Schema
Il libro di Carlo Formenti è diviso in
due testi, la prima parte, “Le macerie dell’impero”[1], introduce una profonda
rilettura della tradizione marxista, in particolare guidata da una rilettura di
autori come Costanzo Preve, Lukacs ed Ernst Bloch. Quindi ricostruisce
sinteticamente quegli scenari di guerra di classe dall’alto che nel ventennio
abbondante dagli anni Ottanta alla crisi finanziaria aperta (ma non chiusa) nel
2007-8 hanno profondamente ristrutturato il campo dei conflitti sociali in
Occidente e nel mondo. Termina il secondo capitolo un bozzetto della
‘mobilitazione totale’ che chiude, per ora, il quindicennio della crisi di
sistema degli anni Dieci con la rapida successione della mobilitazione
pandemica, prima, e militare, poi. Il primo volume definisce, infine, i
“nemici”: il liberalismo tutto, l’impero e le ‘sinistre de capitale’.
Il secondo volume, “Elogio dei
socialismi imperfetti”[2], parte con gli esempi
(come il primo aveva chiuso con i ‘nemici’): la rivoluzione paziente cinese, il
socialismo reale e la sua damnatio memoriae, il postneoliberalismo dell’America
Latina. Nella seconda parte entra finalmente nel tema della costruzione di un
partito di classe, muovendo dall’enorme problema di definire la composizione di
questa e passando per una serrata discussione sui fenomeni morbosi del
presente, il populismo e sovranismo, le tante facce della ‘libertà’.
Completano il testo una postfazione di
Vladimiro Giacché, e alcune appendici affidate a Onofrio Romano (“Un’alternativa
di civiltà”), Alessandro Somma (“Il mercato delle riforme. Come l’Europa
è divenuta un dispositivo neoliberale irriformabile”), Alessandro Visalli
(“Le teorie e la realtà della dipendenza. Una panoramica storica”).
E’ dunque un testo lungo (circa seicento
pagine), ed al contempo compatto con l’ambizione di fornire una visione
coerente dello stato presente.
Lo riassumerei in questo modo,
prendendomi la responsabilità di estrarre dei temi:
-
Carlo ritiene (insieme a me) di essere in un momento di grande
transizione storico-epocale,
-
una transizione di sistema e, ad un tempo, di egemonia nei
sistemi-mondo (l’estenuazione di vecchie egemonie e la riarticolazione dei
sistemi gerarchici di relazione centro-periferia),
-
propone una visione unitaria e coerente che muove da una rilettura interna della tradizione
marxista (proponendo riletture di Lukacs, Arrighi. Gramsci, Lenin, insieme a
Losurdo, Michéa, Preve, Polanyi e analisi critiche di Laclau, alcune cose di
Marx),
-
il percorso complessivo va dalla definizione di una cassetta degli
attrezzi, a letture di scenario ad ampio raggio, all'identificazione di
'nemici' di classe, la ricostruzione di casi e, nella seconda parte, un’interpretazione
della composizione di classe, della dinamica del populismo e del nesso
democrazia-comunismo.
Vedrei due tesi stagliarsi su
tutto, ed un nesso interno a fare da motore del dispositivo di lettura:
1- il marxismo non è una scienza nel senso gaileiano-newtoniano,
classico, ma una prassi teoricamente informata. Il suo metodo consiste in un
costante richiamo alla totalità (Hegel e Lukacs) ed alla storia come luogo di
conflitti priva di qualsiasi telos immanente. Con una formula famosa, non serve
a conoscere il mondo ma a cambiarlo[3].
2- la rivoluzione non è il dispiegarsi di
una dinamica immanente alle forze operanti nella storia (o nello sviluppo delle forze
produttive), ma un evento che aziona un freno di emergenza,
Essa oggi si manifesta (se lo fa) contro:
-
l'imperialismo culturale (o, in altri termini, l'universalismo neo-coloniale)
di cui molte sinistre sono (non da sole) oggi alfieri,
-
l'imperialismo politico ed economico (dei diversi 'occidenti'),
-
il liberismo metamorfico (che spesso nasconde la sua egemonia anche in chi
pensa di esserne nemico, ma ne subisce la struttura categoriale).
I tre casi che il testo (doppio)
illustra sono quelli del 'socialismo con caratteristiche cinesi', della rivolta
dei popoli periferici in America Latina, e il caso storico dei
socialismi reali. Ovvero la 'rivoluzione paziente', quella dove non
l'aspetti e quella sconfitta.
Di qui quelle che proverei a chiamare le
tre tesi:
1- l'importanza dei 'socialismi
imperfetti' (contro l'utopia),
2- la libertà concreta come lotta con la
necessità (e non come
astrazione dai vincoli),
3- l'importanza di distinguersi dalle
'sinistre del capitale', ovvero contro lo sguardo da nessun luogo e per la costruzione di una
prospettiva di parte.
Infine, il problema politico
posto dai testi:
-
la dissoluzione della classe,
-
la reazione populista,
-
il nesso tra democrazia e comunismo come nesso tra necessità e libertà. Fuori di qualsiasi modello a priori.
Articolazione
Per chi avesse
poca dimestichezza con l’area di discussione alla quale il testo si riferisce,
la cosiddetta “guerra di classe dall’alto” (una formulazione resa famosa
da Luciano Gallino[4])
è un ampio movimento che prende velocità durante gli anni Settanta e trova
forma ben riconoscibile dopo la metà degli anni Ottanta, in un nesso inestricabile
di innovazioni tecnologiche ed organizzative, grandi ristrutturazioni
industriali, processi di decentramento e organizzazione a rete della Grande
Impresa, sia sul piano nazionale come internazionale, politiche di austerità e
di restrizione salariale e sindacale. Tutti questi processi si presentano sulla
scena, e sono giustificati, come necessaria reazione alle condizioni
stagflattive del decennio e alla cosiddetta ‘crisi fiscale dello Stato’. Il
processo esita, e questo si vede molto bene nei successivi anni Novanta, in una
sempre più pronunciata finanziarizzazione e mondializzazione economica e nelle sue
concause e conseguenze: la crisi della democrazia reale (proprio mentre se ne
proclama a gran voce il definitivo successo), la diffusione delle tecnologie
informatiche e poi di comunicazione nel sistema sociale in modo sempre più
capillare, il radicale mutamento delle mentalità, dell’azione collettiva, e
dell’autopercezione.
Nessuno di questi fenomeni può essere
interpretato come un irreversibile esito del movimento del Progresso o della
Storia. L’espansione della finanza, strettamente connessa con la sempre più
veloce e potente mobilitazione dei flussi di merci, uomini e dispositivi
produttivi, è un fenomeno ciclico, che si è dato più e più volte nella storia
recente e meno recente. Su questo punto Carlo Formenti segue la lezione di
Giovanni Arrighi[5]
che lo vede come un interludio tra due cicli di accumulazione nei quali
prevale, invece, la cosiddetta ‘logica territorialista’.
La cosiddetta ‘globalizzazione’ è dunque solo
la forma che prende l’egemonia anglosassone (ed in particolare americana) nel
momento in cui vengono lasciate le briglie alle grandi imprese multinazionali
per rompere la forza delle organizzazioni del lavoro (che stavano rendendo
difficile ricondurre la stagflazione, a sua volta epifenomeno della lotta
Nord-Sud del mondo). L’economia del debito (pubblico) è una conseguenza dell’impossibilità
di ricondurre nel perimetro fiscale dello Stato gli ingenti profitti
internazionali delle imprese e, dall’altra, di trattenere i capitali resi
fluidi da sempre nuovi strumenti e tecniche. Tutte queste sono condizioni nelle
quali la democrazia reale soffre, e gli stessi partiti vedono un mutamento
verso la forma contemporanea, completamente liquida. La digitalizzazione
dell’economia completa il tutto.
Nel secondo decennio del Duemila tutto ciò
giunge ad uno stadio finale di estenuazione e la guerra neoliberale contro le
classi popolari si muta in uno sforzo palese di estendere la mobilitazione
ideologica contro sempre nuovi falsi bersagli. Di fronte a diversi segnali di
rimobilitazione, se pur ideologicamente e organizzativamente confusi e comunque
ambigui, il sia pur complesso sistema di governo è messo di fronte al problema
della perdita di consenso negli anni che vanno dal 2008 al 2016. Inoltre, si
presenta la sfida esterna della Cina, il protagonismo putiniano (ad esempio in
Siria) e le ripetute ondate sudamericane a porre in questione l’egemonia
statunitense. Subito dopo il trauma del 2016-2018 (dalla Brexit e Trump alle
elezioni antisistemiche in Italia), mentre già i segnali di sfilacciamento
della mondializzazione commerciale si facevano sentire, nel 2019 una subitanea
crisi sanitaria (peraltro attesa da tempo) ha indotto provvedimenti letteralmente
senza precedenti (a questa scala, normali a scale minori) che hanno lacerato il
tessuto delle relazioni internazionali economiche mondiali.
La reazione è stata brutale:
-
mobilitazione politico-ideologica verso l’interno e
l’esterno,
-
accelerazione verso il confronto militare con i paesi
sfidanti (prima la Russia e poi, in prospettiva, la Cina),
-
drastico sforzo di ridisegnare le economie su basi di maggior
controllo (nella logica ‘territorialista’, appunto).
I ruoli si invertono: la Cina cerca di
tenere in piedi una qualche mondializzazione delle merci e produzioni, mentre
gli Usa, sempre più, cercano di ricondurre sotto controllo con ogni mezzo gli
spiriti animali del mercato. Inoltre, la nuova amministrazione Biden tenta il
tutto per tutto, spingendo la piccola e disperata Ucraina a fare da punta di
lancia verso il corpaccione dell’orso russo, nella speranza di sfiancarne le
forze e provocarne la frammentazione e disciplinamento. Spinta a cui, infine, dopo
molti tentativi di mediazione il nazionalismo russo risponde brutalmente. Come
scrive Formenti “il progetto è di provocare la caduta di Putin e instaurare a
Mosca un regime ‘amico’ qual era quello di Eltsin, completando
l’integrazione/colonizzazione dell’Est Europa da parte del blocco occidentale”[6]. Ci si
muove sull’orlo della guerra nucleare e, per ora, si ottiene solo il risultato di
saldare l’asse Cina-Russia che in tutte le analisi di parte americana degli
ultimi decenni era paventata come l’unica, reale, possibilità di perdere la
partita dell’egemonia mondiale (a partire dal ruolo del dollaro).
Quel che si può per ora concludere da questa
brevissima ricostruzione è che quel che tutti i critici progressisti ritenevano
impossibile è puntualmente accaduto:
-
lo scontro tra blocchi si è ripresentato, e con esso il nazionalismo
e il militarismo,
-
l’attesa svolta neo-keynesiana è in corso, ma nella forma di
economia di guerra e di riconversione produttiva forzata (sulla base delle due
scelte politiche della green economy e del digitale),
-
la mondializzazione è ormai una bandiera buttata a terra (e,
semmai, presa dai nemici).
In questo scenario drammatico sarebbe
particolarmente necessario disporre di strumenti di analisi e critica affilati,
ma decenni di dominio della cultura neoliberale hanno reso del tutto
impossibile accedervi. La radicalità è da tempo interpretata come una versione
bohemienne del modello dell’imprenditore e manager individualista e creativo,
che è l’eroe imposto a partire dagli anni Ottanta in infiniti programmi di
indottrinamento e mezzi di comunicazione. Si tratta, del resto, di una
direzione coerente con la controcultura della generazione boomer e la sua
‘critica artistica’[7].
Ed una direzione che la ‘sinistra’ ha fatto propria con entusiasmo, facendosi
interamente liberale e facendo proprie tutte sue le storiche battaglie (da
quella, seminale ed identitaria, contro lo Stato che opprime l’individuo, a
quella di ogni spirito creativo contro i vincoli comunitari). Il testo di
Formenti spende gli ultimi tre capitoli del primo volume nell’impresa di descrivere
i tre “nemici” (il liberalismo, l’impero e le ‘sinistre del capitale’).
Più analiticamente, nel primo capitolo avvia
invece il tentativo di mettere a fuoco la ‘cassetta degli attrezzi’ per reagire
a questa deriva muovendo da una frase incisiva:
“Il marxismo non è
una disciplina accademica, anche se si è cercato di trasformarlo, di volta in
volta, in un capitolo della storia della filosofia, dell’economia politica,
della sociologia o della politologia. Il marxismo è - o almeno dovrebbe essere
– uno strumento della lotta di classe, la cassetta degli attrezzi per fare
analisi concreta della situazione concreta e individuare le vie più efficaci
per colpire il nemico”[8].
Dunque, esso non è una scienza. Almeno non lo è
nel senso comunemente inteso di una scienza che procede isolando i fenomeni,
classificandoli e rendendoli riproducibili e manipolabili, secondo
l’impostazione galileiana-newtoniana. Il marxismo è piuttosto una prassi ed una
tradizione, teoricamente informata, che riconduce ogni evento al suo
inserimento nella totalità dei rapporti e delle forze ed alla storia concreta
dei conflitti incarnati, privi di ogni telos necessario. Presa al suo
meglio, ovvero depurato da storicismo, economicismo e utopismo, la lezione di
Marx consiste nella tensione a fornire gli strumenti di una prassi di
emancipazione che deve essere ricostruita concretamente dagli attori
materialmente esistenti.
Non si tratta di attendere, tanto meno di
favorire, il ‘normale’ dispiegarsi della dinamica delle forze agenti nella
situazione, attendendosi che per un qualche fortunato ‘destino’ della storia la
talpa trovi la giusta direzione ed emerga nel mondo nuovo. Questo residuo
millenarista e messianico, di grande capacità in termini di proselitismo tra i marginali
(perché promette il paradiso al termine della sofferenza), ma, al contempo tale
da inibire l’azione concreta (in quanto, alla fine, basta attendere), è l’obiettivo
principale del testo formentiano. Rileggendo Lukacs viene sostenuto che
l’unica scienza possibile è quella storica, e questa non fa previsioni ma ha il
volto diretto alle spalle.
Né si tratta, è un’altra e precedente forma
di pensiero religioso e teologia rovesciata, di immaginare che la liberazione
possa scaturire dalla dinamica spontanea ed ‘orizzontale’ degli individui, i
quali affrancandosi dai vincoli comunitari e storico-culturali, come dalle
forme di organizzazione date (e dallo stato), possano, perseguendo ciascuno il
proprio progetto, ottenere il medesimo paradiso.
Talvolta anche Marx sembra indulgere in tale
idea (la quale, d’altra parte, è parte grande della tradizione illuminista).
L’idea si presenta travestita sotto il velo della fiducia nello scatenamento
delle forze produttive e della loro immanente dynamis. E ne derivano come
corollari che questo, il capitalismo, se pure oggi opprimente:
-
ha una funzione comunque ‘civilizzatrice’ (nel momento in cui
libera dai vincoli comunitari),
-
non ha alcun ‘fuori’ (e si estende per sua natura a tutto il
mondo),
-
conduce ad un modo interamente pacificato, abitato da
‘individui totali’ nella più completa dissoluzione di ogni struttura politica.
Sostiene questa critica una lettura di
autori come Costanzo Preve, che mette in evidenza la commistione non risolta nella
impostazione marxiana di un piano “grande narrativo” e “deterministico-naturalistico”
con uno ‘ontologico-sociale’. Il primo piano è espressione della necessità
immanente del processo, figlia dello scientismo newtoniano nella versione
ottocentesca, e fa leggere il comunismo come uno sbocco necessario, prevedibile
scientificamente, e inscritto nella logica e nella meccanica della produzione
capitalista. Il piano ‘ontologico-sociale, invece, si fonda sulla capacità
dell’uomo di trasformare il mondo attraverso il progetto ed il lavoro che
attivano catene causali semi-determinate nella situazione. In tale direzione la
complessità delle interazioni e degli scontri tra i progetti di lavoro
determinano lo storico sociale che può essere ricostruito (con sguardo alla
totalità) solo ‘dopo la festa’.
Con questi strumenti, venendo al campo del Secondo
volume, si può comprendere come Formenti non cada nell’identificazione del
fenomeno cinese come semplice ‘capitalismo’ (un ibrido tra il ‘capitalismo di
stato’ russo di vecchia memoria e il capitalismo neoliberale), né come un’altra
forma di ‘imperialismo’. Rileggendo anche su questo punto Arrighi[9], oltre
che i più recenti Diego Angelo Bertozzi[10] e
Giacomo Gabellini[11], egli ricostruisce
la pluridecennale traiettoria del regno di mezzo, respingendo al termine le
accuse di totalitarismo (sottolineando le differenze culturali che fondano la
legittimità del sistema di potere cinese, in grado di meritarsi con i fatti il
‘favore del cielo’), e sottolineando la particolare forma di democrazia
orientale, che vede processi di consultazione ed elezioni che muovono dal basso
all’alto per anni, in un andamento piramidale a circolazione complessa.
Né, d’altra parte, la Cina può essere
considerata semplicemente ‘capitalista’. Almeno nella misura in cui non sia la
mera presenza di capitali (o di capitalisti) a costituire la forma sociale
‘capitalista’, invece che il potere espresso nel dirigere la società. E qui la
stessa lamentazione Occidentale di autoritarismo dice come le grandi imprese
capitaliste non riescano ad esercitare un adeguato controllo, soprattutto con
Xi Jimping.
La lettura del caso cinese, e di quello del
Sud America, portano Formenti a formulare la tesi che, senza indulgere
all’utopia, sono i concreti ed imperfetti ‘socialismi’ quelli ai quali
dobbiamo dare attenzione. Malgrado tutte le difficoltà poste dalla dissoluzione
della classe lavoratrice in mille frazioni inconsapevoli di sé, la direzione
più promettente nasce da una profonda riflessione sulla libertà. Rileggendo
Lukacs essa, per Formenti, origina in senso ontologico (e non
logico-gnoseologico) nel lavoro. Ovvero in quell’atto, o complesso di
fatti, di coscienza per effetto dei quali sorge, in un complesso sociale
totale, un nuovo essere. Nuovo essere che non è meramente il risultato del
progetto, tanto meno di questo in condizioni astratte (da ‘tabula rasa’), ma l’evento
emergente da possibilità concrete nello scontro tra altre. Il ‘problema
reale’ della libertà deriva da questo venire alle mani con la realtà,
gettandovi un progetto e innescandone il potenziale. Questa libertà non si
lascia definire una volta per tutte ed astrattamente, fuori della lotta.
Lukacs, nel terzo volume della “Ontologia”[12] afferma
che, se intendiamo parlare “in modo sensato”, il fondamento della libertà è un
momento della realtà che “consiste in una decisione concreta fra diverse
possibilità concrete”[13]. Ora,
ciò implica, come peraltro ricorda anche Elster in un diverso contesto teorico[14], che la
libertà, quando è letta come carattere dell’uomo che vive nella società, non è
mai del tutto priva di una dimensione di determinazione dai vincoli e dai
fatti. Almeno se questo uomo agisce socialmente. Ovvero se si cala in
una struttura di riconoscimenti, in parte istituzionalizzata, che gli consente
di definirsi come sé e di dare corpo alla libertà[15].
Dunque ogni alternativa, come dice Lukacs,
“per sua essenza ontologica” è sempre concreta, locale socialmente incorporata
in un campo di cui non dispone (completamente), mentre le alternative assolute
sono solo pensabili sul piano logico-gnoseologico. Lungi dall’essere
astratto-generali, le decisioni, entro il cui campo si può dare la libertà
effettivamente esistente, hanno luogo entro questa “totalità concreta”
descritta come innesto reciproco di scelte e situazioni. Tutte articolate nella
forma “se … allora”.
Insomma, si tratta dell’idea di una libertà
autoprodotta, aperta, a partire dalle appartenenze e dal reciproco
riconoscimento attivato e mobilitato intorno alle lotte ed alle istanze concrete
di solidarietà o di conflitto. Dunque anche dalle esperienze di
schiacciamento e oppressione che si esperiscono nella vita quotidiana. Contro
la libertà astratta e colonizzabile della tradizione liberale (in particolare
nella versione contemporanea) si può dire che questa prospettiva opponga la
possibilità di una libertà che scaturisce dalla solidarietà concreta ed
è socialmente mobilitata. Che scaturisce non da cataloghi individualmente
mobilitabili tramite preformate strutture ma da conflitti concreti in
situazioni storiche.
L’idea di libertà che, viceversa, domina l’impostazione
liberale è tratteggiata da Thomas Hobbes, come “assenza di opposizione”, ovvero
di “assenza di impedimenti esterni al movimento”.
“libertà
significa, propriamente, l’assenza di opposizione (per opposizione intendo impedimenti
esterni al moto), e può riferirsi non meno alle creature irrazionali e
inanimate, che a quelle razionali. … un uomo libero è colui che, in quelle cose
che la sua forza ed il suo ingegno lo mettono in grado di fare, non è impedito
di fare ciò che vuole” [16].
Senza entrare nei dettagli, o nella complessa
relazione tra libertà e necessità, che induce Hobbes a negare il libero
arbitrio, si tratta di una linea genealogica che si consolida e struttura in
Locke, Mill e che finisce per definirsi come riserva per comportamenti
egocentrici, sottratti ad ogni pressione sociale derivante da concrete società.
Questa forma di libertà (cosiddetta “negativa”) non accetta alcuna autolimitazione
in quanto ancorata alla premessa che l’uomo è individuo il quale, nello ‘stato
di natura’ antecedente alla società può compiere ‘calcoli razionali’ senza
premesse. Ovvero senza alcuno scambio antecedente e senza che sussistano
impegni pre-contrattuali.
Oltre questa posizione si trova Rousseau,
che ad esempio nell’Emilio distingue tra azioni autonome ed eteronome,
per cui l’uomo che sottostà all’impulso del suo solo ‘appetito’ non è veramente
libero, ma lo diventa se agisce “in obbedienza alla legge che lui stesso si è
prescritta”[17],
legge che produce un “corpo morale collettivo” ed una corrispondente “volontà
generale”. E di qui si apre il bivio che, da una parte porta a Kant, dall’altra
al romanticismo di Herder, tra autodeterminazione e autorealizzazione. La seconda
linea, molto in linea con il sentimento contemporaneo, ha due determinazioni
logiche: o l’autorealizzazione è nel potere dell’individuo (contro il
collettivo), o, viceversa, quella concezione che la vede come un’impresa per
sua natura comunitaria e cooperativa. Per come la mette Honneth, nel secondo caso:
“in base a questa concezione,
il singolo di per sé non possiede affatto la capacità di realizzarsi, poiché il
suo autentico sé è così fortemente un momento o un’espressione della comunità
sociale da poterlo dispiegare soltanto nella cooperazione collettiva; pertanto
la libertà, che qui viene assunta come presupposto, è sempre il risultato di
una prestazione riflessiva che può essere compiuta soltanto da un soggetto
collettivo”[18].
Il punto qui è che la valorizzazione, compiuta
nel testo, degli sforzi collettivi strettamente dipendenti dalle concrete
situazioni date dei ‘socialismi imperfetti’, e l’indisponibilità a condannarne
gli esiti in base ad una concezione meramente astratta e logico-gnoseologica,
scaturisce da questa tradizione.
Venendo ad un piano più concreto, per Formenti,
“nell’attuale
contesto storico, un percorso di riforme radicali che in anni precedenti al
trionfo del neoliberismo si sarebbe definito socialdemocratico, potrebbe essere
attuato solo con una rivoluzione”[19].
Dove l’assetto ‘socialdemocratico’ è
definito concretamente come economia mista e sistema avanzato di welfare. E dove
la ‘rivoluzione’ significa trasformazione progressiva, ma sistematica, dell’assetto
liberaldemocratico in favore di forme di democrazia diffusa e diretta che,
però, non possono implicare il sogno della dissoluzione dell’autorità. Su questo
sottile crinale si muove un radicale rigetto di ogni forma di liberalismo
(tutte, dal liberalismo classico, o neo, alle versioni ‘liberal’, o ai
movimenti post-comunisti, liberalsocialisti, anarchici), in quanto debitrice di
premesse individualiste e ‘Occidentali’ (nel senso di illuministe, borghesi ed
eurocentriche), ma anche il rifiuto delle versioni mainstream dei diritti
cosiddetti ‘universali’, normalmente limitati a quelli civili. E si trova il
punto di discrimine di quella che Galvano della Volpe chiamava la “libertas
maior” (ovvero la libertà sociale)[20].
La rivoluzione socialista non è, dunque, l’attuazione
piena della rivoluzione borghese e democratico-liberale. Essa è:
-
strutturalmente diversa, in quanto compiuta dal basso e dai
senza potere,
-
incompatibile con i principianti-statalisti ed
anti-socialisti dei movimenti sociali post-materialisti (femminismo,
ecologismo, pacifismo generico, Lgbt, …)[21].
Le conclusioni di questa parte sono dunque:
1-
che socialismo e mercato possono convivere anche utilmente, ma
solo se la borghesia viene espropriata del potere di influenza politica e
questa resta saldamente nelle mani dello stato, attuando una sorta di
conflittualità perenne,
2-
che non esiste e non può esistere un “soggetto”
rivoluzionario per sua natura, ma solo una galassia di soggetti che possono
essere egemonizzati in un progetto solo da una guida politica,
3-
che non esiste alcun “modello” rivoluzionario, e tanto meno uno
esportabile, perché in ogni paese la lotta di classe assume le proprie
caratteristiche, in relazione alla storia e culture locali,
4-
che lo stato non è un moloch da abbattere, ma un
terreno di lotta.
Infine, si tratta di costruire (e non
ri-costruire) il partito di classe, dove nessuno dei due precede l’altro. Né
si possono produrre alleanze prima di questo processo di creazione di senso e
di capacità. Il fallimento del tentativo dei “populismi di sinistra” ne è un
buon esempio.
[1]
- Carlo Formenti, Guerra e Rivoluzione. Le macerie dell’impero, Meltemi,
Milano 2023
[2]
- Carlo Formenti, Guerra e rivoluzione. Elogio dei socialismi imperfetti,
Meltemi, Milano, 2023.
[3]
- Il riferimento preciso è all’11° tesi su Feuerbach di Marx: “i filosofi hanno
finora interpretato il mondo in modi diversi; si tratta ora di trasformarlo”.
[4]
- Luciano Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe, Laterza,
Roma-Bari, 2012.
[5]
- Uno su tutti, Giovanni Arrighi, Il lungo XX secolo, Denaro, potere e le
origini del nostro tempo, Il Saggiatore, Milano, 1996.
[6]
- Carlo Formenti, Guerra e Rivoluzione. Le macerie dell’impero, op.cit.,
p. 83
[7]
- E’ d’obbligo citare Luc Boltanski, Eve Chiappello, Il nuovo spirito del
capitalismo, Mimesis-Milano, 2014.
[8]
- Carlo Formenti, op.cit., p. 21
[9]
- Ma la sua ultima opera, Giovanni Arrighi, Adam Smith a Pechino,
Feltrinelli, Milano 2007.
[10]
- Diego Angelo Bertozzi, Cina popolare. Origini e percorsi del socialismo
con caratteristiche cinesi, Edizioni l’Antidiplomatico, 2021
[11]
- Giacomo Gabellini, Krisis. Genesi, formazione e sgretolamento dell’ordine
economico statunitense, Mimesis, Milano-Udine, 2021.
[12]
- Gyorgy Lukacs, Ontologia dell’essere sociale, vol III, Pgreco, Milano,
2012, p. 113.
[13]
- Idem.
[14]
- Ad esempio, Jon Elster, Il cemento della società. Uno studio sull’ordine
sociale, Il Mulino, Bologna, 1995.
[15]
- Cfr Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Fenomenologia dello spirito, Rusconi,
Milano, 1985, p.275
[16]
- Thomas Hobbes, Leviatano, Multimedia Edizioni, Roma, 2012, p. 122
[17]
- Jean-Jacques Rousseau, Il contratto sociale, Rizzoli, Milano, 1962
[18]
- Axel Honneth, Il diritto della libertà. Lineamenti per un’etica della
democraticità, Codice Edizioni, Torino, 2015, p. 40.
[19]
- Carlo Formenti, Guerra e rivoluzione. Elogio dei socialismi imperfetti,
II vol., op.cit., p. 245
[20]
- Galvano della Volpe, La libertà comunista, Edizioni Avanti, 1963.
[21]
- Carlo Formenti, Idem, p. 259
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