per diventare “ricco”. Anche il “lusso” si capisce male con le
categorie contemporanee, su questo Mauss, con la sua descrizione del “potlatc”
aiuta in un altro testo che esce in quel torno di anni[7].
Il “lusso” è in effetti una relazione sociale, un dovere ed una responsabilità verso
dio e gli uomini. Verso la fine Benjamin dirà che il capitalismo non ha vie
di uscita, nessuna via “comunitaria” è possibile in esso, resta solo
l’“individuale-materiale”. Lo stesso concetto di “economia” è radicalmente
diverso nel mondo tradizionale, come quello di “denaro”. Lo scriverà bene
Mauss, si vive dentro le proprie creazioni; l’uomo non è separato dalle
sue azioni, non lo è dalle sue cose
(c’è in realtà un legame nelle due direzioni, delle “cose”), ed anche quindi il
“lavoro” (concetto eminentemente capitalista) non è mai separabile dal legame
sociale, dai ranghi, dai ruoli, dai vincoli, dalle responsabilità, dai doveri,
dagli amori. Quando si lavora si dona se stessi, si esercita e si viene
esercitati da una lealtà. Ricorda
Luigino Bruni, rileggendo Antonio Genovesi[8],
che ciò che può essere solo donato (il proprio tempo, ovvero la propria
vita) richiede sempre reciprocità. Pretende riconoscimento e rispetto,
pretende cioè riconoscenza. “Incentivi” e tanto meno “controlli” non
possono ottenerla. L’uomo, davvero, non lavora per il denaro. Questa
semplicissima verità era chiara ancora nel XVIII secolo, anche agli scozzesi,
ma oggi non è più capita (anche quando è enunciata). La nostra religione non
ce lo consente più. Su questa linea si incontrano quindi anche le
riflessioni coeve di Marcel Mauss sull’economia del dono e di György Lukács sulla
reificazione[9], entrambe pubblicate nel
1923. Dunque, come bene dirà una ventina di anni dopo Polanyi
parlando della rivoluzione
industriale ne “La grande
trasformazione”[10]: “separare il lavoro dalle altre attività della vita
ed assoggettarlo alle leggi del mercato significa annullare tutte le forme
organiche”[11], ovvero estrarre
parte della vita stessa dalle relazioni sociali, dalle strutture “totali” nelle
quali si è formata, per distillarne un elemento solo, attraverso lo strumento
del “contratto” e la sua particolare “libertà”[12].
Rispetto a queste notazioni, tutte di
critici del capitalismo, Max Weber all’epoca amico di Sombart prende una linea
meno netta, qualificando l’attività di lucro come un insieme di atteggiamenti e
tecniche, di orientamenti basati sul calcolo continuo, ma su quello che chiama
“un agire sobrio, riflessivo, costante, ma anche audace”[13].
Dove l’allora socialista Sombart evidenzia anche lo spirito di rapina,
l’aggressività illimitata, l’irrazionalismo (come farà, appunto, Benjamin), il
momento selvaggio, il moderato Weber sottolinea sì l’ambivalenza, ma è
affascinato dagli esiti. Inoltre, pone una relazione diretta tra insorgere del
capitalismo e spirito protestante, luterano e calvinista. La pulsione a
connettere tempo e denaro (viene citato Benjamin Franklin) è trasmettere a
questo la natura “feconda e fruttuosa” del tempo, purché si rispetti l’ethos
della “diligenza e moderazione”. L’irrazionale, ma leale e degno, “guadagnare denaro, sempre più denaro, alla
condizione di evitare rigorosamente ogni piacere spontaneo” (frase di Franklin[14]),
è davvero spoglio da ogni considerazione eudemonistica o edonistica; si tratta
di un semplice e chiaro scopo
“fine a sé stesso con tanta
purezza, da apparire come alcunché di totalmente trascendente, in ogni
caso, e senz’altro irrazionale, di fronte alla <felicità> o
all’<utilità> del singolo individuo”.
Il punto è che questa irrazionalità anche
per Weber contiene dei “sentimenti” connessi a “certe rappresentazioni
religiose”. Lo stesso Benjamin Franklin (che era un deista e quindi non seguiva
la confessione calvinista del padre, nella quale tuttavia era stato educato) se
lo chiede, e nell’autobiografia risponde che gli “uomini” devono “fare denaro”
come espressione dell’essere “spediti nelle proprie faccende” (un versetto
della Bibbia) e dell’abilità nella professione (“beruf”). Deve farlo, insomma, per “dovere professionale”, un dovere
verso il contenuto della propria stessa professione, una sorta di serietà
interna. Queste idee, questa etica, questa valorizzazione del “beruf”, del dovere non è, però, un
semplice rispecchiamento, o una sovrastruttura di condizioni economiche. Per
Weber (che polemizza evidentemente con Marx, o, per meglio dire, lo rovescia)
esse lo precedono. Questo
spirito è, nella sua ambivalenza, quello che lega un interprete contemporaneo
di Weber, come Jurgen Habermas, alla sua sempre riaffermata fiducia (ad esempio
si veda “Verbalizzare il sacro”[15])
nei “potenziali spirituali” della modernità, pur nella contemporanea presenza
di ben viste “tendenze autodistruttive”. La mossa kantiana che ne deriva,
l’universalismo egualitaristico e individualistico al contempo, muove quindi
dalla perdita di questo “senso religioso” e quindi dallo “sganciamento degli
enunciati morali dal contesto sostanzialistico (cosmologico ed escatologico)”[16]
al quale erano connessi, nel senso ricordato con Sombart e Weber. Di qui, per
conservare comunque la “coscienza normativa”, che è una essenziale e irrinunciabile
“struttura dello spirito”, si viene all’unica fondazione residualmente
disponibile: quella basata sulla “razionalità procedurale”. Ma questa presume
quello che Charles Taylor, in una monumentale e fondamentale opera, chiama “il
Grande sradicamento”[17]. Uno
sradicamento favorito dal cristianesimo in occidente, ma che, al contempo, ne
rappresenta una “corruzione”[18]
che ha fatto prevalere la rete disciplinante di norme e di pratiche (quella
che, per altri versi, Habermas chiama “il sistema”) sull’agàpe[19].
La
domanda da farsi è quindi se si è davvero perso questo “senso religioso”. Se la scala è stata davvero gettata dopo essere
“saliti” sulla piattaforma della razionalizzazione del mondo, o piuttosto se,
in forma pervertita, l’incantesimo ci trattiene ancora, anche se non lo vediamo
più. E che quindi, nella stessa mossa inseparabile, la “razionalizzazione”
incorpora, in modo bastardo e irriconoscibile, un “senso religioso” pervertito.
In altre parole: le “tendenze
autodistruttive” di cui parla Habermas (rinviandosi al dibatto dell’inizio
secolo, ovvero alla prima generazione della sua stessa scuola), sono davvero solo un’aggiunta ai “potenziali
spirituali” della modernità, o ne sono piuttosto il codice? Perlomeno una
parte dei suoi codici? Per aiutarci in queste domande andiamo al testo del 1921
di Walter Benjamin: prenderemo le citazioni dalla raccolta “Senza scopo finale. Scritti politici
(1919-1940)”. Sono solo sei pagine, da p.42 a 47, ma sono intensissime.
Mentre Weber, secondo il nostro, vedeva il capitalismo come “una conformazione
determinata dalla religione” (ovvero coevoluta insieme alla trasformazione
delle sensibilità religiose), esso è per Benjamin proprio “un fenomeno essenzialmente religioso”. Nel capitalismo, cioè, “può
ravvisarsi una religione”. In altre parole, come scrive il teologo Hugo
Assmann, la razionalità economica “ha sequestrato e reso funzionale certi
aspetti essenziali del cristianesimo”[20].
Ciò significa che “il capitalismo serve essenzialmente alla soddisfazione delle
medesime ansie, sofferenze, inquietudini, cui un tempo davano risposta le
cosiddette religioni”. Ma che genere di
religione è?
Per Benjamin si tratta di una “pura religione cultuale”, la più
estrema. Un puro riferimento al culto, a quello che Habermas chiama “il rito”
(la ripetizione dei gesti, delle forme, delle pratiche, denso in sé di
significati trattenuti, congelati in essi, non verbalizzati), senza avere “una
teologia”. Il capitalismo in sé non ha infatti una vera e propria dottrina, si
presta ad ogni possibile vestizione. Come ad un certo punto, fulmineamente,
dirà esso ‘si veste anche di socialismo’ (pensando ovviamente al ‘capitalismo
di stato’ russo). È in effetti più il contrario: ogni dottrina che scaturisce
dal culto, dal rito, ha una sorta di “tonalità religiosa”, è una
“verbalizzazione” che non conclude l’intero campo del culto. Così ha una
tonalità religiosa per Benjamin “l’utilitarismo” (noi potremmo oggi dire il liberismo).
Secondo carattere è che si tratta di un
culto “senza tregua e senza pietà”.
Ininterrotto, costante, onnipresente, che entra in ogni cellula e tutto
cattura.
Terzo, è un culto che “genera colpa” (la
parola usata è schuld, della quale il
nostro segnala “l’ambiguità demoniaca”) cioè anche “debito”. Come dice “il capitalismo è verosimilmente il primo
caso di culto che non purifica ma colpevolizza [ed indebita]. Così facendo,
tale sistema religioso precipita in un moto immane”. Cioè anche in una
“immane coscienza della colpa [del debito] che non sa purificarsi [da cui non
ci si redime], fa ricorso al culto non per espiazione in esso di questa colpa,
ma per renderla universale, per martellarla nella coscienza e infine e
soprattutto per coinvolgere dio stesso in questa colpa e interessarlo infine
all’espiazione”. Ma questa espiazione non arriva mai; infatti “sta nell’essenza
di questo movimento religioso che è il capitalismo, resistere sino alla fine,
fino alla definitiva, completa, colpevolizzazione di dio, fino al
raggiungimento dello stato di disperazione del mondo”. Fino alla
“autodistruzione” dello “spirito” (normativo) di cui parla Habermas con
riferimento allo spettacolo dello scatenamento del capitale nella forma
finanziaria che con i suoi “flussi” distrugge sempre di nuovo il mondo.
Per Benjamin, dove trova luogo “l’elemento storicamente inaudito del
capitalismo: la religione non è
più riforma dell’essere, ma la sua riduzione in frantumi”[21]. Si
tratta della vera e propria “estensione
della disperazione a stato religioso del mondo”, una disperazione da cui,
assurdamente, doversi “attendere la salvezza”. Siamo nell’assoluta solitudine
della fine della trascendenza, e quindi dell’implicazione di dio nel destino
umano. Nietzsche e Freud sono citati a supporto di questo codice, pensieri che
“appartengono al dominio sacerdotale di questo culto”. Non si trova più
salvezza nella umkehr (nel
‘rivolgimento’, ‘capovolgimento’, ‘conversione’ e quindi ‘pentimento’,
‘metaonia’, e ‘ripartenza’), ma nel “potenziamento”, costante, illimitato. Un
potenziamento che non fa salti, e
attraversa il cielo.
Il teologo della liberazione sudamericano
Assman, pur senza citare Benjamin, né il dibattito degli anni Venti-Quaranta
(al di fuori del solo Polanyi che, in qualche modo, ne tira i fili) dirà cose
molto simili. La promessa di autoregolazione senza alcun intervento umano
intenzionale assume nel capitalismo il carattere di “buona novella” e di
idolatria. Una buona novella strettamente connessa ad una “ideologia
sacrificale” a danno sistematico della vita concreta. Questa strada della
redenzione attraverso il potenziamento, la crescita, traspare anche in Marx.
Per Benjamin, infatti: parimenti in Marx “il
capitalismo che non inverte la rotta diviene, con interessi ed interessi composti che sono funzioni della colpa (si
badi all’ambiguità demoniaca di questo concetto), socialismo”. Insomma, anche il socialismo (nella sua versione
industrialista e progressista, ipostatizzante la tecnica e lo sviluppo
materiale delle “forze produttive”) “appartiene al dominio sacerdotale di
questo culto”. Partecipa al culto. Ma, infatti, come dice Benjamin “il capitalismo è una religione di mero
culto, senza dogma”[22].
Del resto del legame tra capitalismo e religione era ben cosciente lo stesso Marx,
che nel terzo volume de “Il Capitale”,
alla fine del capitolo trentacinquesimo sull’argomento dei metalli preziosi e
il corso dei cambi scrive improvvisamente:
“Il sistema
monetario è essenzialmente cattolico, il sistema creditizio è essenzialmente
protestante. ‘The Scotch hate gold’. Come carta l’esistenza monetaria delle
merci ha soltanto una esistenza sociale. È la fede che rende beati
[rif. alla dottrina di Lutero]. La fede
nel valore monetario come spirito immanente delle merci, la fede nel modo di
produzione e nel suo ordine prestabilito, la fede nei singoli agenti della
produzione come semplici personificazioni del capitale autovalorizzantesi.
Ma come il protestantesimo non riesce ad emanciparsi dai principi del
cattolicesimo, così il sistema creditizio non si emancipa dalla base del
sistema monetario”[23].
In effetti, qui la tesi di Benjamin sembra
affine a quella di Weber, ma se ne discosta, scrive, infatti:
“il capitalismo – come va dimostrato non solo per il
calvinismo, ma anche per gli altri indirizzi cristiani ortodossi – si è
sviluppato in occidente in modo parassitario sul cristianesimo, in
modo tale che alla fin fine per l’essenziale la storia di quest’ultimo è la
storia del suo parassita, il capitalismo”[24].
[1] - Walter Benjamin, “Capitalismo
come religione”, 1921, ora in “Senza scopo finale”, Castelvecchi, 2017,
p.42.
[2] - Max Weber, “L’etica
protestante e lo spirito del capitalismo”, Rizzoli 1991 (ed.or.1904).
[3] - Werner Sombart, “Il
capitalismo moderno”, Ledizioni 2020 (ed. or. 1902).
[4] - Con riferimento a Weber ed alla
tesi della dipendenza del capitalismo dallo spirito protestante.
[5] - Sombart, cit, p. 162
[6] - Gustav Landauer, “Aufruf zum
sozialismus”, Berlin, 1919.
[7] - Marcel Mauss, “Saggio sul
dono”, Einaudi, 1965, ed. or.1923.
[8] - Luigino Bruni, “Il mercato e
il dono”, Bocconi, 2016.
[9] - György Lukács, “Storia e
coscienza di classe”, 1923, Cit. in Axel Honneth, “Reificazione”,
[10] - Karl Polanyi, “La grande
trasformazione”, Einaudi, 1974 (ed. or. 1942).
[11] - Polanyi, cit., p. 210
[12] - Su questo si può leggere anche
la ricostruzione fatta da Axel Honneth in “Il diritto della libertà”,
Codice ed. 2015
[13] - Max Weber, cit., p.92
[14] - Max Weber, cit. p.76.
[15] - Jurgen Habermas, “Verbalizzare
il sacro”, Laterza 2015.
[16] - Habermas, cit., p. 179
[17] - Charles Taylor, “L’età
secolare”, Feltrinelli 2009 (ed. or. 2007), pp. 192 e seg.
[18] - Si veda, ad esempio, la tesi di
Ivan Illich per la quale la modernità non sia in realtà post-cristiana quanto,
piuttosto, “un pervertimento del messaggio neotestamentario”, ovvero “un mondo
apocalittico”. Qualcosa che a lungo ha ‘covato’, un mysterium iniquitatis. Ivan
Illich, “Commiato”, in “I fiumi a nord del futuro”, Quodlibet 2009 (ed.
or. 2005), p. 162
[19] - Caritas, o ἀγάπη, ovvero amore disinteressato,
gratuito, ma anche senza limiti, corrrispondente all’espressione ahabâ
del Vecchio testamento.
[20] - Hugo Assmann, “Idolatria del
mercato. Saggio su economia e teologia”, Castelvecchi 2020, ed or. 1990.
[21] - Benjamin, cit., p.43
[22] - Benjamin, cit., p. 45
[23] - Karl Marx, “Il Capitale”,
Editori Riuniti, p.690.
[24] - Benjamin, cit., idem
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