Quello
che si è manifestato a Johannesburg appare essere un punto di svolta simile a
quello degli anni Settanta[1]. Con l'ingresso nei Brics da
gennaio 2014 si completa il passaggio dell'Arabia Saudita in nuove alleanze,
preludio per l'annunciata chiusura delle basi americane (a giugno annunciata da
Bin Salman[2]) e del consolidamento
delle transazioni in altra valuta del petrolio. Insieme al gigante arabo
entrano anche altri attori di primo piano come l'Egitto, gli Emirati Arabi e
l'Iran, in Sud America l'Argentina. Infine, l’importante, sotto il piano
simbolico, Etiopia[3].
Impossibile
sottovalutare l'evento, se pure atteso (e che spiega lo sforzo per escludervi
Putin incriminandolo[4]): tra le cose più
importanti c’è che l'Occidente collettivo (ed in particolare l'Europa) perde
ogni residua influenza sull'Opec+[5] e quindi sulla geopolitica
dell'energia, aspettiamoci benzina a parecchi euro ed energia a valori stabilmente
alti (con buona pace di coloro che si attardano contro il cambiamento climatico
'inventato', senza capire che è questione letteralmente di sopravvivenza
e non solo del pianeta[6]); in Africa a questo punto
abbiamo, da Nord a Sud, tutte le principali potenze schierate contro
l'Occidente imperiale[7], o almeno capaci di rivendicare
maggiore indipendenza da questo, nessuno può immaginare anche militarmente di
andare in Africa contro Egitto, Algeria
e Sud Africa insieme, o in Medio Oriente contro Arabia Saudita, Iran, Emirati,
e i relativi alleati (senza considerare che ha fatto domanda anche la Turchia);
si saldano due colossi d'ordine come Arabia Saudita e Iran (capolavoro della
diplomazia cinese) e con Egitto e Emirati diventano il polo inaggirabile della
regione; nel cortile di casa degli Usa si saldano Brasile e Argentina, in
pratica il centro del subcontinente ha cambiato collocazione. Il Messico, con
Bolivia, Honduras, Venezuela hanno fatto domanda. In estremo oriente ai due
colossi della Cina e dell’India, membri storici, hanno fatto domanda il
Bangladesh, l’Indonesia, il Kazakistan, la Tailandia, il Vietnam. Seguiranno altri
come il Pakistan.
Figura 1 - Membri attuali e da gennaio 2024
Il
primo impatto si avrà sulla dinamica delle materie prime (non a caso nel
vertice è stato dichiarato che i paesi africani vogliono usarle per
svilupparsi) e quindi sulle ragioni di scambio (il prezzo relativo tra materie
prime e prodotti intermedi o finali in uno scambio) che fino ad ora hanno
arricchito l'Occidente. In termini medi avremo conseguenze sulla centralità del
dollaro (che perde definitivamente l'ancoraggio saudita).
Se
consideriamo che la sfida cinese (ma a questo punto in prospettiva anche
indiana) e russa non si spendono solo in termini di controllo delle materie
prime, ma anche di tecnologie, siamo ad una svolta epocale.
Ma
conviene andare più ordinatamente, ed evitare di sovrainterpretare gli eventi.
I Brics, (originariamente Bric, quando Jim O’Neil propose nel 2001 di nominare
in tale modo i quattro paesi emergenti Brasile, Russia, India, Cina) solo nel
2006, quindici anni fa, a margine di un’assemblea dell’ONU decisero di
organizzarsi in un coordinamento diplomatico informale e nel 2009 lo
trasformarono in una sorta di club permanente (come il G7) nel Summit di
Ekaterinburg. Sin dalla dichiarazione del 2009 lo scopo dell’associazione è di
instaurare un più equo ordine mondiale multipolare, nel quale, cioè, sia
assente un egemone centrale. Nel 2010 venne ammesso il Sudafrica e
progressivamente aumentarono le ambizioni. Mentre in una prima fase si trattava
sostanzialmente di coordinare la propria azione nelle organizzazioni
multipolari a guida occidentale (Onu, FMI, BM, Wto) progressivamente emerse lo
scopo di modificarne gli assetti e/o organizzare autonomi organismi di sostegno
allo sviluppo. Passa necessariamente per questa nuova agenda la riduzione del
ruolo dominante del dollaro (e quello subordinato dell’euro), la capacità di
resistere ai ditkat del Fmi e BM e di resistere al rischio di subitanee fughe
di capitali e crisi di liquidità, e alle sanzioni unilaterali. Insomma,
resistere alle armi di distruzione finanziaria che l’Occidente spesso
usa per disciplinare e minacciare il mondo.
Nel
2014, a questo scopo, i Brics decisero a Fortaleza di creare una propria
Banca di Sviluppo che avesse il compito di finanziare le iniziative
infrastrutturali comuni. Una Banca, si deve notare, aperta a chiunque e dotata
di 50 miliardi per investimenti e 100 di riserva. La Banca è inoltre dotata di
uno specifico accordo Swap e della piattaforma “Brics Pay”, per usare la moneta
dei cinque paesi membri, anziché il dollaro americano.
Fanno
parte dei Brics paesi piuttosto eterogenei, classificabili come del ‘secondo’ o
‘terzo’ mondo secondo la vecchia dizione, con una popolazione molto estesa (il
primo e secondo, il settimo, nono, e ventiquattresimo, complessivamente circa
tre miliardi e trecento milioni di abitanti su otto), una superficie territoriale
che vede il primo, terzo, quadro e sesto paese più grande al mondo, un Pil
nominale che vede il secondo, quinto decimo ed undicesimo paese (per
complessivi circa 24.000 miliardi su 90.000) e un Pil PPA molto più grande con
il primo, terzo, sesto, ottavo paese al mondo (per complessivi 49.000 miliardi
su 141.000), enorme dotazione di materie prime. Ma anche paesi classificabili
come ‘democrazie’ di stampo occidentale (l’India, il Sudafrica, il Brasile) e ‘democrazie
autoritarie’ (la Russia) o ‘democrazie popolari’ a partito unico (la Cina). Paesi,
infine, con diversi livelli di accordo con l’Occidente e gli Usa (come l’India,
capace di stare in relazione contemporaneamente con la Cina, gli Usa e la
Russia) o il Sudafrica e lo stesso Brasile, insieme a paesi in rotta di
collisione frontale, come la Russia, o latente, come la Cina.
Cosa,
dunque, li tiene insieme? In sostanza la storia del colonialismo e l’esperienza
del Novecento. Il percorso di avvicinamento tra i paesi è stato infatti
prudente e progressivo fino alla vera e propria esplosione di richiesta di adesione
di questi ultimi mesi, con sei nuovi paesi accolti come ‘soci fondatori’ a
pieno titolo dal gennaio 2024 (Argentina, Egitto, Etiopia, Iran, Arabia
Saudita, Emirati Arabi Uniti) ed tanti altri in coda (Afganistan, Algeria, Bahrain,
Bangladesh, Bielorussia, Bolivia, Cuba, Indonesia, Kazakistan, Kuwait,
Palestina, Messico, Nicaragua, Nigeria, Pakistan, Senegal, Sudan, Siria,
Thailandia, Tunisia, Turchia, Uruguay, Venezuela, Vietnam, Angola, Congo,
Guinea e Zimbabwe). Si parla di paesi che sono dei giganti economici e
geopolitici, con dotazioni energetiche e di materie prime di primissimo livello
e una popolazione cumulata di oltre un miliardo e seicento milioni di abitanti
(cosa che fa superare la metà dell’umanità). Si tratta di un’impressionante accelerazione
che è figlia dell’indebolimento relativo dell’Occidente sul piano materiale e,
tanto più, su quello dell’autorità morale e della capacità di minaccia.
Quello
dei Brics, tuttavia, in particolare se viene ulteriormente allargato (anche se
magari non proprio a tutti), non è un controblocco egemonico che possa avere l’ambizione
di governare il mondo come un nuovo G50 a trazione cinese. Se lo fosse il ‘Club’
dovrebbe essere più piccolo e non contenere troppi potenziali rivali di potenza
simile. Qui starebbero insieme letteralmente i nemici storici: l’India ed il
Pakistan, l’Iran e l’Arabia Saudita, Siria e Turchia, o comunque a volte rivali,
come Argentina e Brasile, o Messico. L’effetto sarebbe una paralisi geopolitica
simile a quella che, sia pure in condizioni diverse, affligge l’Europa.
Ma
se non è, e neppure può essere, il nucleo di un blocco egemonico nel senso
della logica Occidentale, ovvero di quello che Arrighi chiamava sistema di egemonia,
cosa ci mostra (in controluce, se vogliamo) questa improvvisa rottura degli
argini ed allargamento? Due cose a mio parere:
-
che
si tratta essenzialmente di un esercizio di autodifesa, resasi necessaria dalla
postura aggressiva dell’egemone anglosassone;
-
e
che recepisce le tre lezioni che negli ultimi anni esso ha impartito.
In
altre parole, l’allargamento dei Brics segna, da una parte, la diluizione della
potenza relativa cinese nella compagine, dato che crea le premesse di un nuovo
e potente polo Medio Orientale, e rafforza quello africano[8]. Infine, fa da contrappeso
alla centralità russo-cinese anche l’ingresso di un paese di lingua spagnola in
Sudamerica della grande rilevanza come l’Argentina, preludio forse ad altri
allargamenti decisivi nel “cortile di casa” degli Usa[9].
Dall’altra,
al contempo, il sistema Brics crea un’area di potenziale scambio commerciale e
condivisione finanziaria sempre più ampia ed in grado, con il successivo
allargamento a questo punto probabile, di raggiungere o superare la rilevanza
dei mercati Occidentali. E, infine, crea un drammatico rafforzamento della
capacità di governare i flussi di materie prime energetiche grazie all’ingresso
simultaneo del paese con 300 miliardi di barili di riserve (mentre il primo, il
Venezuela che è un paese ‘amico’ ne ha 304) e del terzo, l’Iran (156), senza
dimenticare gli Emirati Arabi Uniti ed il Kuwait (145) che ha fatto domanda. In
sostanza, tra i paesi con maggiori riserve, restano fuori solo il Canada (170),
l’Iraq (145), gli USA (69) la Libia (48), il secondo e terzo perché sostanzialmente
sotto occupazione. Anche guardando la produzione attuale, ovvero l’impatto immediato,
su 80 milioni di barili al giorno, i paesi dei Brics ne controllano ora direttamente
38 milioni, ma con i paesi che hanno fatto domanda salirebbero a 50 circa.
Considerando invece i consumi gli Stati Uniti sono in deficit di 8 milioni tra
produzione e consumo (11/19 milioni) l’Europa, il Giappone sono in deficit e i
paesi del Bric hanno un consumo di ca 30 milioni. In sostanza ora sono in grado
di controllare il mercato e di fare il prezzo.
Dunque
non è un blocco egemonico coeso ed alternativo all’Occidente a guida Usa.
Non è il ‘club’ della Cina. Si tratta di un sistema di autodifesa
tendenzialmente orizzontale, fondato sul principio che non si vuole più essere
dominati da una potenza egoista (e fintamente universalista). Questo lo rende
in questa congiuntura del tutto determinante.
È,
del resto, una delle più potenti molle interne dello stesso sviluppo cinese e
del ‘mandato del cielo’ del Partito Comunista, ma anche della rinascita russa:
la memoria delle umiliazioni (più remote nel primo caso, più recenti nel
secondo), che l’Occidente ha fatto subire ai paesi che si sono mostrati deboli.
Il ricordo di colonialismo e imperialismo e delle sue meccaniche di estrazione
del valore tipiche.
Ricordo
che si unisce alle “tre lezioni” che la crisi ucraina sta impartendo
proprio ora al mondo:
-
la
prima, che gli Usa possono ‘rubare’ le riserve ed espropriare in modo del tutto
illegale i privati cittadini dei paesi che gli si oppongono;
-
la
seconda, che, al contempo, le temutissime sanzioni non possono piegare un paese
dotato di materie prime, clienti e capacità industriale adeguata;
-
infine,
la terza, che la grande potenza tecnologica militare dell’Occidente non riesce
a fare la differenza mentre la sua industria bellica non è più all’altezza di
una guerra ad alto attrito.
Insomma,
il re è nudo (ma, contemporaneamente, è più cattivo che mai).
Non
è un nuovo polo geopolitico compatto, ma bastano queste tre lezioni, unite alla
memoria, per lanciare la sfida: non si vuole più essere dominati e si
preferisce tentare una strada di autogestione e governo condiviso, per porre
fine finalmente alla ‘grande divergenza’ che sussiste da cinquecento anni.
La
sfida consiste quindi nel dare vita ad una sorta di nuovo G11 (e poi G30-50),
nel quale compensare i propri commerci e creare le proprie riserve strategiche
e investimenti per lo sviluppo, un organismo di coordinamento e cooperazione che
faccia leva sul controllo dei mercati dell’energia, della finanza (almeno per
sé, anche tramite nuove piattaforme di pagamento[10]), protegga e sviluppi le
proprie tecnologie, migliori le ragioni di scambio delle merci in modo da far
cessare il neoimperialismo Occidentale sul ‘Sud Globale’.
Lo
slogan cinese di una “comunità con un futuro condiviso per l’umanità”[11], ispira un approccio
cooperativo e pragmatico, particolarmente concentrato sulle esigenze di base di
paesi a reddito pro capite ancora basso o medio, alle infrastrutture essenziali,
a schemi di reciproco vantaggio.
La
Dichiarazione di Johannesburg[12], con la quale chiudiamo,
si avvia con la dichiarazione di tre principi ed obiettivi: il partenariato per
una crescita reciprocamente accelerata; lo sviluppo sostenibile; il multilateralismo
inclusivo. Uno spirito di rispetto, eguaglianza sovrana, democrazia apertura ed
inclusività nel quadro di un ordine internazionale più rappresentativo e giusto.
Nel
quadro di una riaffermazione della centralità dell’Onu (sostanzialmente messa
da parte dalle potenze egemoni, tra cui gli Usa ma anche la Russia), la Dichiarazione
esprime “preoccupazione per l’uso di misure coercitive unilaterali, che sono
incompatibili con i principi della Carta delle Nazioni Unite e producono
effetti negativi soprattutto nei paesi in via di sviluppo. Ribadiamo il nostro
impegno a potenziare e migliorare la governance globale promuovendo un sistema
internazionale e multilaterale più agile, efficace, efficiente,
rappresentativo, democratico e responsabile”. Ovviamente tale richiesta
passa per la maggiore rappresentanza dei mercati emergenti e dei paesi in via
di sviluppo. Inoltre, la difesa dei diritti umani, ma includendovi anche il
Diritto allo Sviluppo (introdotto nella Dichiarazione del 1948 dall’allora Urss[13]) e, soprattutto, “in un
contesto non selettivo e non politicizzato”, oltre che “in modo costruttivo e
senza doppi standard”.
Quindi,
e questo è certamente uno dei centri della rivendicazione: “Sosteniamo una
riforma globale delle Nazioni Unite, compreso il Consiglio di Sicurezza, con
l’obiettivo di renderlo più democratico, rappresentativo, efficace ed
efficiente, e di aumentare la rappresentanza dei paesi in via di sviluppo
tra i membri del Consiglio in modo che possa rispondere adeguatamente alle
sfide globali prevalenti e sostenere le le legittime aspirazioni dei paesi
emergenti e in via di sviluppo dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina,
tra cui Brasile, India e Sud Africa, a svolgere un ruolo maggiore negli affari
internazionali, in particolare nelle Nazioni Unite, compreso il Consiglio di
Sicurezza”.
Quindi
il sostegno ad un sistema commerciale multilaterale, aperto, trasparente,
giusto, prevedibile ed inclusivo, non discriminatorio, fondato sulla OMC e il
diritto ad un Trattamento speciale e differenziale (S&DT) per i paesi in
sviluppo, e la riforma del sistema commerciale con eliminazione delle sanzioni
unilaterali ed illegali (come quelle praticate largamente dagli Usa contro i loro
nemici pro tempore).
Viene
richiesta al punto 10 una riforma generale delle istituzioni di Bretton Woods (FMI
e BM), per garantire un ruolo maggiore ai mercati emergenti e la ridefinizione
delle quote di partecipazione al FMI (che ora vedono gli Usa altamente
sovrarappresentati).
Oltre
a fare cenno alle situazioni in Niger, Libia, Sudan e Yemen, la Dichiarazione
si spende per la questione palestinese, auspicando una “soluzione a due Stati,
che porti alla creazione di uno Stato di Palestina sovrano, indipendente e
vitale”. Per quanto attiene la guerra in Ucraina[14] la Dichiarazione, firmata
anche dalla Russia, è necessariamente prudente: “Ricordiamo le nostre
posizioni nazionali riguardo al conflitto in Ucraina e nei dintorni, espresse
nelle sedi appropriate, tra cui il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e
l’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Notiamo con apprezzamento le
pertinenti proposte di mediazione e di buoni uffici volti alla risoluzione
pacifica del conflitto attraverso il dialogo e la diplomazia, compresa la
Missione di pace dei leader africani e il percorso proposto per la pace”.
La
sfida è quindi lanciata, per un mondo più grande e più giusto, nel quale
finalmente abbia termine l’eredità dell’accumulazione originaria a scala mondiale tramite i
genocidi e le stragi del Cinquecento, il commercio di rapina del Seicento e Settecento,
con l’estensione progressiva dell’economia schiavista, il colonialismo ottocentesco
e l’imperialismo primo novecentesco, seguito dal neocolonialismo e perdurante
imperialismo trasformatosi nella decolonizzazione.
È
questa la memoria che tiene insieme i Brics e questa è la missione che si
danno. Nulla di più, nulla di meno.
[1]
- Ovvero l’interruzione unilaterale della convertibilità del dollaro in oro
definita a Bretton Woods e quindi, dal 1971, la possibilità di espandere i
crediti ed emettere potere di acquisto in modo in via di principio illimitata.
Una pratica che è stata da allora praticata dalle Banche Centrali del network Occidentale,
sotto la ferrea guida della FED. Chiaramente perché da un sistema d’ordine che
non reggeva più si potesse passare ad un altro equilibrio in quella transizione
sono stati necessari da dieci a quindici anni. Anche questa è in corso dal 2008
(che ne rappresenta la ‘crisi spia’), ha rotto gli argini nel 2020, di cui il
2022 è una conseguenza, ma proseguirà, accelerando, ben oltre questo decennio
durante il quale si comincerà presumibilmente a vedere la forma dello schema
alternativo.
[2]
- Bin Salman è l’erede al trono Saudita e Ministro degli Esteri che sta portando
l’Emirato in direzione della rottura delle sue tradizionali alleanze e in
direzione di una molto più ampia libertà strategica. Ne sono caposaldi l’avvicinamento
alla Cina, il rifiuto di condannare la Russia, l’apertura di relazioni con l’Iran,
la rottura dello schema dei ‘petrodollari’, negoziato segretamente con gli Usa
negli anni Settanta.
[3]
- L’Etiopia ha 116 milioni di persone, ma soprattutto: ha
un ruolo chiave nell’Unione Africana che ha sede ad Adis Abeba; non è mai stata
una colonia europea avendo battuto sia gli italiani che gli inglesi nel 1897 -Accordo
di Rodda-; è tra i siti di più antica ominazione -circa tre milioni di anni- e
sede di una civiltà autonoma statuale che in alcune fasi si è estesa anche alla
penisola arabica, scontrandosi con l’impero sasanide persiano e confinando con
quello romano.
[4]
- Incriminazione della Corte di Giustizia Internazionale dell’Aia per l’accusa
di aver deportato bambini dall’Ucraina, Corte non riconosciuta dagli Usa, Russia
e Cina, ma dal Sudafrica.
[5]
- L’Opec+ è l’estensione dell’organizzazione (Opec) creata negli anni Sessanta
tra i principali paesi esportatori di petrolio del mondo al cui centro è l’Arabia
Saudita (a sua volta membro della Oapec). I paesi membri controllano il 79%
dele riserve di petrolio e il 35% di quelle di gas. I membri dell’Opec sono 14
(di cui 6 sono membri o aspiranti tali dei Bric), i membri dell’Opec+ sono 23 e
aggiungono la Russia, il Messico, il Kazakistan, l’Azerbaijan, il Bahrain, il
Brunei, la Malesia, l’Oman, il Sudan, e Sudan del Sud. Di questi non fanno
parte del Bric, o non hanno ancora fatto domanda di adesione in qualche forma
solo il Brunei, Malesia, Oman (nessuno di questi tra i principali produttori
mondiali).
[6]
- La vera molla che spinge a rompere gli indugi e forzare le resistenze
interessate (dei grandi produttori di fossili o della industria tradizionale)
alla transizione energetica non è il cambiamento climatico, pur esistente,
quanto l’assoluta necessità di rendersi meno dipendente dagli
approvvigionamenti di energia dell’Opec+ e dello stesso ‘amico’ americano. E’,
per l’Europa, letteralmente una questione di sopravvivenza. Chi teme di
essere costretto a cambiare l’auto o la caldaia si chieda piuttosto che farsene
con il gasolio a 5,00 € e il gas a 150,00 €/mc. O si chieda quale industria europea
resterà in tali condizioni.
[7]
- Ovvero non tanto contro l’Occidente in quanto tale, quanto indisponibili a
farsi governare da questo.
[8] - Non solo per l’entrata a Nord di una
potenza d’ordine di grandissimo prestigio come l’Egitto, quanto anche per la
simbolica presenza dell’Etiopia.
[9]
- In particolare se, ai due grandi paesi del Sud, Brasile ed Argentina, si
aggiunge una grande potenza d’area ma intrecciata in modo complesso, se pure
storicamente conflittuale, con gli Usa come il Messico.
[10] - Come, ad esempio, Brics Pay (https://www.brics-pay.com/)
[11]
- Si veda, “Dal Grande Gioco triangolare alla polarizzazione. Circa
la posizione diplomatica e strategica cinese”.
[12]
- https://press.russianews.it/press/xv-vertice-dei-brics-tutti-i-punti-della-dichiarazione-finale/
[13]
- La Dichiarazione dei Diritti Umani del 1948 è, ovviamente, una pietra
miliare del processo di formalizzazione del concetto. I suoi antecedenti sono
la Dichiarazione di indipendenza americana del 1776,
dall’altra alla Dichiarazione dei diritti dell'uomo del cittadino francese
del 1789. C’è, però, una importante differenza tra i due antecedenti. La
Dichiarazione americana non è una carta dei diritti e il testo è dedicato
prevalentemente a motivare le ragioni dell'indipendenza dalla corona
britannica, e gli argomenti sui diritti dell'uomo sono inseriti solo come
cappello retorico introduttivo e chiave di una legittimazione che si pretende
estranea alla fedeltà al re. Si può dire che il famoso preambolo per il
quale tutti gli uomini sono creati uguali, cioè dotati di inalienabili
diritti, tra cui la vita, la libertà e il perseguimento della felicità, serve,
in tutte le Dichiarazioni di questo periodo ad affermare che i governi
sono istituiti per garantire questi diritti, e quindi sia diretta ad affermare
che il fondamento della vita sociale non deriva dal re, non deriva dalla
tradizione, ma deriva da Dio per come viene interpretato nel testo. Compiendo
questo rovesciamento del canone fondativo si esprime con la massima chiarezza,
e si pone al centro della scena, una mossa emancipativa di primario valore. Ma
i contenuti e fondamenti dei diritti inalienabili, su cui si basa quella mossa,
sono ridotti al contempo ai minimi termini; non è il caso di ricordare che in
tutti gli uomini non erano incluse né le donne né, tantomeno, gli schiavi. Del
resto, quando dieci anni dopo viene approvata la Costituzione americana non
ci sono in essa Dichiarazioni dei diritti. Queste vengono aggiunte ancora dopo
nel 1789 e nel ‘91, anche sulla scorta della Rivoluzione francese, in forma di
emendamenti alla Costituzione, e in esse si parla di diritti civili interni
alla nazione americana. Invece la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e
del cittadino del 1789 francese ha una caratterizzazione dei diritti
dell'uomo molto particolare. Ci si appella qui a diritti naturali
inalienabili e sacri dell'uomo, cioè ad una dimensione universalistica
astorica; però, già dal terzo articolo, la Dichiarazione prende una piega
storicamente determinata, eminentemente politica, e la libertà individuale
viene limitata dalle leggi “espressione della volontà generale”, quindi
giustificate dal bene della società verso le quali la resistenza del cittadino
è giudicata inammissibile. Dunque, il protagonista della Dichiarazione del 1789
è la legge civile, definita dalla Nazione, all'interno della quale il
cittadino trova il suo spazio di libertà. L'intera Dichiarazione si rivolge al
cittadino.
Centocinquanta anni dopo, la Dichiarazione del 1948 è
diversa. Per la prima volta l'idea di un “Diritto naturale” che appartiene
individualmente a ciascun membro della specie umana è effettivamente
articolato. Ci si trova di fronte a un tentativo di creare un corpus di diritti
nel senso comune del diritto legale che però, diversamente dai codici delle
leggi finora conosciute, non dipende da alcun organismo politico. È chiaro
che una delle spinte decisive per scrivere questo documento consisteva nel
desiderio di trovare un modo per condannare i criminali nazisti che non facesse
riferimento alla legge tedesca. Peraltro, atrocità come l'olocausto non
sarebbero risultate legali neppure secondo la legislazione razzista del Terzo
Reich, ma di fronte a ciò che si presentava come male assoluto e
avendo vinto la guerra emergeva con potenza, da entrambe le parti vincitrici,
la necessità di trovare un punto di vista superiore astorico che non
concedesse alcun terreno di legittimità la legislazione nazista. In questa
ottica, storicamente data, l'idea di diritto umano con i suoi
antecedenti storici si sposava perfettamente a questa funzione. Naturalmente a
questa esigenza storica si univa la tendenza e la cultura individualista e
antitradizionalista americana. Ma nelle fasi preparatorie emersero subito
notevoli difficoltà. Nell'inquadrare dal punto di vista etico e filosofico il
testo, ad esempio, l'Associazione Antropologica Americana mosse critiche
molto severe alla possibilità stessa di concepire qualcosa come una
‘dottrina universale dei diritti umani’. Gli antropologi osservarono come
fosse impensabile considerare come base di partenza dell'analisi un
individuo desocializzato. Ciascun individuo si determina sempre ed
inevitabilmente come parte di un gruppo sociale, con una forma di vita
sanzionata nei modelli il comportamento. In questa prospettiva una
Dichiarazione che pretendesse di applicarsi a tutti i singoli esseri umani,
prescindendo dalle appartenenze culturali (e quindi in effetti prescindendo
dalle particolarità dello sviluppo della cultura nazista in Germania) rischiava
di essere implicitamente imperialista. Come sostenne l'Associazione “e rischia di
diventare un’affermazione di diritti concepiti solo nei termini dei valori
prevalenti nei paesi dell’Europa occidentale e dell’America”. In sostanza si
rischiava di ripetere la mossa del “fardello dell'uomo bianco” che aveva
alimentato il colonialismo. Queste ragionevoli considerazioni vennero
semplicemente ignorate.
In effetti il progetto non era affatto descrittivo,
nessuno pensava che i “diritti umani” fossero una sostanza data, ma
espressamente normativo, tutti la ritenevano un’opportuna norma da porre.
Secondo le parole di René Casin “poggiava su un atto di fede in un domani
migliore”. È ovvio che sul piano logico l'idea che potesse esistere qualcosa
come un “diritto di natura” è un esempio sfacciato di fallacia
naturalistica che trasforma una presunta naturalità in norma. In natura
noi possiamo trovare fatti, ma i valori implicano delle norme. Non le implicano
‘naturalmente’ e senza il passaggio della scelta politica e, quindi, della
contingenza storica.
Nell'articolo tre della Dichiarazione troviamo scritto
che “ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della
propria persona”. Tutti possiamo leggerla come una considerazione
condivisibile: chi potrebbe mai desiderare che gli sia tolta la vita o la
libertà. Chi potrebbe mai desiderare di vivere nell'insicurezza. Ma da questi
valori ragionevoli non scaturisce alcuna norma. Il fatto che un
individuo abbia diritto alla libertà significherebbe che la sua libertà non può
mai essere vincolata. Ma evidentemente esistono leggi, carceri, punizioni per i
casi nei quali la libertà distrugge il vivere comune e civile. La questione è,
piuttosto, sempre quanta libertà e sotto quali condizioni. La
questione è quella posta dalla Costituzione francese. Ma se ammettiamo che la
libertà di cui si tratta è quella consentita dal diritto positivo dei vari
Stati, allora la Dichiarazione è totalmente vuota. Se, viceversa, non facciamo
riferimento a nessuna registrazione reale non si sa di che cosa si sta
parlando. Peraltro, nella stessa frase è dichiarato, oltre al diritto alla
libertà, anche quello alla sicurezza. Dunque, si pone il problema di quanta sicurezza
e del conflitto tra la sicurezza di uno e la libertà dell’altro (ad esempio, di
costringerlo a lavorare, di rendere insicura la sua vita, per es. aumentando la
“flessibilità” e “precarietà”, per ridurne la forza negoziale).
Il tema è sempre, in altre parole, come limitare
la libertà o quanta libertà può limitare la sicurezza. Norberto
Bobbio osservava che i “diritti naturali” non sono “diritti”, ma al massimo
“esigenze” che poi devono essere fatte valere negli ordinamenti normativi
positivi. La cosa è particolarmente evidente appena ci si accosta al gruppo dei
“Diritti umani” di contenuto sociale (articoli da 22 a 27), qui la situazione è
davvero paradossale. Si tratta infatti di “diritti” inseriti inizialmente sotto
la pressione dell'Unione Sovietica (la quale comunque si astenne dalla votazione
finale). Di norma quando si levano gli scudi per denunciare le violazioni dei
“Diritti umani” questi sono sistematicamente ignorati, perché sono
ininterrottamente violati ovunque dal ‘48 a oggi. Il fatto è che per essi ogni
individuo ha il “diritto umano” al lavoro, o alla “protezione contro la
disoccupazione”, o, ancora, ad “una rimunerazione equa e soddisfacente che
assicuri a lui stesso e alla sua famiglia un’esistenza conforme alla dignità
umana” (art. 23). Oppure ha diritto a “ferie periodiche retribuite” (art. 24).
Si tratta evidentemente di un libro dei sogni che conta violazioni innumerevoli
anche nei paesi più benestanti. Anzi che è sistematicamente violato,
disapplicato e distrutto tanto più quanto più il liberalismo e la sua forma
pura neoliberale si afferma.
[14]
- Per la quale rinvio a “La guerra necessaria. Logiche della dipendenza”.
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