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lunedì 22 maggio 2023

Carlo Formenti “Guerra e Rivoluzione”

 

 

Schema

Il libro di Carlo Formenti è diviso in due testi, la prima parte, “Le macerie dell’impero[1], introduce una profonda rilettura della tradizione marxista, in particolare guidata da una rilettura di autori come Costanzo Preve, Lukacs ed Ernst Bloch. Quindi ricostruisce sinteticamente quegli scenari di guerra di classe dall’alto che nel ventennio abbondante dagli anni Ottanta alla crisi finanziaria aperta (ma non chiusa) nel 2007-8 hanno profondamente ristrutturato il campo dei conflitti sociali in Occidente e nel mondo. Termina il secondo capitolo un bozzetto della ‘mobilitazione totale’ che chiude, per ora, il quindicennio della crisi di sistema degli anni Dieci con la rapida successione della mobilitazione pandemica, prima, e militare, poi. Il primo volume definisce, infine, i “nemici”: il liberalismo tutto, l’impero e le ‘sinistre de capitale’.

 

Il secondo volume, “Elogio dei socialismi imperfetti[2], parte con gli esempi (come il primo aveva chiuso con i ‘nemici’): la rivoluzione paziente cinese, il socialismo reale e la sua damnatio memoriae, il postneoliberalismo dell’America Latina. Nella seconda parte entra finalmente nel tema della costruzione di un partito di classe, muovendo dall’enorme problema di definire la composizione di questa e passando per una serrata discussione sui fenomeni morbosi del presente, il populismo e sovranismo, le tante facce della ‘libertà’.

 

Completano il testo una postfazione di Vladimiro Giacché, e alcune appendici affidate a Onofrio Romano (“Un’alternativa di civiltà”), Alessandro Somma (“Il mercato delle riforme. Come l’Europa è divenuta un dispositivo neoliberale irriformabile”), Alessandro Visalli (“Le teorie e la realtà della dipendenza. Una panoramica storica”).

 

E’ dunque un testo lungo (circa seicento pagine), ed al contempo compatto con l’ambizione di fornire una visione coerente dello stato presente.

 

Lo riassumerei in questo modo, prendendomi la responsabilità di estrarre dei temi:

-        Carlo ritiene (insieme a me) di essere in un momento di grande transizione storico-epocale,

-        una transizione di sistema e, ad un tempo, di egemonia nei sistemi-mondo (l’estenuazione di vecchie egemonie e la riarticolazione dei sistemi gerarchici di relazione centro-periferia),

-        propone una visione unitaria e coerente che muove da una rilettura interna della tradizione marxista (proponendo riletture di Lukacs, Arrighi. Gramsci, Lenin, insieme a Losurdo, Michéa, Preve, Polanyi e analisi critiche di Laclau, alcune cose di Marx),

-        il percorso complessivo va dalla definizione di una cassetta degli attrezzi, a letture di scenario ad ampio raggio, all'identificazione di 'nemici' di classe, la ricostruzione di casi e, nella seconda parte, un’interpretazione della composizione di classe, della dinamica del populismo e del nesso democrazia-comunismo.

 

Vedrei due tesi stagliarsi su tutto, ed un nesso interno a fare da motore del dispositivo di lettura:

1-     il marxismo non è una scienza nel senso gaileiano-newtoniano, classico, ma una prassi teoricamente informata. Il suo metodo consiste in un costante richiamo alla totalità (Hegel e Lukacs) ed alla storia come luogo di conflitti priva di qualsiasi telos immanente. Con una formula famosa, non serve a conoscere il mondo ma a cambiarlo[3].

2-     la rivoluzione non è il dispiegarsi di una dinamica immanente alle forze operanti nella storia (o nello sviluppo delle forze produttive), ma un evento che aziona un freno di emergenza,

 

Essa oggi si manifesta (se lo fa) contro:

-        l'imperialismo culturale (o, in altri termini, l'universalismo neo-coloniale) di cui molte sinistre sono (non da sole) oggi alfieri,

-        l'imperialismo politico ed economico (dei diversi 'occidenti'),

-        il liberismo metamorfico (che spesso nasconde la sua egemonia anche in chi pensa di esserne nemico, ma ne subisce la struttura categoriale).

 

I tre casi che il testo (doppio) illustra sono quelli del 'socialismo con caratteristiche cinesi', della rivolta dei popoli periferici in America Latina, e il caso storico dei socialismi reali. Ovvero la 'rivoluzione paziente', quella dove non l'aspetti e quella sconfitta.

 

Di qui quelle che proverei a chiamare le tre tesi:

1-     l'importanza dei 'socialismi imperfetti' (contro l'utopia),

2-     la libertà concreta come lotta con la necessità (e non come astrazione dai vincoli),

3-     l'importanza di distinguersi dalle 'sinistre del capitale', ovvero contro lo sguardo da nessun luogo e per la costruzione di una prospettiva di parte.

 

Infine, il problema politico posto dai testi:

-        la dissoluzione della classe,

-        la reazione populista,

-        il nesso tra democrazia e comunismo come nesso tra necessità e libertà. Fuori di qualsiasi modello a priori.

Articolazione

Per chi avesse poca dimestichezza con l’area di discussione alla quale il testo si riferisce, la cosiddetta “guerra di classe dall’alto” (una formulazione resa famosa da Luciano Gallino[4]) è un ampio movimento che prende velocità durante gli anni Settanta e trova forma ben riconoscibile dopo la metà degli anni Ottanta, in un nesso inestricabile di innovazioni tecnologiche ed organizzative, grandi ristrutturazioni industriali, processi di decentramento e organizzazione a rete della Grande Impresa, sia sul piano nazionale come internazionale, politiche di austerità e di restrizione salariale e sindacale. Tutti questi processi si presentano sulla scena, e sono giustificati, come necessaria reazione alle condizioni stagflattive del decennio e alla cosiddetta ‘crisi fiscale dello Stato’. Il processo esita, e questo si vede molto bene nei successivi anni Novanta, in una sempre più pronunciata finanziarizzazione e mondializzazione economica e nelle sue concause e conseguenze: la crisi della democrazia reale (proprio mentre se ne proclama a gran voce il definitivo successo), la diffusione delle tecnologie informatiche e poi di comunicazione nel sistema sociale in modo sempre più capillare, il radicale mutamento delle mentalità, dell’azione collettiva, e dell’autopercezione.

 

Nessuno di questi fenomeni può essere interpretato come un irreversibile esito del movimento del Progresso o della Storia. L’espansione della finanza, strettamente connessa con la sempre più veloce e potente mobilitazione dei flussi di merci, uomini e dispositivi produttivi, è un fenomeno ciclico, che si è dato più e più volte nella storia recente e meno recente. Su questo punto Carlo Formenti segue la lezione di Giovanni Arrighi[5] che lo vede come un interludio tra due cicli di accumulazione nei quali prevale, invece, la cosiddetta ‘logica territorialista’.

La cosiddetta ‘globalizzazione’ è dunque solo la forma che prende l’egemonia anglosassone (ed in particolare americana) nel momento in cui vengono lasciate le briglie alle grandi imprese multinazionali per rompere la forza delle organizzazioni del lavoro (che stavano rendendo difficile ricondurre la stagflazione, a sua volta epifenomeno della lotta Nord-Sud del mondo). L’economia del debito (pubblico) è una conseguenza dell’impossibilità di ricondurre nel perimetro fiscale dello Stato gli ingenti profitti internazionali delle imprese e, dall’altra, di trattenere i capitali resi fluidi da sempre nuovi strumenti e tecniche. Tutte queste sono condizioni nelle quali la democrazia reale soffre, e gli stessi partiti vedono un mutamento verso la forma contemporanea, completamente liquida. La digitalizzazione dell’economia completa il tutto.

Nel secondo decennio del Duemila tutto ciò giunge ad uno stadio finale di estenuazione e la guerra neoliberale contro le classi popolari si muta in uno sforzo palese di estendere la mobilitazione ideologica contro sempre nuovi falsi bersagli. Di fronte a diversi segnali di rimobilitazione, se pur ideologicamente e organizzativamente confusi e comunque ambigui, il sia pur complesso sistema di governo è messo di fronte al problema della perdita di consenso negli anni che vanno dal 2008 al 2016. Inoltre, si presenta la sfida esterna della Cina, il protagonismo putiniano (ad esempio in Siria) e le ripetute ondate sudamericane a porre in questione l’egemonia statunitense. Subito dopo il trauma del 2016-2018 (dalla Brexit e Trump alle elezioni antisistemiche in Italia), mentre già i segnali di sfilacciamento della mondializzazione commerciale si facevano sentire, nel 2019 una subitanea crisi sanitaria (peraltro attesa da tempo) ha indotto provvedimenti letteralmente senza precedenti (a questa scala, normali a scale minori) che hanno lacerato il tessuto delle relazioni internazionali economiche mondiali.

 

La reazione è stata brutale:

-        mobilitazione politico-ideologica verso l’interno e l’esterno,

-        accelerazione verso il confronto militare con i paesi sfidanti (prima la Russia e poi, in prospettiva, la Cina),

-        drastico sforzo di ridisegnare le economie su basi di maggior controllo (nella logica ‘territorialista’, appunto).

 

I ruoli si invertono: la Cina cerca di tenere in piedi una qualche mondializzazione delle merci e produzioni, mentre gli Usa, sempre più, cercano di ricondurre sotto controllo con ogni mezzo gli spiriti animali del mercato. Inoltre, la nuova amministrazione Biden tenta il tutto per tutto, spingendo la piccola e disperata Ucraina a fare da punta di lancia verso il corpaccione dell’orso russo, nella speranza di sfiancarne le forze e provocarne la frammentazione e disciplinamento. Spinta a cui, infine, dopo molti tentativi di mediazione il nazionalismo russo risponde brutalmente. Come scrive Formenti “il progetto è di provocare la caduta di Putin e instaurare a Mosca un regime ‘amico’ qual era quello di Eltsin, completando l’integrazione/colonizzazione dell’Est Europa da parte del blocco occidentale”[6]. Ci si muove sull’orlo della guerra nucleare e, per ora, si ottiene solo il risultato di saldare l’asse Cina-Russia che in tutte le analisi di parte americana degli ultimi decenni era paventata come l’unica, reale, possibilità di perdere la partita dell’egemonia mondiale (a partire dal ruolo del dollaro).

 

Quel che si può per ora concludere da questa brevissima ricostruzione è che quel che tutti i critici progressisti ritenevano impossibile è puntualmente accaduto:

-        lo scontro tra blocchi si è ripresentato, e con esso il nazionalismo e il militarismo,

-        l’attesa svolta neo-keynesiana è in corso, ma nella forma di economia di guerra e di riconversione produttiva forzata (sulla base delle due scelte politiche della green economy e del digitale),

-        la mondializzazione è ormai una bandiera buttata a terra (e, semmai, presa dai nemici).

 

In questo scenario drammatico sarebbe particolarmente necessario disporre di strumenti di analisi e critica affilati, ma decenni di dominio della cultura neoliberale hanno reso del tutto impossibile accedervi. La radicalità è da tempo interpretata come una versione bohemienne del modello dell’imprenditore e manager individualista e creativo, che è l’eroe imposto a partire dagli anni Ottanta in infiniti programmi di indottrinamento e mezzi di comunicazione. Si tratta, del resto, di una direzione coerente con la controcultura della generazione boomer e la sua ‘critica artistica’[7]. Ed una direzione che la ‘sinistra’ ha fatto propria con entusiasmo, facendosi interamente liberale e facendo proprie tutte sue le storiche battaglie (da quella, seminale ed identitaria, contro lo Stato che opprime l’individuo, a quella di ogni spirito creativo contro i vincoli comunitari). Il testo di Formenti spende gli ultimi tre capitoli del primo volume nell’impresa di descrivere i tre “nemici” (il liberalismo, l’impero e le ‘sinistre del capitale’).

 

Più analiticamente, nel primo capitolo avvia invece il tentativo di mettere a fuoco la ‘cassetta degli attrezzi’ per reagire a questa deriva muovendo da una frase incisiva:

 

Il marxismo non è una disciplina accademica, anche se si è cercato di trasformarlo, di volta in volta, in un capitolo della storia della filosofia, dell’economia politica, della sociologia o della politologia. Il marxismo è - o almeno dovrebbe essere – uno strumento della lotta di classe, la cassetta degli attrezzi per fare analisi concreta della situazione concreta e individuare le vie più efficaci per colpire il nemico[8].

 

Dunque, esso non è una scienza. Almeno non lo è nel senso comunemente inteso di una scienza che procede isolando i fenomeni, classificandoli e rendendoli riproducibili e manipolabili, secondo l’impostazione galileiana-newtoniana. Il marxismo è piuttosto una prassi ed una tradizione, teoricamente informata, che riconduce ogni evento al suo inserimento nella totalità dei rapporti e delle forze ed alla storia concreta dei conflitti incarnati, privi di ogni telos necessario. Presa al suo meglio, ovvero depurato da storicismo, economicismo e utopismo, la lezione di Marx consiste nella tensione a fornire gli strumenti di una prassi di emancipazione che deve essere ricostruita concretamente dagli attori materialmente esistenti.

Non si tratta di attendere, tanto meno di favorire, il ‘normale’ dispiegarsi della dinamica delle forze agenti nella situazione, attendendosi che per un qualche fortunato ‘destino’ della storia la talpa trovi la giusta direzione ed emerga nel mondo nuovo. Questo residuo millenarista e messianico, di grande capacità in termini di proselitismo tra i marginali (perché promette il paradiso al termine della sofferenza), ma, al contempo tale da inibire l’azione concreta (in quanto, alla fine, basta attendere), è l’obiettivo principale del testo formentiano. Rileggendo Lukacs viene sostenuto che l’unica scienza possibile è quella storica, e questa non fa previsioni ma ha il volto diretto alle spalle.

Né si tratta, è un’altra e precedente forma di pensiero religioso e teologia rovesciata, di immaginare che la liberazione possa scaturire dalla dinamica spontanea ed ‘orizzontale’ degli individui, i quali affrancandosi dai vincoli comunitari e storico-culturali, come dalle forme di organizzazione date (e dallo stato), possano, perseguendo ciascuno il proprio progetto, ottenere il medesimo paradiso.

 

Talvolta anche Marx sembra indulgere in tale idea (la quale, d’altra parte, è parte grande della tradizione illuminista). L’idea si presenta travestita sotto il velo della fiducia nello scatenamento delle forze produttive e della loro immanente dynamis. E ne derivano come corollari che questo, il capitalismo, se pure oggi opprimente:

-        ha una funzione comunque ‘civilizzatrice’ (nel momento in cui libera dai vincoli comunitari),

-        non ha alcun ‘fuori’ (e si estende per sua natura a tutto il mondo),

-        conduce ad un modo interamente pacificato, abitato da ‘individui totali’ nella più completa dissoluzione di ogni struttura politica.

 

Sostiene questa critica una lettura di autori come Costanzo Preve, che mette in evidenza la commistione non risolta nella impostazione marxiana di un piano “grande narrativo” e “deterministico-naturalistico” con uno ‘ontologico-sociale’. Il primo piano è espressione della necessità immanente del processo, figlia dello scientismo newtoniano nella versione ottocentesca, e fa leggere il comunismo come uno sbocco necessario, prevedibile scientificamente, e inscritto nella logica e nella meccanica della produzione capitalista. Il piano ‘ontologico-sociale, invece, si fonda sulla capacità dell’uomo di trasformare il mondo attraverso il progetto ed il lavoro che attivano catene causali semi-determinate nella situazione. In tale direzione la complessità delle interazioni e degli scontri tra i progetti di lavoro determinano lo storico sociale che può essere ricostruito (con sguardo alla totalità) solo ‘dopo la festa’.

 

Con questi strumenti, venendo al campo del Secondo volume, si può comprendere come Formenti non cada nell’identificazione del fenomeno cinese come semplice ‘capitalismo’ (un ibrido tra il ‘capitalismo di stato’ russo di vecchia memoria e il capitalismo neoliberale), né come un’altra forma di ‘imperialismo’. Rileggendo anche su questo punto Arrighi[9], oltre che i più recenti Diego Angelo Bertozzi[10] e Giacomo Gabellini[11], egli ricostruisce la pluridecennale traiettoria del regno di mezzo, respingendo al termine le accuse di totalitarismo (sottolineando le differenze culturali che fondano la legittimità del sistema di potere cinese, in grado di meritarsi con i fatti il ‘favore del cielo’), e sottolineando la particolare forma di democrazia orientale, che vede processi di consultazione ed elezioni che muovono dal basso all’alto per anni, in un andamento piramidale a circolazione complessa.

Né, d’altra parte, la Cina può essere considerata semplicemente ‘capitalista’. Almeno nella misura in cui non sia la mera presenza di capitali (o di capitalisti) a costituire la forma sociale ‘capitalista’, invece che il potere espresso nel dirigere la società. E qui la stessa lamentazione Occidentale di autoritarismo dice come le grandi imprese capitaliste non riescano ad esercitare un adeguato controllo, soprattutto con Xi Jimping.

 

La lettura del caso cinese, e di quello del Sud America, portano Formenti a formulare la tesi che, senza indulgere all’utopia, sono i concreti ed imperfetti ‘socialismi’ quelli ai quali dobbiamo dare attenzione. Malgrado tutte le difficoltà poste dalla dissoluzione della classe lavoratrice in mille frazioni inconsapevoli di sé, la direzione più promettente nasce da una profonda riflessione sulla libertà. Rileggendo Lukacs essa, per Formenti, origina in senso ontologico (e non logico-gnoseologico) nel lavoro. Ovvero in quell’atto, o complesso di fatti, di coscienza per effetto dei quali sorge, in un complesso sociale totale, un nuovo essere. Nuovo essere che non è meramente il risultato del progetto, tanto meno di questo in condizioni astratte (da ‘tabula rasa’), ma l’evento emergente da possibilità concrete nello scontro tra altre. Il ‘problema reale’ della libertà deriva da questo venire alle mani con la realtà, gettandovi un progetto e innescandone il potenziale. Questa libertà non si lascia definire una volta per tutte ed astrattamente, fuori della lotta.

Lukacs, nel terzo volume della “Ontologia[12] afferma che, se intendiamo parlare “in modo sensato”, il fondamento della libertà è un momento della realtà che “consiste in una decisione concreta fra diverse possibilità concrete”[13]. Ora, ciò implica, come peraltro ricorda anche Elster in un diverso contesto teorico[14], che la libertà, quando è letta come carattere dell’uomo che vive nella società, non è mai del tutto priva di una dimensione di determinazione dai vincoli e dai fatti. Almeno se questo uomo agisce socialmente. Ovvero se si cala in una struttura di riconoscimenti, in parte istituzionalizzata, che gli consente di definirsi come sé e di dare corpo alla libertà[15].

 

Dunque ogni alternativa, come dice Lukacs, “per sua essenza ontologica” è sempre concreta, locale socialmente incorporata in un campo di cui non dispone (completamente), mentre le alternative assolute sono solo pensabili sul piano logico-gnoseologico. Lungi dall’essere astratto-generali, le decisioni, entro il cui campo si può dare la libertà effettivamente esistente, hanno luogo entro questa “totalità concreta” descritta come innesto reciproco di scelte e situazioni. Tutte articolate nella forma “se … allora”.

Insomma, si tratta dell’idea di una libertà autoprodotta, aperta, a partire dalle appartenenze e dal reciproco riconoscimento attivato e mobilitato intorno alle lotte ed alle istanze concrete di solidarietà o di conflitto. Dunque anche dalle esperienze di schiacciamento e oppressione che si esperiscono nella vita quotidiana. Contro la libertà astratta e colonizzabile della tradizione liberale (in particolare nella versione contemporanea) si può dire che questa prospettiva opponga la possibilità di una libertà che scaturisce dalla solidarietà concreta ed è socialmente mobilitata. Che scaturisce non da cataloghi individualmente mobilitabili tramite preformate strutture ma da conflitti concreti in situazioni storiche.

L’idea di libertà che, viceversa, domina l’impostazione liberale è tratteggiata da Thomas Hobbes, come “assenza di opposizione”, ovvero di “assenza di impedimenti esterni al movimento”.

 

libertà significa, propriamente, l’assenza di opposizione (per opposizione intendo impedimenti esterni al moto), e può riferirsi non meno alle creature irrazionali e inanimate, che a quelle razionali. … un uomo libero è colui che, in quelle cose che la sua forza ed il suo ingegno lo mettono in grado di fare, non è impedito di fare ciò che vuole” [16].

 

Senza entrare nei dettagli, o nella complessa relazione tra libertà e necessità, che induce Hobbes a negare il libero arbitrio, si tratta di una linea genealogica che si consolida e struttura in Locke, Mill e che finisce per definirsi come riserva per comportamenti egocentrici, sottratti ad ogni pressione sociale derivante da concrete società. Questa forma di libertà (cosiddetta “negativa”) non accetta alcuna autolimitazione in quanto ancorata alla premessa che l’uomo è individuo il quale, nello ‘stato di natura’ antecedente alla società può compiere ‘calcoli razionali’ senza premesse. Ovvero senza alcuno scambio antecedente e senza che sussistano impegni pre-contrattuali.  

Oltre questa posizione si trova Rousseau, che ad esempio nell’Emilio distingue tra azioni autonome ed eteronome, per cui l’uomo che sottostà all’impulso del suo solo ‘appetito’ non è veramente libero, ma lo diventa se agisce “in obbedienza alla legge che lui stesso si è prescritta”[17], legge che produce un “corpo morale collettivo” ed una corrispondente “volontà generale”. E di qui si apre il bivio che, da una parte porta a Kant, dall’altra al romanticismo di Herder, tra autodeterminazione e autorealizzazione. La seconda linea, molto in linea con il sentimento contemporaneo, ha due determinazioni logiche: o l’autorealizzazione è nel potere dell’individuo (contro il collettivo), o, viceversa, quella concezione che la vede come un’impresa per sua natura comunitaria e cooperativa. Per come la mette Honneth, nel secondo caso:

 

“in base a questa concezione, il singolo di per sé non possiede affatto la capacità di realizzarsi, poiché il suo autentico sé è così fortemente un momento o un’espressione della comunità sociale da poterlo dispiegare soltanto nella cooperazione collettiva; pertanto la libertà, che qui viene assunta come presupposto, è sempre il risultato di una prestazione riflessiva che può essere compiuta soltanto da un soggetto collettivo”[18].

 

Il punto qui è che la valorizzazione, compiuta nel testo, degli sforzi collettivi strettamente dipendenti dalle concrete situazioni date dei ‘socialismi imperfetti’, e l’indisponibilità a condannarne gli esiti in base ad una concezione meramente astratta e logico-gnoseologica, scaturisce da questa tradizione.

 

 

Venendo ad un piano più concreto, per Formenti,

 

“nell’attuale contesto storico, un percorso di riforme radicali che in anni precedenti al trionfo del neoliberismo si sarebbe definito socialdemocratico, potrebbe essere attuato solo con una rivoluzione”[19].

 

Dove l’assetto ‘socialdemocratico’ è definito concretamente come economia mista e sistema avanzato di welfare. E dove la ‘rivoluzione’ significa trasformazione progressiva, ma sistematica, dell’assetto liberaldemocratico in favore di forme di democrazia diffusa e diretta che, però, non possono implicare il sogno della dissoluzione dell’autorità. Su questo sottile crinale si muove un radicale rigetto di ogni forma di liberalismo (tutte, dal liberalismo classico, o neo, alle versioni ‘liberal’, o ai movimenti post-comunisti, liberalsocialisti, anarchici), in quanto debitrice di premesse individualiste e ‘Occidentali’ (nel senso di illuministe, borghesi ed eurocentriche), ma anche il rifiuto delle versioni mainstream dei diritti cosiddetti ‘universali’, normalmente limitati a quelli civili. E si trova il punto di discrimine di quella che Galvano della Volpe chiamava la “libertas maior” (ovvero la libertà sociale)[20].

La rivoluzione socialista non è, dunque, l’attuazione piena della rivoluzione borghese e democratico-liberale. Essa è:

-        strutturalmente diversa, in quanto compiuta dal basso e dai senza potere,

-        incompatibile con i principianti-statalisti ed anti-socialisti dei movimenti sociali post-materialisti (femminismo, ecologismo, pacifismo generico, Lgbt, …)[21].

 

Le conclusioni di questa parte sono dunque:

1-     che socialismo e mercato possono convivere anche utilmente, ma solo se la borghesia viene espropriata del potere di influenza politica e questa resta saldamente nelle mani dello stato, attuando una sorta di conflittualità perenne,

2-     che non esiste e non può esistere un “soggetto” rivoluzionario per sua natura, ma solo una galassia di soggetti che possono essere egemonizzati in un progetto solo da una guida politica,

3-     che non esiste alcun “modello” rivoluzionario, e tanto meno uno esportabile, perché in ogni paese la lotta di classe assume le proprie caratteristiche, in relazione alla storia e culture locali,

4-     che lo stato non è un moloch da abbattere, ma un terreno di lotta.

 

Infine, si tratta di costruire (e non ri-costruire) il partito di classe, dove nessuno dei due precede l’altro. Né si possono produrre alleanze prima di questo processo di creazione di senso e di capacità. Il fallimento del tentativo dei “populismi di sinistra” ne è un buon esempio.



[1] - Carlo Formenti, Guerra e Rivoluzione. Le macerie dell’impero, Meltemi, Milano 2023

[2] - Carlo Formenti, Guerra e rivoluzione. Elogio dei socialismi imperfetti, Meltemi, Milano, 2023.

[3] - Il riferimento preciso è all’11° tesi su Feuerbach di Marx: “i filosofi hanno finora interpretato il mondo in modi diversi; si tratta ora di trasformarlo”.

[4] - Luciano Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe, Laterza, Roma-Bari, 2012.

[5] - Uno su tutti, Giovanni Arrighi, Il lungo XX secolo, Denaro, potere e le origini del nostro tempo, Il Saggiatore, Milano, 1996.

[6] - Carlo Formenti, Guerra e Rivoluzione. Le macerie dell’impero, op.cit., p. 83

[7] - E’ d’obbligo citare Luc Boltanski, Eve Chiappello, Il nuovo spirito del capitalismo, Mimesis-Milano, 2014.

[8] - Carlo Formenti, op.cit., p. 21

[9] - Ma la sua ultima opera, Giovanni Arrighi, Adam Smith a Pechino, Feltrinelli, Milano 2007.

[10] - Diego Angelo Bertozzi, Cina popolare. Origini e percorsi del socialismo con caratteristiche cinesi, Edizioni l’Antidiplomatico, 2021

[11] - Giacomo Gabellini, Krisis. Genesi, formazione e sgretolamento dell’ordine economico statunitense, Mimesis, Milano-Udine, 2021.

[12] - Gyorgy Lukacs, Ontologia dell’essere sociale, vol III, Pgreco, Milano, 2012, p. 113.

[13] - Idem.

[14] - Ad esempio, Jon Elster, Il cemento della società. Uno studio sull’ordine sociale, Il Mulino, Bologna, 1995.

[15] - Cfr Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Fenomenologia dello spirito, Rusconi, Milano, 1985, p.275

[16] - Thomas Hobbes, Leviatano, Multimedia Edizioni, Roma, 2012, p. 122

[17] - Jean-Jacques Rousseau, Il contratto sociale, Rizzoli, Milano, 1962

[18] - Axel Honneth, Il diritto della libertà. Lineamenti per un’etica della democraticità, Codice Edizioni, Torino, 2015, p. 40.

[19] - Carlo Formenti, Guerra e rivoluzione. Elogio dei socialismi imperfetti, II vol., op.cit., p. 245

[20] - Galvano della Volpe, La libertà comunista, Edizioni Avanti, 1963.

[21] - Carlo Formenti, Idem, p. 259

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