Abbiamo assolutamente bisogno di una
nuova teoria critica, che non dimentichi le lezioni dei nuclei più alti
della storia delle lotte per l’emancipazione (e per quanto mi riguarda di
quelle della vasta e multiforme tradizione marxista, ma si potrebbe aggiungere
altro come la lezione della psicoanalisi e le teorie del potere e del
conflitto, le migliori riflessioni sulla liberazione, le esperienze
anticoloniali, e via dicendo), ma che sia anche all’altezza delle sfide
presenti (in primo luogo all’altezza della sfida della rottura di queste tradizioni
e del fallimento dei tentativi di ‘mobilitazione liberale’[1]).
Ne abbiamo bisogno perché il mondo è in
un agghiacciante labirinto e nessuno riesce a capire in che modo uscirne. Dalla
fucina della storia è giunto al presente un groviglio inestricabile di problemi
rinviati nel continuo equilibrio dinamico di un sistema sociale che non ha mai
cessato di trasformarsi, in modo via via accelerato dalla rottura dell’Antico
Regime, ma in realtà sin dall’allargamento commerciale del XV secolo. Nel
continuo turbinio della lotta per l’affermazione di gruppi sempre diversi, e
dello sviluppo materiale e tecnologico che ha tenuto in tensione costante le
élite nazionali e i vari outsider, più o meno locali. Facendo un notevole salto
temporale si può dire che, guardandolo con senno di poi, avevamo avuto un
trentennio di “quasi calma” nell’immediato dopoguerra. Il compromesso sociale,
scaturito dal ricordo delle mobilitazioni operaie e sociali del secolo
precedente, e dai milioni di morti ed immani distruzioni delle due guerre, è
però alfine crollato sotto la spinta di un mondo che cambiava troppo velocemente. Ancora
non abbiamo compreso bene perché.
Sulle ceneri di quel paradigma, e delle
istituzioni sociali che lo sostenevano (e che hanno continuato, in alcuni
luoghi meglio in altri peggio, a sopravvivere alle loro ragioni ed al loro
assetto tecnologico a lungo), ha preso forma, per tentativi e in modo adattivo
come sempre, un nuovo ambiente sociale ed una nuova cultura distintiva, ma
anche un nuovo sottofondo emotivo. In questo nuovo ambiente dominano le aziende
internazionali volte all’esportazione e con lunghe catene di valore e
produzione, e la finanza internazionale ad esse connessa e funzionale, ma quale
controtendenza si affermano nuovi e vecchi scontri tra poteri e blocchi[2], continua a modificarsi la
piattaforma tecnologica[3] delle nostre vite. Su un
altro piano dominano sempre più emozioni violente e oscure: paura, ansia, aggressività,
angoscia e depressione[4].
La controtendenza che agisce nel
lacerare il tessuto sociale (fino al punto da rendere sempre meno sensato il
termine) è connessa a due vie con il fatto che queste aziende hanno sviluppato progressivamente
immani effetti di polarizzazione spaziale e temporale, che si sono dispiegati
lungo i trent’anni gloriosi di questo paradigma ed oltre, accelerando (d’altra
parte è in questa polarizzazione, e nei differenziali di potere e risorse, che
proliferano[5]).
Si è passati progressivamente ad economie che sono state chiamate “monopoliste”[6] e poi alla loro esplosione
su direttrici internazionali. Come un vecchio treno diesel, la lunga carovana
della nuova globalizzazione (che è sia motore sia effetto di questo nuovo modo
di produzione sociale), ha preso, quindi, gradualmente velocità e a cavallo del
millennio ha iniziato a determinare irresistibili effetti secondari. Tra
questi, due sono da rimarcare per la loro immensa potenza: la crescita
delle ineguaglianze, man mano che vecchi vagoni venivano staccati per
consentire al convoglio la sua accelerazione; e l’autonomizzarsi
progressivo della finanza, trascinata dalla tecnologia e da specifici
interessi nazionali (dello stato egemone centrale).
Un’intera cultura tecnica, una compatta
ideologia e coerenti rappresentazioni sono state costruite per giustificare
questo stato di cose, e gli attori che in esso si muovevano. Le Istituzioni
fondamentali del mondo (FMI, BM) sono state disegnate da Trattati vincolanti
per servire questo mondo ed essere funzionali ai suoi attori chiave. E’
del tutto normale che sia così. La centralità, quasi assoluta, della finanza (i
cosiddetti “mercati”) nel centro stesso del sistema, la sua indispensabilità
per il mantenimento dell’equilibrio, la marginalità oggettiva delle vecchie
Istituzioni nate dai conflitti locali del secolo precedente (i Parlamenti a
suffragio universale, intanto; e poi i sindacati, le associazioni datoriali, le
varie sfere pubbliche nazionali) e delle forze sociali che ad esse si
riferiscono, parlano di un sistema al quale tutte le élite economiche,
culturali e politiche contemporanee sono legate da vincoli di convenienza,
riconoscenza ed identificazione.
Alla fine, però, questo sistema-mondo ha
impattato nei suoi limiti intrinseci (esattamente come il precedente). Ha
teso le sue forze, e sfruttato le nicchie disponibili, a tal punto da non
riuscire più a generare valore a sufficienza da mantenersi attivo e onorare
le sue promesse (per quanto minimali, prima tra tutte di garantire la
crescita economica, ma anche e perciò di riempire di senso la vita[7]). Ha interpretato le
potenzialità della tecnologia emergente, sviluppandone la potenza e
dispiegandone la logica, fino a che quest’ultima ha scavato talmente tanto
sotto i suoi piedi da renderlo instabile. C’è, infatti, una differenza
essenziale tra lo spirito di una tecnica e gli assetti sociali. Mentre la prima
dispiega una sua logica puramente autoreferente, ogni società deve
essenzialmente riprodursi e conservare una sua stabilità, per far questo non
può lasciare indietro la stragrande maggioranza, non può andare sempre dietro
solo al vincitore. Il semplice fatto che le informazioni possano essere gestite
in modo molto efficiente, e trasmettere in tempo reale impulsi economici, senza
riguardo per la materialità dei luoghi nei quali si “poggiano” (e di quelli dai
quali escono) si scontra in modo non aggirabile con la lentezza e la
stanzialità dei sistemi territoriali, della carne e sangue dei luoghi, della
differenza che esprimono. Con lo “spazio” ed il “tempo”.
L’esito è la polarizzazione, e lo
spostamento che rende deserto ciò che era vitale, e iperdenso qualche singolo
luogo. Ma l’esito è anche la folla abbandonata ed individuale dei naufraghi che
sono lasciati indietro (e possono essere ‘lasciati indietro’ anche ceti per
certi versi abbienti, dato che si tratta di termine essenzialmente relativo).
L’esito è anche lo spiazzamento delle Istituzioni, nate per governare questa
incertezza, ed invece da essa governate.
Emerge così la crisi che ci avvolge. Una
crisi che ci fa vedere ogni giorno di più la nudità del re che ci ha governato
per trenta anni.
Ci sono almeno due considerazioni, tra
le tante, da fare in questo contesto:
-
quando un sistema sociale di successo
diventa disfunzionale non lascia la scena senza combattere; perché nessuno lo
fa, e perché gli attori interessati sono diventati centrali nel tempo. Essi
difendono i risultati che hanno ottenuto. Sarebbe ingenuo pensare che non sia
così. Le persone che sono state selezionate in questo ambiente, ed in esso
hanno fatto carriera, sono legate da innumerevoli vincoli di solidarietà, di
interesse e di convinzione con esso e tra loro. Le organizzazioni stesse sono
disegnate e orientate a difenderlo. L’alleanza fondamentale tra la grande
impresa dedita all’esportazione, e socialmente irresponsabile fin nel genoma
(dato che i capitali sono da ovunque ed i clienti pure), e la finanza de
materializzata che impiega risparmi anonimi, sviluppa una pressione enorme sul
mondo della consulenza e, via questo, sulle strutture decisionali ed i relativi
processi.
-
la cultura che si è sviluppata, in
opposizione ai fallimenti della precedente gestalt egemone, ha la sua inerzia e
tende a riprodurre le proprie ricette, ormai diventate dogma. Anche qui,
l’immensa massa di potere e denaro, determina un’enorme capacità di gestione di
informazione, di senso e di relativi veicoli. Una capacità di inquadrare ogni
nuovo problema in vecchie soluzioni che non può essere in alcun modo
sottovalutato.
Rileggere tutto questo assetto, come se
si trattasse di individuare soluzioni razionali a problemi razionali, come se
si trattasse di decidere una nuova ricetta (trattamento del debito pubblico,
soluzione della crisi ambientale e climatica, definizione delle politiche
espansive corrette, bilanciamento della politica commerciale, definizione delle
politiche industriali strategiche) è non comprenderne la natura essenzialmente
sociale e politica della situazione. Inoltre lavora con un’idea di
“razionale” troppo limitata. Queste decisioni vanno prese, e non sono affatto
indifferenti, possono anzi fare la differenza, ma generano sempre una
nuova società. Articolano nuovi vincenti e perdenti, mutano le istituzioni
e la loro programmazione essenziale, ne creano di nuove, inibiscono degli
sviluppi tecnologici e ne favoriscono altri, determinano assetti di potere e
politici, articolano la dialettica tra i paesi e tra quelli che una volta si
chiamavano “blocchi” (e che torneremo presto a chiamare così), cambiano il tono
morale ed emotivo della situazione, sviluppano una nuova teologia (anche
politica[8]).
Dunque facciamo mezzo passo indietro: una decisione pubblica non è un calcolo. Non è l’espressione di una
volontà. Non è un voto. In una decisione pubblica c’è sempre l’attivazione di
un’arena di conflitto e lo spegnimento di qualche altra. Ci sono sempre attori
valorizzati ed altri oscurati. C’è sempre una posta palese ed altre invisibili;
ogni attore ne ha, e non sempre collimano. Una decisione pubblica non è mai
logica. Ha sempre anche un contenuto emotivo ed un significato politico.
Produce, riproduce e celebra dei valori sociali, e dunque è il risultato (e la
matrice) di una società esistente o nascente. Ogni decisione interpreta il
flusso della storia dell’organizzazione o del milieu che è stato attivato per
strutturarla e giustificarla, essa crea sempre alleanze (e non sarebbe
concepibile senza di esse), nasce nel conflitto e lo delimita. Articola una sua
legittimità e dispiega i simboli della competenza e della reputazione.
Per arrivare a definire una decisione
strutturante (ad esempio, come quella di sviluppare una transizione energetica)
bisogna accedere ai problemi, definirli, riconoscerli tali, traguardarne
l’esito. Il “setting decisionale” inquadra le identità valide nel campo
decisionale, i soggetti riconoscibili e gli attori, le istituzioni attivate e
quelle inibite. Per arrivarci bisogna selezionare l’informazione pertinente e
le tecniche “valide”.
Ogni decisione viene presa in condizioni
di scarsità di tempo, di attenzione, di chiarezza ed è un processo sociale e
politico importante in sé. Una sorta di “rituale sacro”, come scriveva James
March[9].
Ogni decisione è in parte mera
applicazione di routine e norme, in parte attivazione di memoria selettiva, in
parte intuizione di nuove possibilità, in parte imitazione, in parte tradizione
e fede. Lavora con scopi, conseguenze future, preferenze future (che sono
sempre gestite strategicamente), con l’informazione (che è fonte di potere, di
garanzia ritualistica, oggetto di strategie, riserva di senso, …).
Un
urbanista americano attivo dagli anni cinquanta ai primi ottanta, Kevin
Lynch, in
“Good city form” del 1981 descriveva i processi decisionali, ad esempio
quelli coinvolti nelle dinamiche territoriali, come un intreccio di catene, o
sequenze, di inferenze e atti che mettono in connessione situazioni, valori e
obiettivi; ma “le parti inferiori di tali catene sono sommerse
nell’abitudine, mentre quelle superiori si perdono tra le nuvole, per essere
rivelate solo in occasioni retoriche”, inoltre e quel che più conta, “catene
differenti si mescolano e si separano in modi confusi, sicché le singole
azioni derivano da molti valori e hanno conseguenze molteplici, che a loro
volta sono collegabili ad altre fonti di valore. Il risultato è un cespuglio [thicklet] piuttosto
che una catena, o più esattamente un cespuglio le cui radici e i cui rami si
intersecano e si innestano gli uni negli altri”[10].
Ci sono due principali “finzioni” (che
svolgono una fondamentale funzione di legittimazione sociale) che vanno
considerate per non immaginare che sia questione solo di definire una buona e
razionale “soluzione”.
- che le
siano scelte ricondotte ai decisori,
- che i problemi
siano ricondotti alle scelte.
Il processo decisionale è essenzialmente
un confronto-scontro che fa uso dei materiali disponibili (tra cui, sia bene
inteso, hanno grande importanza le “riserve di senso” incorporate nelle
norme e nei discorsi normativi ed il loro ancoraggio necessario ed implicito a
densi sfondi sociali) per attivare impulsi di forza, contrattare, formare
coalizioni, stimolare lealtà, riscuotere crediti. I risultati dipendono dalle
preferenze di partenza degli attori e dal potere che può essere mobilitato da
ognuno. Le scelte sono da ricondurre alla sedimentazione (o agglomerazione) di
un “sistema d’azione” efficace (più dei concorrenti) e non ai “decisori”.
I problemi sono definiti insieme alle
scelte (non di rado sono le scelte a individuare i “loro” problemi.
Il significato della decisione assunta,
o che si predilige, incorpora l’informazione solo se questa è collegabile a
storie coerenti e raccontabili. Se fa sistema. Informazioni e processo
decisionale consolidano una struttura di significati nella quale si collocano;
che le sostiene e le crea. In questo senso l’attività decisionale pubblica (ma
anche quella privata) è una sorta di “rituale sacro” e comporta attività
“altamente simboliche”. Come scrive March, “essa esalta i valori fondamentali
di una società, in particolare il concetto che l’esistenza è alla mercé della
volontà umana e che tale controllo si esercita mediante scelte, individuali e
collettive, fondate su un’esplicita previsione di alternative e sui loro
probabili effetti”[11]. Decisione e potere sono
indissolubilmente uniti per via di questa caratteristica simbolica
ineliminabile.
Allora il processo decisionale non è un
luogo “tecnico” (molto spesso, in ogni polemica politica su qualche scelta
pubblica si sente la lamentazione circa l’irrazionalità tecnico-economica della
decisione “politica” assunta), è più la palestra per esercitarsi in valori
sociali, far mostra di autorità, esibire comportamenti distintivi rispetto al
costrutto ideologico centrale (nella nostra cultura occidentale) di ‘scelta
intelligente e consapevole’. La decisione è politica in questo senso. Ogni
scelta e decisione crea il sociale.
Dunque, interagire con questa complessa
dinamica richiede saggezza ed intuito, richiede percezione ed empatia per le
forze in campo e quelle mobilitabili (che in campo possono entrare), richiede
una strategia rivolta a spingere l’intero apparato di dati informativi,
aspettative ed opzioni disponibili in una direzione nella quale si dimostri
produttiva o utile. Cercando di sviluppare in una sola mossa ciò che è
produttivo e gli strumenti per conseguirlo (insieme agli attori).
Considerato tutto ciò si potrebbe
argomentare che la crisi che attraversiamo non è solo un malfunzionamento
essenziale della finanza nel suo ruolo di mediazione tra risparmio ed impieghi
produttivi, che ha avuto sin dal medioevo; non è solo uno scollamento tra la
crescita della produttività e l’occupabilità o la rendita del lavoro, che è in
corso almeno da quattro decenni; non è solo lo spaccamento della società in
enclave incomunicanti ed il rifiuto della parte fortunata di condividere le sue
ricchezze tornate a livelli ottocenteschi; non è solo prevalenza della
competizione e dell’egoismo sulla cooperazione e solidarietà, e relative
emozioni, senza la quale la società precipita nel caos e nell’odio (e nell’ansia).
La crisi è anche una rottura di razionalità nel capitalismo come struttura di
ordine della società. E’ la dimostrazione che le routine e le soluzioni
consolidate nella tradizione sono ormai spiazzate, che anche le nuove non
funzionano più.
Che non abbiamo più parole adatte e
pensieri fecondi, danziamo intorno a ‘dei’ sterili e amiamo le cose sbagliate. Che
dobbiamo reinventarci.
Per questo serve una nuova teoria
critica.
[1] - Finisco per chiamare così, in
modo tranchant, le mobilitazioni populiste in salsa occidentale che abbiamo
visto negli anni Dieci finali. Per una critica più ampia si veda Alessandro
Visalli, Classe e Partito. Ridare corpo al fantasma del collettivo,
Maltemi, 2023.
[2] - Per una conversazione su questi
temi si può vedere il canale di Giacomo Gabellini a questo link.
[3] - Si veda “Appunti
sul mutamento della piattaforma tecnologica del capitalismo contemporaneo”,
20 maggio 2018.
[4] - Si veda su questi temi il lavoro
recente di Vincenzo Costa.
[5] - Si veda, per questo modello
interpretativo che qui non posso esplicitare le Conclusioni di Alessandro
Visalli, Dipendenza. Capitalismo e transizione multipolare, Meltemi
2022.
[6] - Paul Baran, Paul. Sweezy, Il
capitale monopolistico, Einaudi, Torino 1958.
[7] - Si veda su questo il primo e
terzo capitolo del mio libro recente Classe e Partito. Ridare corpo al
fantasma del collettivo, cit.
[8] - Si veda il recente libro di
Geminello Preterossi, “Teologia politica e diritto”, Laterza, 2022
[9] - James G. March, Decisioni e
organizzazioni, Il Mulino, Bologna 1993.
[10] - cit, in. V. Andriello, La
Forma dell’esperienza, 1997, p.74
[11] - James G. March, Decisioni e
organizzazioni, op.cit., p. 383.
Nessun commento:
Posta un commento